L’Arte di ascoltare di Plutarco: una metodologia per preparare i ragazzi allo studio della Filosofia.

L’arte di ascoltare è un trattato morale e pedagogico scritto da Plutarco nel I-II secolo d.C., che fa parte delle sue Moralia, una raccolta di saggi su vari temi filosofici e culturali. In questo testo, Plutarco si rivolge a un giovane Nicandro, che sta per iniziare il suo apprendimento della filosofia, e gli offre dei consigli preziosi su come ascoltare con attenzione e discernimento le parole dei maestri. Plutarco sostiene che l’ascolto è la base per raggiungere la conoscenza di sé e la saggezza, e che bisogna evitare le distrazioni, le pretese e le opinioni infondate che possono ostacolare la comprensione del vero.

L’arte di ascoltare può essere considerata come una metodologia di approccio per i fanciulli allo studio della filosofia, perché insegna loro a sviluppare alcune abilità fondamentali per il pensiero critico e la riflessione personale. Tra queste abilità ci sono:

  • La capacità di formulare domande pertinenti e stimolanti, che portino a esplorare i problemi filosofici in modo approfondito e originale.
  • La capacità di ascoltare con curiosità e apertura le diverse prospettive dei filosofi, senza giudicare o imporre la propria visione.
  • La capacità di confrontarsi con gli altri studenti o con i maestri, scambiando idee e opinioni in modo costruttivo e rispettoso.
  • La capacità di valutare il proprio ragionamento, verificando se è coerente, logico ed efficace.

Per applicare l’arte di ascoltare allo studio della filosofia, si possono seguire alcuni suggerimenti pratici:

  • Prima di leggere o ascoltare un testo o una conferenza filosofica, prepararsi informandosi sul contesto storico-sociale in cui è stato scritto o pronunciato il pensiero.
  • Durante la lettura o l’ascolto attento del testo o della conferenza filosofica, prendere appunti su i concetti chiave, le argomentazioni principali e le fonti citate.
  • Dopo la lettura o l’ascolto del testo o della conferenza filosofica, riassumere con parole proprie il contenuto principale, evidenziando i punti salienti e le domande rimaste irrisolte.
  • Infine, confrontarsi con gli altri studenti o con i maestri sul testo o sulla conferenza filosofica appreso, esprimendo le proprie opinioni critiche ma anche aperte al dialogo.

Per approfondire è possibile consultare i seguenti siti web:

Il Djed e la Barca Neshmet ad Abydos

Barca Neshmet

Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

The Phoenix and the Lotus blossom

Photo by the Author

Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

Platone - Non dualità

Materiali di Ecofilosofia

www.filosofiatv.org

DALLA PARTE DELLA SAGGEZZA NON-DUALE

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

di Paolo Scroccaro

La metafisica della non-dualità, ossia la saggezza nel suo significato più profondo, è perlopiù ignorata, deformata o vista con supponenza dalla subcultura contemporanea ormai dilagante, che al massimo la considera un orpello museale. Con questo intervento, estraneo alla retorica tradizionalista, si tenta di restituirne per sommi tratti il senso più essenziale, mostrandone l’importanza per il nostro tempo.

Oblio della verità e violenza

L’età moderna e contemporanea sembra aver rinunciato alla filosofia come ricerca della saggezza, tramite un lungo percorso che si snoda attraverso le varie filosofie che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, quanto meno da Cartesio in poi.

Sarebbe interessante riflettere sulle modalità che via via, a partire dalla sfera teoretica-epistemologica, hanno permesso di mettere al bando l’intuizione intellettuale, e con essa l’apertura al Tutto incircoscrivibile, determinando così una serie di contraccolpi a livello materiale e spirituale, che nel loro intreccio costituiscono la civiltà occidentale moderna, ormai per altro estesa anche alle aree orientali, sempre più occidentalizzate.

Gli spazi un tempo vivificati e illuminati dalla saggezza aperta al Tutto, sono stati così occupati da forze invasive che sembrano alimentare la loro esistenza proprio in assenza di tale orientamento correttivo: tra queste, le più prepotenti sembrano essere le forze economiche del mercato e della pianificazione, l’esaltazione tecnocratica, la scienza dominante o “normale (nel senso di Thomas Kuhn), e le politiche ad esse asservite. Storia dei nostri giorni.

Molto spesso queste forze, quasi per sgravio di coscienza, tentano di giustificare il ripudio della Saggezza tradizionale, rileggendo la storia di essa come storia di violenza, di imposizione, di esclusione… anche se queste forze che denunciano possibili prepotenze altrui, in realtà hanno generato dispositivi e meccanismi di sopraffazione e di dominio, tra i più potenti ed efficaci in assoluto, grazie soprattutto alle superiori capacità operative dell’Apparato tecnico-scientifico dominante.

Si tratta di temi che abbiamo in parte già affrontato, prendendo a pretesto vari autori.

Limitiamoci ora al primo aspetto: la Saggezza tradizionale è intrinsecamente correlata a forme di violenza e sopraffazione?

Questa tesi ritorna spesso negli autori contemporanei: per farsene un’idea, basterà considerare certi testi, espressione della mentalità corrente, quali ad esempio La società aperta e i suoi nemici, di K. Popper, oppure, su un altro piano, Il regime della verità, di E. Pace.

K. Popper considera la metafisica platonica, con le sue pretese di verità, come un sistema chiuso, dogmatico, nemico del pluralismo …, ne discenderebbe una dottrina sociopolitica totalitaria, come quella che sarebbe delineata in Stato e ancor più in Leggi. Le critiche, apertamente o velatamente, riguardano tutte le filosofie che in una forma o nell’altra vorrebbero imitare il Platonismo.

Secondo un’opinione corrente, le pretese di possedere la Verità, avrebbero due espressioni privilegiate: la metafisica (sul modello di Platone), e la religione (sul modello del fondamentalismo).

Con quest’ultimo se la prende E. Pace, criticando il fondamentalismo islamico, evangelico etc., poiché l’integralismo religioso, in nome della Verità, pretenderebbe di imporre con la forza un regime autoritario, che di tale presunta Verità trascendente vorrebbe essere la proiezione nella storia.

Più in generale, le pretese della metafisica e del fondamentalismo (che in realtà sono molto diverse) vengono accusate di riduzionismo e di volontà liberticida, poiché tenderebbero a ridurre la ricchezza, la molteplicità del reale, ad un Principio unico, che nelle diverse correnti spirituali prenderebbe il nome di Dio, Assoluto, Fondamento, Bene … o più semplicemente Uno, termine che ricapitola tutti gli altri.

È diffusa l’espressione monismo, a volte in senso spregiativo, per riassumere il carattere essenziale di quelle visioni del mondo che sarebbero penalizzate da un’impostazione unilaterale, volta a ridurre ad un solo termine tutto ciò che è. In effetti, tale locuzione è comunque da prendere con le riserve del caso, per motivi facilmente intuibili[1] .

Perfino le accuse di Heidegger e Severino alla metafisica, anche quando non coincidono con quelle di cui sopra, risentono a vario titolo di tale pregiudizio antimetafisico, fatto che meriterebbe di esser approfondito a parte. Esaminiamo ora gli aspetti principali del problema posto, alla luce di una domanda di fondo: cosa c’entra la metafisica non-dualistica con il riduzionismo monistico?

Come intendere l’Uno?

Poniamo subito un criterio metodologico di onestà intellettuale, che non dovrebbe mai esser disatteso: quando si giudica una corrente spirituale, il punto di riferimento per una seria disamina deve essere cercato nelle sue manifestazioni più autentiche, e non in quelle più degenerate o comunque controverse che certo non possono mai mancare nella storia!

Non possiamo penetrare l’insegnamento di Gesù, di Muhammad, di Shankara, di Plotino o altri speculando sulle perversioni teoriche e pratiche dovute all’inquisitore medievale, al prete sprovveduto, al fanatico integralista, al millantato guru e così via …

La mediocrità intellettiva di troppi discepoli presunti tali o degli eruditi, non sarà di alcun aiuto ai fini della comprensione della dottrina. Nel caso della nozione di Uno (e di molte altre), vengono ripetute con sospetto fervore semplificazioni non sempre lecite, non sempre coerenti, che in gran parte sono state raccattate qua e là ignorando il criterio di onestà intellettuale sopra segnalato, per malafede o imperizia: esse non possono pretendere attenuanti, anche perché le fonti non mancano, e qui ci limiteremo a qualche esempio, di volta in volta.

Giova ripetere una volta di più un tratto basilare di qualsiasi metafisica non-duale: dicendo che il Principio, o l’Assoluto, o Dio, o il Fondamento, o Brahman … è Uno, si afferma qualcosa che si impone intuitivamente e logicamente per la sua trasparenza, incontrovertibilità e semplicità.

