Le pietre magiche precolombiane restituiscono un Adamo tecnologico

Le incisioni di Ica propongono uomini, dinosauri e tecniche chirurgiche

(Giuseppe Sermonti)

Nel 1961 il Rio Ica, un secco letto di fiume presso la città omonima, in Perù, inaspettatamente montò in piena e le acque inondarono il deserto circostante trascinando in superficie una quantità di pietre incise, con le raffigurazioni più disparate e sorprendenti. Esse finirono nelle mani di poverissimi campesinos che si misero a raccoglierle, a ve[n]derle e, a loro dire, a costruirne di false (un modo pare, per consentire loro di vendere ciò che sarebbe state vietato, cioè reperti archeologici originali). Nel 1966 Javier Cabrera, un medico locale, ricevette in dono un esemplare con inciso uno strano rettile. Affascinato dall’oggetto si dedicò al reperimento di altre pietre incise e in pochi anni ne collezionò più di diecimila.

Delle pietre di Ica si interessarono anche alcuni archeologi peruviani, che le classificarono come “pietre magiche di culture precolombiane” o come “misteriose pietre del deserto di Ocucaje” (El Commercio, Lima, 11 dic. 1966). Le incisioni erano insolite e arcane, e presentavano, tra oggetti di una remota arcaicità, uomini dai lunghi nasi e dai tratti di una razza ignota. Quanto erano antiche quelle pietre incise? Un primo esame dello strato di ossidazione che copriva le incisioni assegnò a queste 12.000 anni.

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Le colonne d’Ercole

Nella memoria di tutti sono sempre state tra Mediterraneo e Atlantico, ma non era quella la loro collocazione originale

Finora tutti credevano che fossero nello stretto di Gibilterra, invece si trovano tra Sicilia e Tunisia


ercole01Chi e quando ha messo le Colonne d’Ercole a Gibilterra? Davvero Ercole? E come mai laggiù? E perché tutti quei miti sono affogati là fuori, dove i Greci più antichi non arrivavano. Davvero l’Oceano Atlantico è il Far West dei primi navigatori? E quegli enigmi che affollano la prima storia mediterranea non sono forse soltanto dei malintesi?

Cos’è stato? Un sogno? O era, piuttosto, un’allucinazione? Un miraggio no, perché poi ho controllato, controllato, controllato. E controllato di nuovo. E sto controllando ancora adesso. E ne ho già parlato, in segreto, con dei saggi davvero saggi, che mi dicono che sì, che è possibile, probabile, molto probabile… E che è già capitato per tanti altri luoghi, e che, quindi…

Comunque è successo tutto all’improvviso. Ecco, è stato un flash, un lampo: roba di un attimo, di quella che, però, ti buca gli occhi, ti mette gli spilli nella schiena, ti scioglie le ginocchia, ti cambia lo sguardo.

Come raccontarlo…

Ho tolto le Colonne d’Ercole a Gibilterra. Le ho rimesse dove iniziavano le Terre di Eracle-Melqart, Dio di tutti i Fenici e dei loro mari. Le ho rimesse dove Sabatino Moscati diceva che iniziava la Cortina di Ferro dell’Antichità, dove Esiodo mette la sua Soglia di Bronzo che divide il Giorno dalla Notte. Le ho rimesse al Canale di Sicilia: la zona blindata, la Frontiera, il Confine. Al di là di Malta c’era il Far West degli antichi Greci; i fondali infidi controllati dai Cartaginesi e dalle loro navi, vietati a chiunque fenicio non fosse.

Tolte le Colonne a Gibilterra, e…

E’ bastato un attimo: è stato lo spettacolo più maestoso e possente che si possa immaginare. Come raccontarlo? Inimmaginabile se non lo si vede. Come dover raccontare le Cascate Vittoria, giù in Africa, quando d’improvviso lo Zambesi – che fin lì sembrava tutto tranquillo – si piega, invece, ad angolo retto per un fronte di un chilometro e corre a suicidarsi giù, in quel canyon stretto stretto, di basalto nero lucente.

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La fine dell’Età del Bronzo

Mille anni prima di Cristo, il passaggio all’età del ferro forse fu una battuta d’arresto.


ESIODO, nella Teogonia: “E della Notte oscura la casa terribile s’innalza. Di fronte ad essa il figlio di Giapeto (Atlante. ndr) tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia – saldo – là dove la Notte e il Giorno, venendo vicini, si salutano passando alterni la Grande Soglia di Bronzo…”. Marco Politi su La Repubblica: “Una preghiera breve, un faticoso rialzarsi e infine la mano del Papa afferra le maniglie dei grandi battenti di bronzo (prima l’una e poi l’altra, lentamente) e chiude la magica Porta”. Tra la Soglia di Bronzo di Esiodo, sorvegliata dal titano Briareo sepolto sotto l’Etna dei mille fuochi, e quella sbarrata da Giovanni Paolo II, Pontefice romano a fine Giubileo 2000, ci sono in mezzo – grosso modo – 27 secoli. Quasi 3000 anni durante i quali quella Magica Porta e senza dubbio il bronzo di cui è composta hanno conservato intatta la loro sacralità.

E’ un giallo, il bronzo. Un vero giallo: diventa santo solo quando scompare, nel XII secolo a.C. Diventa sacro con l’Età del Ferro. Da allora lo è sempre stato: reliquia di un tempo bello che fu. Un mistero “come” e “perché”, a un certo punto, qui da noi, in Occidente e in Grecia, per secoli sparì. Per farlo, prima, mica bastavano rame e stagno: servivano i Maestri delle Montagne che sapessero capire il terreno, bucarlo, trattarlo. E navi attrezzate, pronte a trasportarlo. E gente in grado di cuocerlo tutto insieme, quanto basta, nascondendone i segreti. Tutta un’imponente organizzazione – una vera e propria Internazionale del Mare e del Commercio mediterraneo – che, però, d’improvviso nella prima metà del XII secolo scomparve. Bronzo. Bronzo medio. Bronzo medio finale. Bronzo medio finale quasi finito… Dalle autopsie degli archeologhi la sua sembrerebbe una lunghissima agonia. Ora, invece, si è capito che il bronzo morì di colpo: dopo quel misterioso cataclisma che dodici secoli prima di Cristo ruppe il mare, si riusò a lungo materiale che c’era già. Sia in Grecia che da noi fusero e rifusero. E rifusero ancora roba vecchia, per secoli, prima di rimettersi sotto a farne di nuovo.

Come mai? Per risolvere il giallo c’è una pista tutta italiana fatta di reperti conservati sotto gli occhi di tutti: al Museo Etrusco di Valle Giulia a Roma, o all’Archeologico di Bologna, o a quello di Firenze, o ad Arezzo, Volterra, Populonia, Cagliari, Sassari, o le sale appena riaperte a Nuoro. È lì che è possibile rintracciare strani gemellaggi, sufficienti, però, a istruire un processo indiziario: com’è morto il Bronzo? E perché, poi, è diventato così santo? Per tutto il ‘900 – si sa – ha trionfato Darwin. Come se andasse sempre avanti l’evoluzione. Ora, e solo da un po’, si è capito che la storia dell’uomo è più simile al Gioco dell’Oca: avanti, avanti, avanti, e – d’improvviso – un salto indietro, o un altolà: una Dark Age, o un Diluvio… L’archeologia Usa per il Bronzo ha messo a fuoco una bella teoria: il ferro?