Anche se i vari termini manifestano sfaccettature di significato un po’ diverse, essi presentano altresì una linea di continuità. Come potrebbe il Principio, o l’Assoluto etc. esser duplice? Due assoluti si limiterebbero a vicenda, per cui non potrebbero esser tali, per la contraddizione che non lo consente.

Di qui una qualche preferenza accordata al termine Uno per indicare la Realtà Assoluta, accanto ad altre espressioni che, per altri seri motivi, sono da sempre utilizzate in metafisica e in certe religioni (soprattutto nelle rispettive interpretazioni esoteriche).

In questo contesto, può comparire anche l’espressione non-dualità, per mettere tra l’altro in risalto che il Principio è per forza esente da dualità, dato che essa comporterebbe anche limitazione, il che non può essere nel caso dell’Assoluto.

La dualità si addice invece agli enti, i quali sono necessariamente caratterizzati da qualche aspetto limitativo che li distingue dagli altri.

L’Uno, cioè l’infinito non-duale

Ovviamente il Reale-Assoluto, essendo Uno per definizione, nulla può avere fuori di sé, altrimenti sarebbe limitato da una realtà ulteriore: perciò si dice che l’Uno è Incondizionato, senza secondo, o se si preferisce Infinito. Essendo tale, è per forza di cose onnicomprensivo. In un certo senso, solo l’Uno, cioè l’Infinito, è[2] , nulla potendovi essere in aggiunta, ed essendo tutto da sempre (eternamente) già incluso nell’Infinito, che altrimenti non sarebbe tale…

Ciò non comporta la nientificazione degli enti finiti e molteplici, come talvolta si crede: semplicemente, gli enti tutti, senza alcuna eccezione possibile, sono reali non in quanto separati ma in quanto partecipano dell’Infinito, che può quindi essere immaginato come una Dimora Ospitale che, essendo Infinita, accoglie da sempre tutti gli enti senza preclusioni di sorta.

Se l’Infinito fosse inospitale ed escludesse qualche ente, in quanto tale questi dimorerebbe altrove, ma allora ciò che si considera l’Infinito non potrebbe esserlo, anche qui per la contraddizione che non lo consente.

Quanto detto è più che sufficiente per intuire che la metafisica dell’Uno, cioè dell’Infinito, cioè della Non-Dualità[3] , lungi dall’avere quel carattere riduttivistico che alcuni hanno ad essa abusivamente rimproverato, per superficialità o altro, permette invece un pluralismo integrale[4] , proprio perché è la Parola di quella Casa Ospitale, che da sempre è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente[5].

Gli abitatori dell’infinito

Gli enti, umani e non, sono da sempre chiamati a raccolta nell’universale dimora dell’Infinito: è questa consapevolezza che si richiede anche all’uomo, affinché il suo abitare non pretenda di diventare invadente nei confronti dell’altro Ente, richiedendo impossibili privilegi nell’economia del tutto.

Antropocentrismo, Utilitarismo, Apparato tecnico-scientifico … sono alcune delle espressioni dell’arroganza umana, che vorrebbe imporre l’impossibile: vorrebbe cioè che la Dimora Ospitale dell’Infinito diventasse una Dimora Inospitale ad uso dell’uomo, e specialmente di certi uomini, quelli che, oggi, operano per conto dell’Apparato, essendone i funzionari.

In alternativa, ricorderemo che l’umiltà dell’abitatore ospitato e riconoscente trova invece una sublime esemplificazione nella metafisica dei Pellerossa, presso i quali è tradizionalmente molto vivo il sentimento dello “esser ospitati” nel mondo, il che spiega molto bene perché essi abbiano solo sfiorato la Terra, invece di calpestarla[6].

La natura dell’errore, cioè della violenza

Ecco la radice dell’errore, cioè di qualsiasi errore in quanto tale: l’inospitalità, l’arroganza. Essa si mostra quando un qualunque ente finito (si prenda il termine in un senso molto estensivo e variegato – anche un’ipotesi scientifica è un ente finito) pretende l’impossibile, cioè di farsi esso stesso Assoluto[7], volendo tenere solo o principalmente per sé la Dimora dell’Infinito, dimenticando che, nell’Infinito, qualsiasi ente è a casa propria, e non solo alcuni.

Da sempre, la metafisica, o se si preferisce la sophia perennis, è impegnata a denunciare la struttura fondamentale dell’errore, consistente nello scambiare il relativo con l’Assoluto, il finito con l’Infinito, l’Abitatore con la Dimora, la Parte con il Tutto…

Alcune immagini elaborate nelle scuole spirituali, o forse donate dagli dei (si sarebbe detto in altri tempi), per condurre gli umani erranti ed educarli all’Ospitalità, sono celebri e particolarmente suggestive: esse hanno contribuito ad orientare le civiltà del passato, in Occidente come in Oriente, conferendo ad esse misura e dignità, limitando la tracotanza della parte umana degli Abitatori dell’Infinito.

Occorre ammettere che nel mondo moderno e contemporaneo, tali insegnamenti vengono per lo più ignorati, se non derisi, e la supponenza della parte umana ha raggiunto livelli che un tempo erano impensabili: l’uomo dell’Apparato tecnico-scientifico e delle forze economiche dominanti pensa, anzi crede, di essere il padrone della Dimora dell’Infinito; crede che gli enti siano manipolabili a piacimento; crede di custodire la chiave che apre e chiude la porta della Dimora, facendovi entrare ed uscire gli enti, a comando; crede che tutto questo generi qualcosa di positivo, cui ha imposto dei nomi rassicuranti: Sviluppo, Progresso, P.N.L., Benessere, Felicità per il maggior numero …[8].

Molti di quei saperi che oggi portano il nome di Scienza in generale, ma che in realtà ne sono solo una componente (e non certo la migliore), sono espressione del sistema dominante, e in quanto tali sono finanziati, protetti, diffusi, imposti nelle scuole e nelle università, nella misura in cui sono funzionali ai progetti operativi della volontà di potenza che vuole padroneggiare la Dimora dell’Infinito; essi sono in contrasto con i saperi indipendenti, e non hanno più nulla in comune con i saperi di un tempo, per lo più espressione di quella saggezza non-duale, che insegnava a contemplare in silenzio l’Infinito e i suoi molteplici Abitatori; che ricordava che nella grande casa dell’Essere, c’è un posto per ogni Abitatore; che insegnava a mettere tra parentesi la presunzione umana[9], rammentando che l’uomo è solo uno degli Abitatori, e che non è lecito tentare di conculcare una prospettiva meramente umana.

Il carattere non-umano del contemplare.

Riassumendo: molti saperi che gli umani oggi valutano tali, sono in realtà interpretazioni funzionali ad una prospettiva parziale, per lo più antropocentrica, la quale, coscientemente o meno, opera come se il mondo esistesse in esclusiva per l’uomo stesso, e (ormai) per l’Apparato di cui è funzionario.

In tempi meno oscuri, si riteneva che il nome di Scienza dovesse spettare prima di tutto a quel conoscere disinteressato, esente da egoicità e utilitarismi, che come tale era quindi estraneo ad ogni forma di antropocentrismo e di attaccamento. Solo un conoscere purgato di tali elementi limitativi era degno del nome di Scienza, e Contemplazione era il termine utilizzato nella tradizione greco-latina per designare l’atto conoscitivo purificato, e quindi autentico, perché virtualmente capace di una prospettiva non meramente umana, perlopiù tramite una facoltà sovraindividuale designata nella stessa tradizione come nous o intelletto (il carattere “divino” del nous non indica nulla di misticoide e di misterioso, ma la qualità non meramente umana e non meramente individuale di tale facoltà).

La cultura moderna, invece, in nome di un acritico “hic homo intelligit“, deride noùs e contemplazione, di cui nulla sa (non promuovendone alcuna esperienza), ritenendo dogmaticamente che ogni posizione conoscitiva debba necessariamente esser solo umana, risultando ad essa impensabile il trascendimento dell’unico orizzonte alla sua portata. In questo modo, umanesimo, relativismo e tecnoscienza manipolatrice vengono assolutizzati; di conseguenza, la prospettiva unilaterale e ammorbante del mondo umano e dell’Apparato si arroga il diritto di predazione su tutto il resto, operando nel segno della violenza rispetto a tutti gli altri enti (e perfino all’interno del mondo umano).

Al contrario, l’intellezione almeno tendenzialmente pura e sovraindividuale[10] è il tentativo di guardare agli enti e all’Infinito non con l’occhio parziale e aggressivo di un particolare ente, che vede l’altro come asservito anticipatamente, ma con lo sguardo orientativamente imparziale e distaccato della sapienza non-umana, che cerca di vedere ogni cosa con equanimità rigorosa e per quanto può sub specie aeternitatis.

Più ci si avvicina a tale sguardo, più ci si allontana dalla prepotenza legata agli sguardi interessati, e subentra una dimensione pacificante.

Nel contemplare da tali altezze, non accessibili ai più, emerge la piccineria e la violenza più o meno mascherata dei criteri con cui gli umani solitamente valutano gli enti e gli eventi del mondo.