Sarebbe stato un salto indietro, un ripiego, non un’evoluzione. Interrotte, squassate da cataclismi, le reti commerciali che garantivano l’apporto di stagno (indispensabile per far bronzo) dal Grande Nord – attraverso il Rodano, molti porti, qualche isola e mille navi – dappertutto si fu costretti ad arrangiarsi con la “nuova” scoperta: il ferro. Roba difficile, nel Mille avanti Cristo: 1600 gradi, una vera magia riuscirci. Mircea Eliade – di questa diaspora di metallari d’improvviso in giro tutt’insieme – scrive: “A diversi livelli di cultura sembra dunque esistere un intimo legame fra l’arte del fabbro, le tecniche occulte (sciamanesimo, magia, guarigione) e l’arte della canzone, della danza, della poesia”. Tutti quelli che diffondevano la nuova mitologia, insomma. E infatti – morto il Bronzo – viva il Ferro. Viva il Ferro e tutte le credenze e sacralità che dal Mille in poi si porta dietro: bronzo compreso, come Reliquia e Rimpianto.

Il ferro da noi è firmato da fabbri Etruschi. A Canaan da fabbri Filistei, i Superstiti delle Isole. Dietro le Alpi da Celti che decoravano di palme cento loro oggetti… Seguiamole le tracce del Bronzo Sacro, ma solo in Etruria. Come mai nelle loro prime tombe (tra l’VIII e V secolo) ne trovi così tanto? E come mai, così spesso, lavorato alla sarda? Ma nell’isola quelle statuine fuse a cera persa stavano lì come offerta, saldate con un perno e piccole goccie di piombo fuso, sugli altari di nuraghi o di santuari fatti apposta. Tra gli Etruschi, invece, le trovi in tombe, ad accompagnare il morto nel suo viaggio all’Aldilà.

Sciamani, navicelle, sculturine: tutti lì intorno, come a circondarlo di Sardegna. Che ci fanno là dentro? Nel volume Etruria e Sardegna tra l’Età del Bronzo finale e l’Arcaismo quelle sculturine fanno da protagonisti: ne parlano sia Giovanni Lilliu che Gilda Bartoloni dei 130 bronzetti sardi rintracciati in tombe dell’Etruria mineraria. Lilliu, scientifico, li ha già studiati a fondo. Qui, stavolta, mette in fila chi, dall’800 a oggi, ha tentato di scassinarne l’enigma. Tutti insieme fanno riflettere. Uno per tutti, Rainer Pauli: “Tutta la metallurgia sarda appare più antica di quella etrusca”. E: “Presso gli Etruschi i bronzetti nuragici continuarono a essere usati di generazione in generazione, come antichità insostituibili”. La Bartoloni non si sbilancia più di tanto. A forza di archiviare in sequenza i reperti trovati a Populonia, però, finisce per dirti tutto: “Nei contesti populoniesi sono attestate quasi tutte le categorie di manufatti sardi o di mediazione sarda…”. Ed elenca armi, spade, pugnali, pendenti, appliques, bottoni, faretrine, brocchette dal collo obliquo… Sembrerebbe un trasloco di fabbri e minatori sardi. Invece – e da secoli – è un mistero.

Il passo successivo, il più semplice – quello “indiziario” che, però manda avanti la giustizia nel mondo – in archeologia non ci si azzarda a farlo: mica si dice che, probabilmente, se accanto al caro estinto qualcuno mette roba sacra sarda – e spesso vecchia di secoli, come fossero “gioie care di famiglia”, scrisse anche Michel Gras – è forse perché quel ricordo è sacro non solo al morto ma anche a chi, innamorato e straziato, quel suo morto l’ha dovuto seppellire. Così il censimento di quei bronzetti sardi, spaesati in Toscana, o sull’Appennino, o giù a Crotone, invece di far indagare su una possibile, colossale, emigrazione dalla Sardegna del Mille, trasloca da decenni da un catalogo etrusco all’altro: ma come fossero variabili impazzite tra gadget greci per l’Aldilà. Doni di matrimonio, si dice. Regali tra principi, si dice anche…

Eppure, per uscire dalle vaghezze, un modo ormai ci sarebbe. Raimondo Zucca, archeologo e docente all’Università di Sassari, un’idea ce l’ha: “In attesa che si potenzi l’archeologia subacquea – l’unica in grado di restituire voce anche al nostro Mar d’Occidente, purtroppo, ancora muto – servirebbe un vero colpo d’ala: catalogare per bene, di nuovo, tutto il bronzo saltato fuori nelle zone etrusche – quelle campane comprese – e ricominciare a ragionarci sopra. E farlo non solo con occhi freschi, sgombri da pregiudizi, ma anche aiutandosi con la chimica dei metalli ormai in grado di mostrarci con precisione persino i luoghi di provenienza del rame e dello stagno serviti a fabbricarlo, quel bronzo”.

E Giovanni Colonna, grande etruscologo, suggerisce una chiave per l’ordine nuovo ancora tutto da fare. Ricorda infatti a tutti l’etimologia primaria di Tirreni, da cui il termine Etruschi derivò: “da “tyrseis” ovvero torri”. Come dire: Tirreni Uno, i Sardi. Tirreni Due: i Sardi della Diaspora, ovvero g1i Etruschi dei Mille Metalli.

A bilancio dell’indagine, il Bronzo Sacro (degli Etruschi) si calamita dietro, nell’ordine, i seguenti indizi: il doppiofondo di un nome (Tirreni uguale Costruttori o Abitanti di Torri); una testimonianza seria come quella di Strabone (che giura su una Sardegna abitata dai Costruttori di Torri/Tirreni, in tempi antichi, prima dei Fenici; prima del X secolo a.C., dunque); l’imponente sviluppo di tombe etrusche che, però, spesso evocano forme e volte di nuraghi, ma come seppellite dal fango; fiammate di metallurgia improvvise in zone della penisola ricche di minerali giusti. E, in più, un’analisi come quella di Colonna il quale, seppur con le sacrosante cautele d’accademico, verbalizza: “Abbiamo creduto di poter identificare, attraverso gli scarni echi dell’opera di Filisto (storico del IV secolo a.C., ndr) giunti fino a noi (…), la formazione di un “Popolo delle Torri” in Sardegna e quindi il suo trasferimento in Etruria, dove i Tirreni erano “abitanti delle torri” solo di nome e non di fatto”.

Artemide

Per secoli gli storici hanno dibattuto su cosa pendesse sul suo torace. Finché un archeologo svizzero…


artemideEFESO (TURCHIA) – Davvero tutti seni? Anzi “mammelle”, come con linguaggio crudo giuravano i referti archeologici? O, invece, erano melanzane? O, piuttosto, uova di struzzo? Possibile seni mozzati di Amazzoni? Strana pista davvero, questa, stavolta… Strana per millenni anche lei, però: la misteriosa Artemide, Nostra Signora dei Turchi, che quel prodigio-rompicapo ha sempre esibito sul torace…

Hierapolis. Missione archeologica italiana a Hierapolis, una delle città-spettacolo dell’Asia minore lungo la via reale che legava i centri della costa con l’interno. Si era a metà anni ’70 del secolo scorso quando le équipe del Cnr, del Politecnico di Torino e dell’Università di Lecce, scava scava, fecero saltar fuori i blocchi di un fregio che ora – almeno a vederlo al museo di qui – sembra quasi un fumettone pietrificato. Vi appare – pietra dopo pietra, rilievo dopo rilievo – una lunga processione di tori condotta da fedeli bardati a festa. Meta finale di quella sfilata taurina il Santuario di Artemide ad Efeso, a un centinaio di chilometri da Hierapolis.