Il moralismo umanistico come violenza

Gli umani stimano bene o male gli eventi, valutandone il tornaconto o meno; anche le situazioni considerate più nobili spesso finiscono per tradire la presenza di un calcolo meschino e di una mentalità ristretta.

Schopenhauer e Nietzsche hanno avuto il merito di denunciare apertamente il carattere ipocrita e mistificatorio delle varie idee morali e dello stesso “principio di ragione”, che spesso cerca di fondare i sistemi morali che vanno per la maggiore.

Qualche esempio.

  • La morale razionale di Kant, che vieta di trattare l’uomo solo come mezzo, nello stesso tempo permette che tutti gli altri enti siano asserviti al mondo umano, giustificandone tutte le prevaricazioni in nome di una presunta superiorità della coscienza morale-razionale! In realtà, il tanto declamato rigorismo kantiano prevede una rigorosa e fastidiosa giustificazione delle prepotenze degli umani contro i non-umani. Da questo punto di vista, Kant ha fatto scuola: gli idealisti come Fichte e Hegel conservano questo aspetto sgradevole del Kantismo; la formula da essi preferita è quella della supremazia dello Spirito (leggasi mondo umano) sulla Natura, in nome del progresso della libertà del primo, della morale, dell’eticità, della ragione….
  • Il Marxismo (molto più di Marx) su questo punto, è stranamente allineato con i filosofi borghesi: l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive, prevede espressamente il crescente dominio sul mondo non-umano, il che è considerato acriticamente un fatto di per se stesso positivo, come tale apportatore di civiltà.

Si potrebbe rivisitare tutta la storia del pensiero moderno, per farne emergere la continuità di fondo, ben più forte delle eventuali differenze ideologico-politiche.

Solo le migliori correnti spirituali, espressioni della metafisica non dualistica, sono estranee a tali vedute anguste; in tempi abbastanza recenti, anche l’Ecologia Profonda ha dato dignitosi contributi, volti a ridimensionare l’invadente protagonismo degli umani, in una prospettiva radicalmente ecocentrica.

È auspicabile un possibile connubio, ormai, tra saggezza non-duale ed ecologia profonda, capace di aprire spazi di cultura, di civiltà, di modi di essere, non risucchiabili nella potenza dell’Apparato tecnico-scientifico e delle Forze Economiche che oggi condizionano e devastano il mondo.

Sistema chiuso e sistema aperto

Un pervicace luogo comune, diffuso negli ambienti antimetafisici, pretende che la metafisica sia essenzialmente un sistema di pensiero definito e chiuso, come tale responsabile di logiche oppressive ed autoritarie, che vietano qualsiasi apertura e qualsiasi pluralismo. La civiltà libera-democratica comporterebbe invece una società aperta, poiché basata sul rifiuto della metafisica, e sull’accettazione del razionalismo critico, della scienza, della democrazia … .

Tra i liberaldemocratici, K. Popper (che pure ha notevoli meriti in campo epistemologico) è uno dei maggiori sostenitori di questa tesi, la cui diffusione è pari all’infondatezza, dato che lo stesso Popper ha mostrato di non conoscere i termini più indispensabili del problema e di travisare perfino certi concetti essenziali (v. la nozione di Bene in Platone).

Abbiamo già detto che la metafisica si rivolge principalmente all’Infinito il quale, per la sua stessa natura, sfugge ad ogni definizione concettuale, poiché ogni definizione è un tentativo di delimitare ciò che, in questo caso, è al di là di ogni delimitazione[11].

Ne discende che nessun sistema concettuale può pretendere di essere una descrizione assoluta dell’Assoluto (cioè un Sistema chiuso)[12]: al contrario, anche le descrizioni più profonde ed elaborate dovranno necessariamente esser considerate delle descrizioni approssimative, capaci di indicare solo qualche aspetto della Realtà.

Di conseguenza, qualsiasi formulazione metafisica potrà esser accettata, purché accompagnata dalla consapevolezza dei suoi limiti intrinseci, consentendo uno spazio illimitato per altre possibili letture dell’Infinito, mai esaustive: tutto questo, se proprio si vuol conservare il termine “sistema”, costituisce un Sistema Aperto, ed è questo atteggiamento di Inesauribile Apertura a qualificare la metafisica in quanto tale, come hanno ripetuto in modo assai ridondante i Neoplatonici.

Il sistema chiuso, invece, le è strutturalmente estraneo, contrariamente a quanto avventatamente sostenuto da Popper, da troppa manualistica filosofica e da vari inesperti in materia[13].

Il linguaggio simbolico e l’infinito

Riguardo al linguaggio in generale, si possono svolgere le stesse considerazioni, poiché nessun termine linguistico può esser veramente “comprensivo” dell’Infinito.

Qualsiasi sistema linguistico-concettuale è sempre in ritardo strutturale, dato l’inesauribile traboccamento della Realtà totale, e tale divario non è mai colmabile.

Con questo, non si intende rifiutare il linguaggio concettuale: semplicemente, si prende atto dei limiti intrinseci che qualsiasi operazione linguistico-concettuale porta inevitabilmente con sé.

La prudenza nei confronti del linguaggio non sfocia in un oscuro misticismo, in fantasie irrazionalistiche: al contrario, permette di salvaguardare anche tale linguaggio, a patto di conoscerne i limiti, evitando le assolutizzazioni fuori posto e controproducenti, come quelle realizzate da Cartesio o da Hegel.

Non esistono idee chiare e distinte, nel senso di Cartesio, sostanzialmente corrispondenti alle cose; il linguaggio matematico non è affatto più chiaro e preciso di altri, e soprattutto non corrisponde meglio di altri alla natura del reale, come pretende gran parte della cultura moderna, di derivazione cartesiana e galileiana.

L’hegelismo, che ha il merito di avere ben compreso i difetti del razionalismo cartesiano, ha creduto vanamente di compensarli inventandosi la ragion dialettica, capace di una concettualizzazione dinamica esente dalle rigidità del concetto “astratto”, ed in grado quindi di esporre compiutamente l’Assoluto nella sua totalità, senza ripiegare nelle parzialità della ragione non-dialettica.

Come si può notare da questi cenni cursori, sono principalmente le filosofie moderne, “razionali” e “critiche”, ad esser talvolta dogmatiche, stante la loro pretesa di elaborare un linguaggio concettuale in grado di definire il Reale e di rinchiuderlo nei confini delle formulazioni cartesiane, hegeliane o altro.

Al polo opposto, altre correnti moderne, rifiutando tali insane dogmatizzazioni, eludono il problema rifiutandosi a priori di parlarne dato che perfino gli enti risulterebbero insondabili data l’opacità del mondo in cui viviamo.

La cultura moderna-contemporanea risulta marchiata da questi estremismi, che sono tali per eccesso (il linguaggio circoscrive l’Assoluto, il Reale, l’Ente) o per difetto (l’Assoluto non esiste, e se esiste, comunque sfugge totalmente … non resta, eventualmente, che la fede!).

Questa mancanza di equilibrio è un altro preoccupante “segno dei tempi”; in alternativa, una soluzione misurata è ben presente nelle varie espressioni della Sophia Perennis, là dove si dice che il linguaggio, non potendo circoscrivere l’Infinito che travalica ogni confinamento, può però alludere ad esso o indicarne taluni aspetti, così da esser d’aiuto quale sostegno per una intuizione dell’Infinito stesso.

Il linguaggio così inteso, invece di voler catturare, misurare e rinchiudere (l’Infinito, gli Enti), si propone come supporto che aiuta la visione intuitiva di ciò che prima non si lasciava nemmeno scorgere. Tale linguaggio, stante la funzione di cui sopra, appare dunque “disvelante”, nel senso che, togliendo il velo, lascia vedere qualcosa dell’Infinito; oppure, il che è lo stesso, appare come “apertura”, poiché apre (sostiene, favorisce) ulteriori possibilità di visione, prima precluse.

Gli antichi chiamavano mitico-simbolico questo linguaggio tipico di arcaiche saggezze, per distinguerlo da altre forme linguistiche; rimanendo in Occidente, Pitagora, Platone e i loro discepoli ci hanno lasciato le più belle testimonianze di questa pratica simbolica del linguaggio: i “Numeri” di Pitagora ed i Miti di Platone sono appunto Simboli che stimolano e sorreggono il lampo dell’intuizione[14], la cui luce arriva così ad irraggiarsi in contrade prima inesplorate e misteriose, per lo spirito dormiente.

È la cultura moderna ad esaltare, in una forma o nell’altra, il linguaggio concettuale, quale linguaggio catturante-misurante, teso a dominare “scientificamente” gli enti; l’Apparato tecnico-scientifico oggi predominante ha perfezionato questo uso imprigionante del linguaggio, negando qualsiasi dignità ad altre possibilità linguistiche.