Efeso. Il tempio di Artemide, ad Efeso – l’Artemision – era talmente bello, e ricco, e stupefacente che finì nel listone delle Sette meraviglie del Mondo Antico. Del resto già il primo di Artemision, quello del VI secolo – che un incendiario poi, nel 356 a.C. distrusse – era sorto per stupire in una zona sacra da sempre. Al re Creso, che aveva conquistato la città, i soldi non mancavano: era il sovrano di Sardi, lui, la prima città a far monete da cui Erodoto ci fa arrivare – tornare? – qui in Italia i suoi Tirreni dopo gli anni d’Oriente.

Così, grazie al re, ne era venuto fuori un colossale portento: 50 metri per 103, il triplo del Tempio di Zeus a Olimpia. Le sue colonne? Quasi il doppio – 19 metri – delle più alte mai viste fino ad allora. E fregi lunghi 300 metri; e teste di leone; e fatiche di Ercole; e la guerra di Troia… Ne parlò il mondo intero, poi, quando bruciò. Una ricostruzione lampo e per mezzo millennio ancora – fino ai Goti qui a saccheggiarlo nel 262 d.C. – la sua descrizione viaggiò di bocca in bocca, di pagina in pagina, tutto il Mediterraneo. Filone di Bisanzio: “Chiunque l’abbia visto crederà che qui vi sia stato uno scambio vicendevole tra l’uomo e il Supremo”.

È una bellezza anche oggi Efeso, ora che del tempio rimangono solo un po’ di colonne per terra, là, sul pavimento a evocarne la grandiosità. Sarà quella sua lunga discesa ancora perfetta di lastroni consunti che sembra cera fusa, solidificata. O gli edifici che la bordano spesso ancora su, a due piani. O i decori pazzi, a trapano, che esagerano dappertutto? O il Teatro, uno dei meglio conservati rimasti. Certo, c’entreranno un po’ anche i marchi degli austriaci: qui han fatto prodigi di scavi e restauri… Fatto sta che Efeso ancor oggi da l’idea di farti camminare in una città santa. Santa e ricca: uno dei posti antichi più belli del mondo.

Tutto il merito va alla padrona di casa, Artemide, vera divinità multiuso: efficace per puerpere e maritate, ma anche nutrice di tutti gli animali ed esseri viventi. Già i Greci la chiamavano polymastos ovvero “dalle molte mammelle”. San Girolamo tradusse in latino – multimammiam – e così, superdotata, entrò nelle classificazioni rinascimentali che scaffalano ancor oggi la nostra cultura.

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I rotoli del Mar Morto 2.0

Una nuova tecnica, un team di scienziati provenienti da più discipline e il contributo di Google: i Rotoli del Mar Morto saranno presto fruibili anche in rete. I testi, che custodiscono alcune delle più antiche e preziose testimonianze della cultura ebraico – cristiana, saranno digitalizzati con un approccio e una tecnologia all’avanguardia che permetterà agli studiosi di andare ancora più a fondo nella loro decifrazione.

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I Rotoli del Mar Morto – i più antichi testi biblici al mondo (e in assoluto i testi più antichi di sempre) – si preparano ad essere scannerizzati con un’attrezzatura speciale ad alta risoluzione per le immagini. L’obiettivo è quello di permetterne lo studio e la visione anche online, come annunciato martedì dall’Autorità per il Patrimonio Archeologico Israeliano (IAA) e dal motore di ricerca Google.

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Scoperta a Zurigo la “porta del tempo”

Un varco temporale verso un’epoca remota, lontana circa 5mila anni. Ha un fascino misterioso la porta in legno rinvenuta a Zurigo durante gli scavi per un parcheggio sotterraneo: risalente a un periodo a cavallo tra il 3700 e il 2500 avanti Cristo, sarebbe la più antica d’Europa. Ancora in buona stato la porta è in legno di pioppo, sono ancora visibili i cardini ed è stata definita “solida ed elegante” dagli archeologi

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Risolto il mistero dei Rotoli del Mar Morto?

Nuove scoperte potrebbero finalmente rivelare chi scrisse i celebri rotoli. E alcuni indizi suggeriscono che potrebbero avere la stessa origine dell’Arca dell’Alleanza.

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Parti dei Rotoli del Mar Morto esposti nel Museo d’Israele di Gerusalemme nel 2008. (Fotografia di Baz Ratner, Reuters)

Gli scavi condotti negli antichi tunnel di Gerusalemme, la recente decifrazione di un’enigmatica coppa e altre indagini archeologiche potrebbero contribuire a risolvere uno dei grandi misteri biblici: chi scrisse i Rotoli del Mar Morto?

I nuovi indizi suggeriscono che i Rotoli, che comprendono alcuni fra i più antichi documenti biblici, potessero costituire il patrimonio scritto di alcuni gruppi che li avrebbero nascosti durante un conflitto; ma potrebbero anche rappresentare “il grande tesoro del tempio di Gerusalemme”, quello che secondo la Bibbia custodiva l’Arca dell’Alleanza.
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Scoperta in Brasile la vera Eldorado?

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La leggendaria El Dorado esiste davvero. La mitica citta’ d’oro alla cui ricerca partirono prima i conquistadores e poi diversi esploratori trovando la morte nella foresta amazzonica, e’ finalmente venuta alla luce nel Brasile occidentale vicino al confine con la Bolivia, grazie a nuove immagini satellitari e a fotografie aeree di zone disboscate per far posto ai pascoli.

Secondo quanto riporta la rivista britannica Antiquity, si tratta di oltre 200 strutture circolari e poligonali, disposte in una precisa rete geometrica che si estende per una lunghezza di oltre 250 chilometri. Secondo gli scienziati che hanno mappato la rete di muri e trincee che collegano gli edifici, quanto scoperto finora potrebbe essere soltanto un decimo di quanto fu costruito da una complessa e finora sconosciuta civilta’ precolombiana esistita per almeno un migliaio di anni.

Alcune delle strutture risalgono infatti al 200 d.C., altre al 1283 e gli studiosi credono che potrebbero esserci ancora circa 2.000 edifici nascosti sotto la fitta giungla. Secondo alcuni antropologi, la costruzione di una rete cosi’ estesa, sofisticata dal punto di vista ingegneristico e ricca di canali e di strade, sarebbe paragonabile in quanto a scala e difficolta’ a quella delle piramidi in Egitto.

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Nazca Lines: The Buried Secrets

In southern Peru lies one of mankind’s greatest mysteries – 1000’s of giant shapes etched into the desert sands. We reveal who made them and why.

Produced & Directed by Philip J Day
Edge West Productions
for National Geographic
Nasca Lines: The Buried Secrets on National Geographic

Etched, as if by giants, onto the arid moonscape of Peru’s southern desert lies one of man’s greatest mysteries; the Nasca Lines. More than 15,000 geometric and animal-like patterns have been discovered criss-crossing the pampas like a vast puzzle. Who built them and what was their purpose? Ancient racetracks, landing strips for aliens, or perhaps a giant astronomical calendar? And are the Lines connected to the gruesome discovery of large cache’s of severed human heads. Now, after decades of misunderstanding, modern archaeology may finally have the answer.

Excavations in the surrounding mountains are uncovering extraordinary clues about the people who made them and why. A long since vanished people, called the Nasca, flourished here between 200BC and 700AD. But the harsh environment led them to extreme measures in order to survive.

Archaeologist Christina Conlee recently made an extraordinary find: the skeleton of a young male, ceremonially buried but showing gruesome evidence of decapitation. In place of the missing human head, a ceramic “head jar” decorated with a striking image of a decapitated head with a tree sprouting from its skull.

Conlee wonders who this person was? Why was he beheaded and yet buried with honor. Was he a captive taken in battle, or could he have been a willing sacrifice? And did his decapitation have anything to do with the lines? The discovery of large caches of human heads adds grisly weight to Conlee’s theories and helps unravel on of man’s great mysteries.

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