La saggezza non duale, da sempre, lascia parlare anche un altro linguaggio, che invece di confinare e chiudere, dischiude e disvela, incoraggiando l’apertura della visione intellettuale oltre le precedenti limitazioni.

Il “mito della caverna” di Platone conserva un’importanza perenne poiché esemplifica in modo eccellente le tappe principali percorse dalla coscienza nel corso della sua espansione (apertura) verso l’Infinito, tappe che costituiscono le stazioni principali di un processo di decondizionamento e di liberazione.

Oggi più che mai, urge il ritorno della saggezza non duale e con essa della parola disvelante e non catturante, capace di dischiudere nuovi spazi di libertà, in un mondo ostile alla pluralità, banalizzato dall’omologazione planetaria e asfissiato dalla clonazione frenetica ed unilaterale delle parole calcolanti-catturanti della peggiore tecnoscienza, che vorrebbe escludere tutte le altre: è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, ed è un fenomeno particolarmente inquietante.


[1] Il termine “monismo” si presta ad equivoci che è opportuno evitare, perché effettivamente può far pensare ad un sistema riduttivistico; per questo motivo, è di gran lunga preferibile l’espressione “non-dualità”, che appare maggiormente adatta allo scopo. R. Guénon ha fatto il punto con chiarezza: «Si può dire che il monismo è caratterizzato da questo, che, non ammettendo l’irriducibilità assoluta e volendo andare oltre l’opposizione apparente, crede di poterci riuscire riducendo uno dei due termini all’altro; se, in particolare, si tratta dell’opposizione spirito-materia, si avrà da una parte il monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materia a spirito, e dall’altra il monismo materialista, che pretende al contrario di ridurre lo spirito a materia […] gli accade quasi fatalmente […] di negare la opposizione […] in realtà le due opposte soluzioni moniste non sono che le due facce d’una doppia soluzione, in sé al tutto insufficiente. È a questo punto che un’altra soluzione deve intervenire. […] Designeremo questa dottrina coll’appellativo di non[1]dualismo, o meglio ancora come la dottrina della non-dualità, volendo tradurre nel modo più esatto possibile il termine sanscrito adwaita-vada.» (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pagg. 128-129).

[2] Proprio per questo T. Burckhardt scrive che «il metodo sufico consiste nell’arte di mantenere l’anima aperta all’influsso dell’Infinito» (Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Ed. Mediterranee, 1987, pag. 36). Aggiungeremo questa riflessione complementare di F. Schuon: «Una civiltà è integrale e sana in quanto poggia sulla religione invisibile o soggiacente, la religio perennis; questo significa che essa lo è in quanto le sue espressioni o le sue forme lasciano trasparire l’Aformale.» (Sguardi sui mondi antichi, Ed. Mediterranee, 1996, pag. 143).

[3] «Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità assoluta, il non-dualismo differisce da esso profondamente perché non pretende affatto che uno dei due termini sia riducibile all’altro così semplicemente; esso li considera l’uno e l’altro simultaneamente nell’unità di un principio comune, di carattere più universale, nel quale essi sono entrambi contenuti non più come opposti, ma quali complementari […] il non-dualismo è così l’unico tipo di dottrina che sia consono all’universalità della metafisica». (R. Guénon, Introd. gener. allo studio … cit., pagg. 129-130).

[4] L’Infinito implica un pluralismo integrale, anche perché «ogni conoscenza, anche se relativa, è sempre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema» (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pag. 142). Inoltre, «è impossibile che vi sia una sola dottrina che renda conto dell’Assoluto e delle relazioni tra la contingenza e l’Assoluto» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, cit., pag. 138).

[5] Il simbolismo del Soffio, ben presente nella Sophia Perennis, si riferisce proprio al contenuto appena individuato. Seguendo l’esoterismo islamico, tutti gli enti essendo tali, sono infatti necessariamente sorretti dal Soffio di compassione (An-Nafas ar-rahmani), o sono espressioni di tale soffio onnipervadente. Non a caso, nel Corano Allah è detto anche «compassionevole». Il soffio infinito-compassionevole, essendo tale, non può che accogliere in sé tutti gli esseri senza eccezione. Non diversamente, in Brhadaranyaka Upanishad è detto che «il Soffio vitale è simile alla formica, alla mosca, all’elefante, al trimundio, a tutto l’universo […] sul Soffio infatti tutto l’universo si sostiene» (1.III, 22- 23). Ed inoltre, sempre in riferimento al Soffio universale: «Conosci quel filo che tien legati insieme questo mondo, il mondo di là e tutte le creature? […] Chi conosce questo filo e questo interno reggitore, costui conosce il Brahman, i mondi, gli dei, i Veda, le creature, costui conosce l’Atman, conosce ogni cosa […] Il soffio è il filo che tiene insieme legati questo mondo, quell’altro e tutte le creature» (3.VII, l-2). Guénon ha così commentato: «Questo raggio luminoso che lega tra loro tutti gli stati è anche simbolicamente rappresentato come il soffio in virtù del quale essi sussistono, il che, si osserverà, è strettamente conforme al significato etimologico dei termini designanti lo spirito (si tratti del latino spiritus o del greco pneuma); e così, come abbiamo spiegato in altre occasioni, egli è propriamente il sutratma; ciò equivale anche a dire che egli in realtà è Atma stesso» (Spirito e intelletto, in Melanges, I, Venezia 1978). Il simbolismo indù del sutratma compendia in modo essenziale i contenuti di cui sopra, dato che «Atma, come un filo (sutra), penetra e lega fra di loro tutti i mondi e nel contempo è anche il soffio che […] li sostiene e li fa sussistere» (R. Guénon, Simboli della scienza sacra, LXI). Lo stesso dicasi per il simbolismo del sarva-prana, cioè del soffio totale, che ha la stessa funzione rispetto alla molteplicità degli enti e degli stati di Esistenza. Questa la sintesi di Shankara a proposito del sutratma: «forma un legame tra i vari corpi sottili, e li permea e passa tra tutti loro come un filo su cui è infilato un filare di gemme. È anche conosciuto come Prana poiché in forma di respiro vitale anima e sostiene tutta la vita.» (La quintessenza del vedanta, 389).

[6] La suggestiva immagine è di S. H. Nasr, Uomo e natura, Rusconi ed.

[7] «I bisogni vitali e quindi il diritto alla vita rimangono i medesimi in ogni dove, si tratti d’uomini o d’insetti. Uno degli errori più perniciosi è ritenere che la collettività umana da un lato e il benessere della stessa dall’altro rappresentino un valore assoluto e pertanto un fine in sè.» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, pag. 4).

[8] «Questi due idoli (scienza e progresso) son serviti tanto per mortificare quelle minoranze dissidenti che malgrado tutto sono esistite negli ultimi secoli […] e che vorrebbero sottrarsi all’agitazione moderna, alla pazzia della velocità […] ; tanto -il che è molto più significativo- per costringere la maggioranza dell’umanità, grazie ad una presunta superiorità ed in barba a qualsiasi principio egualitario, e con la forza brutale delle armi, ad asservirsi allo spirito dì conquista e agli interessi economici occidentali. Quel che la razionalità dominante in Europa e in America non tollera assolutamente è che degli uomini preferiscano lavorare di meno (com’è tipico in qualsiasi civiltà tradizionale e in generale presso i popoli antichi) e contentarsi di poco per vivere, secondo una misura che gli deriva dall’intuizione dell’essenziale. Siffatta intolleranza deriva direttamente dalla centralità della quantità e dalla negazione del non-sensibile in quanto irreale, con le note conseguenze dell’agitazione ossessiva e della produzione materiale come unico valore, all’estremo opposto della contemplazione.» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno in R. Guenon, Pontecorboli Ed., 1996, pagg. 186-187).

[9] Tutte le scuole spirituali tradizionali, non a caso, hanno come comune denominatore il trascendimento o per lo meno il ridimensionamento di quell’accidente denominato ego, il che è stato espresso secondo formulazioni talvolta abbastanza diverse, e però convergenti nel significato di fondo. Il trattato breve di Ibn Arabi, intitolato Il libro dell’estinzione nella contemplazione, è dedicato proprio alla negazione della egoicità, e più in generale di tutto ciò che risulta contingente, poiché «la visione di Lui non ha realmente luogo se non attraverso il venir meno di te stesso» (SE, 1996, pag. 34). Drg drsya viveka è un testo classico dell’Advaita Vedanta, per lo più attribuito a Shankara. Tratta della Discriminazione (viveka) tra drg (osservatore, Sè, …) e drsya (spettacolo, osservato, non-Sè, …), tra cui rientra anche l’ego come componente di ciò che non è propriamente Sé. Perciò anche l’ego appartiene a ciò che è meramente “illusorio-relativo” rispetto all’assolutezza onnipervadente dell’Infinito (Sé, Atman, Brahman nirguna, …). Per apprezzare una volta di più la portata veramente universale, quindi non egoica e non-antropocentrica del Vedanta, possiamo meditare sul Sutra 21, in cui le qualità più universali dell’Infinito vengono attribuite anche ai mondi non-umani, dato che «il Puro Essere (Sat), la Pura Coscienza (Cit) e la Pura Beatitudine (Ananda) sono comuni […] all’etere, all’aria, al fuoco, all’acqua, alla terra […] agli dei, agli animali». Una riflessione consimile si può esercitare a proposito del Platonismo, dato il carattere impersonale del Nous. In aggìunta, ci limiteremo a segnalare che Plotino attribuiva lo stato contemplativo anche agli esseri non-umani (v. Enneadi, III, B, I). Ricorderemo anche che secondo Avicenna e molti altri medievali, l’atto conoscitivo superiore non ha mai natura meramente individuale, ma dipende dall’Intelletto Agente che ha natura sovraindividuale (v. Libro delle direttive, parte II, gruppo VII).

[10] «L’intelletto trascendente, per cogliere direttamente i principi universali, deve esso stesso essere d’ordine universale; non è quindi una facoltà individuale. […] La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma ciò che sta oltre la ragione è veramente non-umano e proprio per questo rende possibile la conoscenza metafìsica, che, bisogna ripeterlo ancora, non è affatto una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a tale conoscenza, ma è in quanto questo essere, che è umano in uno dei suoi stati, è in pari tempo altra cosa […] se l’individuo costituisse un sistema chiuso, al modo della monade di Leibnitz, non vi sarebbe metafisica possibile.» (R. Guénon, La metafisica orientale, ora in Studi sull’ induismo, Basaia, 1983, pag.117). A proposito dell’ostilità della modernità per la contemplazione e l’intuizione intellettuale, merita di esser richiamata questa osservazione di J. Pieper: «La radice filosofica moderna di questo disprezzo del contemplare nella quiete, e di questo culto del lavoro, sta nella negazione dell’attività intuitiva dell’intelletto umano, la cui origine è kantiana» (La verità delle cose, Massimo ed., pag. 17).

[11] Proprio per questo Shankara, parlando di Brahman, sentenzia che è «di natura infinita, non soggetto a modificazioni, incomprensibile per mezzo del ragionamento […] trascende ogni definizione verbale» (La quintessenza del vedanta, 761); ed anche: «rimane quella sola e pura Realtà, che è al di là delle categorie mentali» (Aparokshanubhuti-Autorealizzazione, 136).

[12] Ha scritto bene G. Reale: «la metafisica riguarda la problematica dell’assoluto, ma non è, e non può essere, conoscenza assoluta dell’assoluto, poiché rimane dinamicamente sempre aperta. Ma è proprio di questa conoscenza e di questa problematica dell’intero che l’uomo non può fare a meno nel processo conoscitivo in generale.» (Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Cortina ed., 1995, pag. 47).

[13] Contro la valutazione popperiana, vi sono motivi per sostenere che è proprio il modello di razionalità scientifica oggi preponderante (la “scienza normale” nel senso di T. Kuhn) a delineare un sistema chiuso. «Ma in che cosa consiste la razionalità scientifica? Il Moderno si presenta innanzitutto come spirito di negazione. La forma della negazione è il sistema, che nel porsi come concezione chiusa e totalizzante, nega le illimitate possibilità di concezione inerenti una metafisica tradizionale e riduce il reale ai suoi schemi ermeneutici, vale a dire delinea un immagine del mondo quale appare necessariamente dati certi presupposti […] per poi gabellare quell’immagine come il modo vero e oggettivo in cui stanno le cose. […] Kant e Comte incarnano per Guénon più di altri lo spirito di negazione di cui sopra» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno, pag.154). Abbiamo già rimarcato che la mancanza di Universalità e di pluralismo appartiene al sistema chiuso, il quale è tale perché vorrebbe nientificare tutto ciò che non rientra nei confini da esso stesso predisegnati. In questo senso, le cosiddette filosofie critiche moderne, nonostante le loro pretese e, talvolta, le buone intenzioni, stanno dalla parte del sistema chiuso, in quanto volontà di negare, di volta in volta, quanto non è riducibile alla ragion matematica (Galilei, Cartesio, Hobbes …), all’intelletto discorsivo e alla ragion pura (Kant), alla ragion dialettica (Hegel), al mero empirismo fattuale (Positivismo, Neopositivismo). Il tratto comune e veramente inquietante è la negazione dell’intuizione intellettuale e della contemplazione, con la conseguente atrofizzazione dell’intelligenza, per cui Schuon può scrivere: «Con Voltaire, Rousseau e Kant, la carenza d’intelligenza borghese (o vaishya come direbbero gli indù) diventa dottrina e si insedia definitivamente nel pensiero europeo, dando origine […] allo scientismo, all’industria e alla cultura quantitativa. L’ipertrofia mentale dell’uomo colto supplisce ormai all’assenza penetrativa intellettuale; il senso dell’assoluto e del principiale è sommerso da un empirismo mediocre. […] Alcuni ci rimprovereranno forse di mancare di riguardo, ma vorremmo proprio sapere dove sono i riguardi dei filosofi che stroncano senza vergogna interi millenni di sapienza» (Le stazioni della saggezza, Mediterranee , pag.20).

[14] Ovviamente, anche i Simboli comportano qualche imperfezione rispetto ai contenuti cui alludono; ciò nonostante costituiscono, come si è detto, dei sostegni indispensabili e potenti per avvicinarsi alle verità che essi in qualche modo esprimono. Schuon ha formulato con insuperabile concisione questo duplice aspetto del simbolo, dato che « visto dall’alto, il simbolo è oscurità, ma visto dal basso è luce» (Le stazioni della saggezza, pag. 31).

Laureato in Filosofia delle scienze, fondatore dell’Associazione Eco-Filosofica, animatore del sito filosofiatv.org, scrittore e divulgatore sul tema della decrescita. I suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente. Autore del libro: ◾Decrescita – Idee per una civiltà post-sviluppista [di Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel], Sismondi Editore, dicembre 2009

Il Discepolo e l’Io

Il giovane spinto dalla propria vocazione a iscriversi alla facoltà di medicina non lo fa perché ha una colica e spera con questo atto di eliminarla. I suoi moventi sono più intelligenti e più alti e la sua visione più ampia, anche se, per il momento, solo nel superconscio.

Possiamo dire che chi frequenta medicina per vocazione por­ta a scuola il futuro medico in lui, e non il piccolo se stesso maga­ri sofferente di coliche e pieno di problemi e istanze propri della sua giovane età.

Se un operaio avverte la necessità di una alta specializzazione cercherà di conseguirla. Mettiamo che si tratti di una specializza­zione propria dei dirigenti del suo settore. Quell’operaio, con enorme sacrificio — come di solito accade — andrà là dove la può ottenere, ma non porterà con sé i suoi piccoli problemi di piccolo operaio. A chi gli insegnerà il rapporto energia-lavoro-politica come interazione multinazionale, egli non farà certo domande sul modo di comportarsi col capoturno che non ha simpatia per lui e gli infligge multe ingiuste. È suo interesse conoscere quei problemi nuovi per i quali si sente portato, quelli appunto dei dirigenti in un contesto internazionale o mondiale. Egli ha i suoi problemi personali che possono essere anche gra­vissimi. Ma ciò che gli interessa è specializzarsi, elevarsi, per risolvere da un livello superiore i problemi di intere categorie. Occupandosi attivamente dei problemi del mondo più ampio nel quale vuole entrare, egli vede in una prospettiva diversa, e perfino dimentica, i suoi problemi personali.

Anche qui vediamo allora che chi frequenta quel corso di alta specializzazione non è l’operaio vessato da un meschino capo­turno, ma il futuro dirigente che potrà domani, fra altre cose, essere in grado di migliorare il rapporto capoturno-operaio in generale, in ogni tipo di azienda.

Una semplice donna di casa, provveduto ormai a figli e nipo­ti, si trova con disponibilità di tempo sufficiente a qualche mode­sta possibilità. Decide di appagare finalmente un suo profondo interesse, poniamo, per l’archeologia, rimasto sempre inappagato.

La donna, che ha dovuto attendere l’età matura per occuparsi finalmente di ciò che veramente la interessa, non si aspetterà certo che il suo docente la conforti per il dolore della sua vedo­vanza, o per disamore dei figli, né andrà a piangere sulla sua spalla perché la nuora non la capisce. A lui chiederà la conoscenza nel campo archeologico. Non è una vedova, è madre una suocera piangente che si iscrive all’università, è l’archeologa che fa coraggiosamente quanto occorre per svelarsi in quella donna.

Abbiamo fatto tre esempi non straordinari, diversi fra loro, e pure con un unico denominatore: la sete di conoscenza. E più o meno con una caratteristica comune: il distacco dalla propria condizione contingente per ottenere l’accesso a una condizione superiore.

In nessuno dei tre casi è il piccolo io di oggi che fa, ma è la nuova entità di domani che fa fare, che preme per venire in luce. Non abbiamo uno studentino, un operaio, una donna di casa, ma abbiamo in realtà un medico, un dirigente, un’archeologa, che cominciano a togliere dall’entità compiuta di domani le sovra­strutture che oggi la imprigionano.

Si tratta di individui ancora immersi nel mondo delle forme e dei nomi. Individui che possono essere ancora molto lontani da un risveglio spirituale, che nemmeno conoscono ancora l’esisten­za di un Sentiero. E pure da questi esempi possiamo e dobbiamo ricavare un ammaestramento.

Iniziando la nostra vita spirituale dobbiamo individuare quel­lo stesso schema e seguirlo coscientemente. Lo studente, l’operaio, la donna, possono non averne coscienza: a noi non è permesso. Noi dobbiamo conoscere ciò che facciamo, sapere qual è in noi l’Entità di domani che preme per venire in luce, e su quell’Entità tenere fisso lo sguardo senza permettere al piccolo io di oggi di mettervisi davanti. Individuare il campo dell’io e mantenerlo ben distinto dal campo del Sé.

La nota fondamentale che i tre esempi hanno in comune è il profondo, vitale interesse per la nuova attività.

Per quelli di noi in cui questo interesse vitale manca, o non è vitale, o che sono spinti solo da curiosità, da ricerca della sen­sazione, da nuove dimensioni ove far spaziare l’io, il discorso potrebbe anche fermarsi qui. Non vi può essere progresso là dove non vi è sete di progresso, volontà di progresso, necessità impre­scindibile di progresso, sulla base della conoscenza. Quanto all’io, vedremo in seguito come non sia possibile la sua ammissione in questo recinto.

Se l’interesse vitale c’è, allora è possibile cercare di capire le regole alle quali occorre uniformarsi e, avendole capite, impegnarsi ad applicarle. Questo non significa assumere qualcosa nei confronti di qualcuno, ma mettersi al lavoro, e ora vedremo come.

Quando c’è un interesse vitale, una necessità vitale di cono­scenza — si tratti di qualunque tipo di yoga o di metafisica realizzativa — non siamo noi, i noi di oggi, a volervisi accostare. Non è l’ingegnere, l’impiegato, il professore, la sarta, non è l’uomo o la donna in noi che vuol apprendere, conoscere, fare; ma è il Realizzato di domani che preme in noi per essere svelato. Svelato, lo sappiamo, significa liberato dai veli, dalle coperture, dalle sovra­strutture che lo ricoprono, e l’Insegnamento ci conduce passo pas­so in questa effettiva, reale opera di svelamento.

Quindi, chi cerca l’Insegnamento non sono io, piccolo sé pie­no di complessi, di incompiutezze, di disarmonia: è il Discepolo in me, che lo cerca. Allora occorre aver ben chiaro questo: alle lezio­ni, alle conversazioni, all’ashram, ai vari Centri, allo studio co­munque avvenga, ci porto soltanto il Discepolo, l’io lo lascio a casa e lo metto fuori della porta, almeno momentaneamente.

Prima di accedere all’Insegnamento, noi non sappiamo chi siamo né dove siamo. Oggi siamo dolore per qualcuno o per qualcosa, domani siamo avversione o dolore per quello stesso oggetto, ieri eravamo solo un grande mal di denti o di qualche altra nostra parte. Siamo, volta a volta, insoddisfazione, allegria, attesa, dolore, dubbio, paura. Ma Io, IO scintilla divina, quale di queste cose sono? Ed è possibile che IO sia soltanto, una volta dopo l’altra, ognuna di queste cose?

Posso arrivare a capire che non è possibile, forse, ma più in là non so andare. Non so tirarmene fuori. Intanto soffro. Sento che IO significa ben altro… ma dove è IO? Come faccio a conoscer­mi, a trovarmi? E chi è che deve conoscermi, trovarmi? Se sono io, allora devo conoscere e trovare… chi? Che cosa sono, dove sono, chi sono, IO?

Queste domande possono rimanere senza risposta per un tempo più o meno lungo anche per chi si è già accostato allo Yoga, a qualunque tipo di Yoga, se non ha l’atteggiamento giusto. Anzi, la situazione sembra addirittura complicarsi perché domande nuo­ve si aggiungono alle vecchie, sorgono dubbi, si è trascinati in opposte direzioni e presi dall’insoddisfazione.

L’insoddisfazione è inevitabile quando ci accostiamo all’Inse­gnamento con un errore di prospettiva, cercando solo il piccolo rimedio ai propri mali, o un orecchio compiacente e comprensivo in cui riversare i nostri guai privati, o magari una specie di spec­chio magico a cui affidare la nostra immagine per vedercela ri­mandare circonfusa di quell’aureola che siamo convinti di ave­re… solo che non riusciamo a vederla. Dal punto di vista metafisi­co realizzativo, la situazione non è diversa quando all’egoismo individuale sostituiamo un egoismo più ampio, alle lamentele personali si sostituiscono quelle per l’ingiustizia sociale, ad esem­pio, o per la violenza dilagante, cose sulle quali il nostro piccolo io ama pontificare, sdegnarsi, discutere, ascoltandosi, parlare compiaciuto.

Tutto ciò non è da condannare. Tutti siamo o siamo stati così. È solo da sostituire con una nuova prospettiva.

Per quanto dall’Insegnamento siano escluse le nozioni, pure vi sono alcune nozioni che inizialmente è bene apprendere e com­prendere. Lo Yoga è Unità e pure occorre incominciare con una divisione — che in seguito è destinata a scomparire. È la divi­sione fra l’io (l’io empirico, il sentimento dell’io o ahamkara) e il Sé. È una divisione da praticare realmente e rigorosamente, se si vuol vedere la strada su cui si cammina.

I nostri problemi, le nostre sofferenze, i nostri mali, appar­tengono tutti indistintamente all’io. Il Sé non ha nessun problema, nessuna sofferenza, nessuna malattia.

Non parliamo ovviamente dei nostri vizi. Ma anche le nostre virtù, allo stato energetico attuale, sono tutte dell’io. Il Sé non ha virtù, in questo senso.

La nostra sete di ricerca, di conoscenza, di pace, di compiu­tezza, e di qualsiasi altro stato, è sempre indistintamente tutta dell’io. Il Sé non ha sete e non ha fame. È compiutezza. È pace. È conoscenza.

Con questo metro — dalla misura che può sembrare forse un po’ abbondante, ma non lo è — è possibile fare una prima indi­spensabile discriminazione, che a questo punto è ancora sempli­cemente intellettiva, ma è già tanto che ci si arrivi, anche solo in­tellettualmente. Possiamo usarla, per intanto, come rimedio di emergenza, una specie di pronto soccorso spirituale. Oppure come una specie di carta stradale, tanto per sapere dove ci tro­viamo. Se il dubbio ci afferra, se brancoliamo nell’ignoranza e siamo momentaneamente incapaci di comprendere un dato, se l’io ci sopraffà, rapportiamoci per un momento a questa discri­minazione integrale, quanto basta per cambiare la nostra pro­spettiva del momento e permetterci di attendere serenamente, senza essere divorati da debbi, ansie e paure, il momento in cui potremo comprendere dove.

Si può dire che tra il sentimento dell’io (ahamkara) e il Sé c’è un anello di congiunzione: il Discepolo,

Il Discepolo è un tempo, uno stato, un lavoro. Il Discepolo è il Sé ancora velato da tutte le sue coperture.

È il Discepolo in noi che cerca l’Insegnamento.

È l’io distintivo quello che si oppone, e cerca tutte le scuse per ostacolarlo. Quando si dice scuse, si intende ogni genere di cose, l’io è capace di tutto, finche di rendersi malato o di apparire santo, per impedire al Discepolo l’apprendimento.

Le armi più subdole e più frequentemente usate dall’io sono quelle mentali. L’io vuol discutere, ho critica, l’io protesta, l’io è intelligente e non approva ciò che ascolta perché ha un’opinione diversa, l’io sa dì sapere molte cose e si mette in prima fila per farlo sapere agli altri, per ribattere, per contrapporsi.

Questo noi non dobbiamo permettere, e cerchiamo di capire bene perché.

Tra l’io e il Discepolo in noi c’è un gradino mancante — come del resto ce n’è uno tra il Discepolo e il Sé.

Al piano dell’Insegnamento l’io non ha accesso. Vi può accede­re soltanto il Discepolo, perché l’Insegnamento è offerto e va com­preso in termini di Energie, e non di parole o di formule.

L’io quindi deve rimanere in disparte, non immischiarsi nelle cose dell’Insegnamento. Il Discepolo apprenderà dall’Istruttore, assimilerà l’Insegnamento energeticamente, e provvederà a tra­smettere all’io quelle direttive, quei consigli, quella guida che l’io dovrà seguire.

Di solito questo non può avvenire, in principio, con la neces­saria efficacia e col giusto ritmo, per quanto volendo si potrebbe fare benissimo. Se, tornato a casa, aggredito dai problemi e dalle istanze e dalle proteste dell’io, ho la capacità e la forza di con­tinuare ad essere il Discepolo, di continuare a far risuonare in me l’Insegnamento avuto, di mantenermi aperto verso l’alto, con calma fiducia, automaticamente i problemi dell’io si risolvono. Pur mancando il gradino, il Discepolo, in queste condizioni, ha il modo di comunicare con l’io.

Se non c’è subito questo giusto atteggiamento, ci sarà un tempo più o meno lungo di interregno, diciamo, una specie dì « terra di nessuno » — in apparenza — in cui non si riesce ancora a far discendere fino all’io, fino alla mente concreta, ciò che il Discepolo ha appreso.

Occorre aver fiducia e stabilire uno stato di vera calma. La difficoltà è solo dell’io, ricordiamolo, e proviene sempre da un nostro errato atteggiamento interiore.

Una grave difficoltà che può sorgere all’inizio, quando non è chiaro il significato di individualità, è lo sgomento che ci assale quando veniamo informati che la dobbiamo uccidere. Possiamo trovarci ad affrontare momenti difficili e penosi: io devo uccide­re la mia individualità? Devo uccidere la mia mente? La mia intelligenza, il mio intelletto, il bene più prezioso dell’uomo? Devo forse ridurmi allo stato di deficiente mentale?

Non comprendiamo, perché non siamo andati oltre la lettera delle parole, e d’altra parte sentiamo la nota della verità in quel comandamento, e questo ci fa paura. Siamo spaventati, ma convin­ti. Avviene cosi che talvolta, dopo tormentose alternative, cadiamo in una passiva rassegnazione e, sentendoci agnelli condotti al sa­crificio, dilaniati da sentimenti contrastanti, acconsentiamo —senza nemmeno saper bene a che cosa. Incomincia così un lungo periodo di lotte estenuanti su molti fronti, compreso quello del­l’insegnamento a cui — inconsciamente — resistiamo con tutte le nostre forze.

È bene cercare di evitare questo drammatico errore, che deriva solo da mancanza di giusta comprensione. Ricorriamo per­ciò a una rappresentazione immaginativa della nostra situazione interiore.

L’individualità è stato detto, è la regione, diciamo così, dalla quale Dio si è ritirato per permettere all’uomo-io di esserne il re. In virtù di tale mandato, l’uomo doveva governarsi fino al gior­no in cui il vero Governatore avesse ripreso le redini: ed è questo in sostanza che avviene quando ci accostiamo al Sentiero.

Per tutto il tempo in cui il governo gli è rimasto affidato, l’uomo ha fatto in questa regione ciò che ha potuto, e più spesso ciò che ha voluto.

Dentro di lui era rimasto sempre il Governatore, ma inattivo. Solo un filo sottile Lo legava all’uomo, e tramite quel filo l’uomo attingeva da Lui l’energia divina per la sua vita e le sue imprese.

L’uomo è stato grande nei secoli, sia nel bene che nel male. Facendo il male, ha portato quell’energia divina a vibrazioni molto basse e dense, ricoprendo con sempre nuove coperture il Dor­mente.

Facendo il bene, ha cercato di usare meglio quell’Energia, ma il Sé era già pesantemente velato, e all’uomo è stato facile dimenticarsene del tutto: si è convinto di essere lui la divinità, di essere lui il buono, il giusto, il valoroso, il sapiente. Ha continuato ad attingere a quell’Energia, ma ormai pieno di sé si è convinto di esserne lui la fonte, il creatore, il produttore. Ha nutrito, incensato, ingigantito il proprio io al punto che esso è diventato la copertura maggiore, la sovrapposizione più pesante di Quello.

Sia collettivamente che individualmente, ci siamo creati una individualità artificiale, parassita, basata sull’io che si pone davanti a Quello e, ignorandolo, dice: io ho lavorato, io ho com­battuto, io ho scoperto, io ho guarito, io ho creato.

Accostarsi al Sentiero significa accingersi a percorrere a ritroso il cammino fatto nell’errore, togliendo man mano ogni copertura che nel passato abbiamo apposto al Sé – o Atman. Ridimensionando quella individualità parassita e usurpatrice.

Retroce­dendo sempre, sempre togliendo sovrastrutture come si tolgono le incrostazioni di terra da un prezioso oggetto di scavo, sempre svelando, fino a riacquistare la nostra dimensione di luce.

L’opera di smantellamento, di eliminazione delle sovrastrutture, va fatta appunto sulla individualità parassita.

Quando pensiamo: io sono buono, io sono giusto, io sono intelligente, io sono generoso, siamo nella individualità.

Quando pensiamo o diciamo: io voglio farmi una posizio­ne, io voglio essere ricco, io voglio essere rispettato, io non voglio sottomettermi, io non accetto consigli, io sono in grado di dare consigli, io voglio questo, io non voglio quello, siamo nell’individualità.

Quando cerchiamo di raggiungere uno scopo, di compiere bei gesti, di ottenere un successo o l’approvazione altrui; quan­do abbiamo delle reazioni umane di fronte a un’accusa, a una ingiustizia, a un’offesa; quando ci ribelliamo al male, quando desideriamo il bene e la pace, per strano che possa sembrare a prima vista, siamo nella individualità. Non serve continuare perché si può dire, in sintesi, che, qualunque cosa facciamo (o non facciamo), siamo nell’individualità, per il semplice fatto che è compiuta (o non compiuta) dall’io, quindi con un impie­go errato di quella Energia al cui libero fluire opponiamo le barriere dell’io.

Naturalmente, non è che dobbiamo rinunciare a tutte que­ste cose. Anche se per il momento può sembrare un paradosso, occorre dire che anzi dobbiamo proprio pervenire a poterle compiere tutte, se ciò serve al Sé, ma da padroni, non da vit­time delle circostanze e degli eventi. Dobbiamo cioè pervenire a quello stato in cui non siamo più vincolati dalle azioni, indifferentemente, nostre né altrui; in cui possiamo agire o non agire, rimanendo in un perfetto equilibrio vibratorio.

Molte volte tutto questo non è compreso, agli inizi. Anche il termine « uccidere » può essere erroneamente interpretato, causando perplessità. Ma esso significa soltanto prendere co­scienza della realtà. Mettersi dal punto di vista del Sé. Acqui­stare la giusta prospettiva, compiendo il necessario lavoro sul­l’aspetto coscienza.

Abbiamo allora un io empirico, che si è creduto Dio per tan­to tempo; e un Sé.

Abbiamo una individualità parassitaria, che significa uso sbagliato delle Energie superiori, e si applica al particolare, e una coscienza universale. Uscendo dall’individualità, non si rimane senza « personalità » come talvolta si teme, sbagliando anche nel termine; ma semplicemente, man mano che usciamo dal partico­lare, ci trasferiamo nell’universale. Quando l’opera sarà compiu­ta, non vi sarà più alcuna divisione tra il Sé e il suo strumento.

Abbiamo ancora una mente concreta, analitica (manas) e una mente sintetica, intuitiva (buddhi), alla quale, con la nozione, ci fermeremo perché, quando il Discepolo arriva a questo punto, non ha più bisogno di questo tipo di spiegazioni, in quanto domi­na ormai il suo campo d’azione, sa per esperienza diretta, conosce.

Nessuno può accostarsi allo yoga o alla metafisica con intento realizzativo se già non è desto in lui il Discepolo.

Tra il Discepolo che si rivela e l’io, generalmente, non c’è co­munione, ma c’è contrapposizione, conflitto. Il Discepolo attira e sollecita in una direzione, l’io resiste e trascina nella direzione opposta.

Ognuno di noi deve cercare di conciliare per proprio conto proprio queste due posizioni. Non, beninteso, con compromessi, né con repressioni; ma operando la prima discriminazione effettiva: quello che vuol procedere è il Discepolo in me; questo che si oppone, è l’io.

E poi, intervenendo attivamente con una decisione: quello che voglio seguire, è il Discepolo; quindi l’io devo tenerlo, alme­no per il tempo dell’insegnamento o dello studio, fuori da tutto questo.

E subito dopo, stabilendo un programma, il Discepolo avrà l’Insegnamento che gli aspetta, e un po’ alla volta imparerà a educare, guidare, trasformare l’io.

Se solo comprendessimo chiaramente questo atteggiamento, se lo potessimo comprendere e accettare anche razionalmente, come accettiamo il processo implicito in una equazione o in una formula, non ci sarebbe nessun dramma, nessun conflitto, nes­suna « uccisione ». Ma solo un progressivo e sereno adattamento dinamico e creativo ai nuovi orizzonti che l’Insegnamento può aprirci uno dopo l’altro, in veloce successione.

Se sappiamo compiere questi primi atti chiarificatori nella nostra coscienza, il Discepolo sarà libero. Non avrà, appeso al collo, l’io che lo intralcia e lo soffoca. Egli dovrà apprendere molte cose, compiere molto lavoro, ma con strumenti ben diversi da quelli fisici dell’io.

Le parole saranno per il Discepolo il primo trabocchetto da superare. Nell’Insegnamento le parole sono soltanto prete­sti, supporti per il trasporto di energie. Non hanno più il signi­ficato che conosciamo, ma hanno significati di sintesi e contenuto di Energie che dovremo cominciare a conoscere. Parole e frasi ci sembreranno spesso ovvie, o senza senso, o paradossa­li. Dovremo allora fare molta attenzione, perché ciò significa soltanto che c’è in esse un significato nascosto da comprendere ed effettivi passaggi di coscienza da compiere.

La mente dell’io, la mente distintiva, non ha i mezzi per farlo. Se ci sorprendiamo a tentarlo, ricordiamoci subito che è l’io che si sta intromettendo là dove non deve, e affrettiamoci a rimandarlo al suo posto: così possiamo risparmiarci molto conflitto.

Comprendere quel senso nascosto, effettuare quei passaggi di coscienza, è compito del Discepolo. Dovremo solo attendere con calma fiducia che egli sia completamente desto, atti­vo, e disponibile.

La mente usata dall’uomo è soltanto quella parte (manas) che è rivolta verso l’io, anche quando si tratta di persone di straordinaria cultura e intelligenza. Buddhi (quella parte della mente rivolta verso il reale, l’assoluto), che dovrà essere per un certo tempo la residenza del Discepolo, è attiva sul suo pia­no, ma non è in comunicazione con manas. Possiamo conside­rare che, partendo dal punto massimo di manas, dalla sua vet­ta più alta, comincia un tratto di sostanza mentale atrofizzata, dopo il quale si apre Buddhi. È questo il secondo gradino man­cante nell’organizzazione interiore dell’uomo ai suoi primi passi sul Sentiero.

Il Discepolo dovrà conquistarsi l’obbedienza e anche la collaborazione del suo piccolo io per cominciare a riattivare dal basso quel tratto atrofizzato. È il ponte tra il particolare e l’universale.

Per compiere questo lavoro, è indispensabile il giusto atteggiamento coscienziale. Ciò che ancora non si comprende suscita inevitabilmente delle reazioni, e critiche, interpretazioni anali­tiche, separativismo, orgoglio, lo impediscono totalmente.

È logico e naturale che vi siano dubbi, incertezze e incom­prensione dell’io, poiché l’io non può fare altro che questo. Se noi lasciamo traboccare queste incompiutezze nel tempo dello Insegnamento, automaticamente ne rimaniamo tagliati fuori, e solo per opera nostra,

Occorre riuscire, almeno per quel tempo, a « deporre » il proprio io carico di problemi esattamente come si può deporre un indumento, per poter essere disponibili all’Insegnamento. L’importante è farlo, anche se in principio può sembrare di non esserne capaci. Farlo sempre, abitualmente. Tendere con la coscienza a questo risultato.

E portare con noi l’Insegnamento avuto. Per la strada, a casa, lavorando, studiando, in qualunque situazione, aver pre­sente che ci è stato trasmesso qualche cosa, e attendere. Man­tenere un silenzio interno, senza disperdere le energie. Riportar­si interiormente a quella condizione di ricettività. Automatica­mente, un po’ alla volta o all’improvviso, non ha importanza, il canale si apre.

Vedremo allora che qualcosa scenderà nella nostra mente. Accogliamone la discesa in consapevole silenzio, e avremo sem­pre più abbondante l’Insegnamento vero, tanto più abbondante quanto maggiore sarà il silenzio che sapremo ottenere dall’io.

RICHARD WILHELM RICEVE IL TESTO DELL’ I CHING DAL MAESTRO LAO NAI XUANN UNA TRADUZIONE INIZIATICA

di Umberto Capotummino

Richard Wilhelm nel suo diario “ L’Anima della Cina”da lui pubblicato nel 1926 narra le sue esperienze di viaggio in Cina, paese in cui egli visse venticinque anni.
Questo diario di viaggio è la sua unica opera personale, benchè il suo nome sia associato all’I Ching, il Libro dei Mutamenti cinese da lui tradotto sotto la guida del maestro Lao Nai Xuann.

R. Wilhelm racconta che poco prima dello scoppio della guerra mondiale, il generale Zhou – Fu, con il quale intratteneva rapporti culturali nella colonia tedesca di Quingdao, gli propose di incontrare un anziano insegnante cinese che custodiva gli antichi insegnamenti di saggezza confuciana, era il maestro Lao Nai Xuann, da questo incontro iniziatico nacque la traduzione la spiegazione e la consegna del Libro dei Mutamenti a R. Wilhelm . Poco dopo quest’incontro Lao Nai Xuann morì e R. Wilhelm divenne l’araldo in occidente del Libro dei Mutamenti.

“Prima ancora che la tempesta si abbattesse su di noi, feci uno strano sogno. Veniva a farmi visita un uomo anziano dallo sguardo cortese e con la barba bianca. Si chiamava “montagna Lao” e mi propose di iniziarmi ai segreti delle antiche montagne. Mi inchinai dinnanzi a lui e lo ringraziai. A quel punto lui scomparve e io mi svegliai. Quelli erano i giorni in cui l’anziano governatore generale Zhou Fu, con la famiglia del quale avevo stretto rapporti amichevoli, mi fece una proposta. Disse: “Voi europei lavorate alla cultura cinese sempre e solo dall’esterno. Nessuno di voi ne comprende il significato reale e la vera profondità. Questo perché non avete mai a portata di mano gli studiosi cinesi giusti. Perfino i maestri di scuola in pensione, che avete avuto come insegnanti, comprendono solo l’involucro esterno. Non c’è da meravigliarsi che circolino tante idiozie da voi sulla Cina. Cosa ne direbbe se le procurassi un insegnante ben radicato nello spirito cinese che la introducesse alle sue profondità? Così potrebbe tradurre, ma anche scrivere qualcosa di suo affinché nel mondo la Cina non debba più continuare a vergognarsi.” Ovviamente non c’era persona più felice di me. Si scrisse allo studioso. Io preparai nei nostri palazzi un appartamento adatto a lui. Dopo un paio di settimane arrivò con la famiglia. Si chiamava Lao, i suoi antenati provenivano dalla regione del monte Lao, di cui la famiglia aveva mantenuto il nome; assomigliava come una goccia d’acqua all’antico signore che mi aveva fatto visita in sogno. Ci mettemmo subito al lavoro. Traducemmo parecchio, leggemmo molto e grazie alle nostre conversazioni quotidiane mi introdusse ai meandri più profondi della cultura cinese. Il maestro Lao mi propose di tradurre il Libro dei Mutamenti. Non era certo un testo facile, disse, ma tutto sommato nemmeno così incomprensibile come lo si descriveva solitamente. Ormai era un dato di fatto che negli ultimi tempi la vivace tradizione della Cina era sul punto di estinguersi. Lui stesso aveva avuto un insegnante vissuto interamente nell’antica tradizione. I membri della sua famiglia erano parenti stretti dei discendenti di Confucio. Il maestro possedeva un fascio di gambi sacri di millefoglie provenienti dalla tomba di Confucio e conosceva ancora l’arte, ormai quasi sconosciuta perfino in Cina, di preparare un oracolo con l’aiuto di questi gambi. Fu dunque realizzato anche questo libro. Facemmo un buon lavoro. Mi spiegò il testo in cinese, mentre io prendevo appunti. Poi lo tradussi in tedesco per me, quindi senza l’originale ritradussi in cinese il mio testo tedesco ed egli lo confrontò con l’originale per verificare che avessi colto nel segno tutti i punti. Il testo tedesco fu poi messo a punto e discusso in ogni particolare. Lo volli ancora rivedere tre o quattro volte e vi aggiunsi le spiegazioni più importanti. La traduzione dunque cresceva. Ma prima che fosse conclusa, sopraggiunse la guerra ed il mio stimato maestro Lao ritornò con gli altri studiosi nell’interno della Cina. La traduzione dunque rimase incompiuta. Già temevo che l’opera non sarebbe stata portata a termine, quando ricevetti una lettera a sorpresa proprio da lui nella quale mi chiedeva se avessi un appartamento per ospitarlo; voleva fare ritorno a Qingdao e ultimare insieme a me il Libro dei Mutamenti. Ci si può immaginare la gioia che provai quando arrivò veramente e portammo effettivamente a compimento il lavoro. In seguito partii per una vacanza in Germania. L’anziano maestro morì durante la mia assenza, dopo avermi affidato il suo testamento.”
(Richard Wilhelm, L’anima della Cina, a cura di Anna Ruchat, pg. 212-214 Edizioni IBIS Como-Pavia 2005)

Richard Wilhelm con la cravatta tra i saggi cinesi
Richard Wilhelm con la cravatta tra i saggi cinesi

Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

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