La sessualità, esplorazioni di Nello Mangiameli

Durante la presentazione del suo libro “La Sessualità” (La Caravella Editrice) presso la Libreria Etruria (VT), Nello Mangiameli illustra le ricerche da lui compiute nel corso degli anni e le scoperte che lo hanno portato a capire come, attraverso la pratica, si possa diventare artefici della propria esistenza, del modo di essere e determinare consapevolmente come vivere l’atto sessuale e con quale stato di coscienza approcciarvisi.
Riconoscere che il maschile e il femminile sono la riduzione a genere dello stato di androginia, veicolato dall’essere umano, infatti, è facilmente verificabile notando come le cellule che ci formano siano composte dal principio femminile (ovulo) e da quello maschile (spermatozoo), uniti, inscindibili: androgino (dal greco andròs, uomo e gyné, donna) ossia che partecipa alla natura di entrambi i sessi.
Tale realtà androginica, innata, presente nelle cellule di ognuno, trova risonanze psicosomatiche estese nel momento della pratica della sessualità, anche se molti non ne sono consapevoli.

Formarsi, riconoscere, vivere e ampliare tali risonanze conduce a non far più coincidere l’orgasmo con l’eiaculazione, con stati di piacere localistici, soltanto sensoriali, in favore di stati meditativi dinamici che integrano la percezione dell’ampliamento sensoriale (del sovrasensibile), il non localistico, l’ampliamento del piacere (beatitudine, estasi).

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La reincarnazione imposta al Dalai Lama

da La Nuova Bussola del 12/9/2014

Riportiamo un articolo interessante e assai documentato, molto più chiaro e completo di quanto si possa leggere anche su testi che vanno per la maggiore, pubblicato da uno dei massimi studiosi italiani di storia delle religioni: Massimo Introvigne.

L’attenzione di tutti, tra commemorazioni dell’11 settembre e venti di guerra in Medio Oriente, è giustamente concentrata sui musulmani, ma quello che sta succedendo negli ultimi giorni tra i buddhisti – 513 milioni di fedeli nel mondo, secondo stime aggiornate al 2014 – è così singolare da meritare qualche attenzione. In sequenza, abbiamo letto dapprima domenica scorsa un’intervista del Dalai Lama al quotidiano tedesco della domenica «Welt am Sonntag», dove afferma che alla sua morte potrebbe anche non reincarnarsi, così che non ci sarebbe un nuovo Dalai Lama. In effetti, ogni Dalai Lama è considerato non solo il successore ma la reincarnazione del precedente, e quando muore i monaci tibetani di più alto lignaggio vanno alla ricerca di un neonato in cui, secondo segni che solo loro sanno interpretare, il defunto Dalai Lama si è reincarnato.

«Le persone che pensano politicamente devono rendersi conto che l’istituzione del Dalai Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo», ha detto al giornale tedesco il XIV Dalai Lama, così che dopo la sua morte potrebbe non essercene un XV. Nulla d’imminente, peraltro. «Secondo i medici che mi hanno visitato – ha detto nell’intervista –, arriverò a 100 anni. Stando ai miei sogni a 113. Ma 100, credo, saranno sicuri». Il Dalai Lama ha 79 anni, e afferma comunque che riesaminerà il problema quando ne avrà 90.

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Il pensare ritrovato

Tutte le passate, antiche forme di conoscenza si basavano sul principio dell’osservazione della natura: l’osservazione dei fatti, l’analisi dei fenomeni in sé già completi. E’ andato perduto tale antico metodo: quello che donava una conoscenza “artistica” del mondo. Si deve essere consapevoli che procedere nell’indagine del mondo secondo il canone scientifico attuale, significa creare un collegamento fra i fatti empirici esteriori (osservazione) e qualcosa di costruito in modo completamente interiore (leggi concettuali). E’ l’uomo che “inventa”, deduce o suppone una logica che opera nei fenomeni percepiti: non sono mai le cose che parlano di sé, ma l’uomo che le precede, tentando una spiegazione di esse. Goethe ha cercato di rivalutare e ricostruire in forma moderna un nuovo metodo scientifico, basandosi su un principio di osservazione, “artistica”. Egli “non usava la ragione per ricercare qualcosa dietro i fenomeni, ma per osservarli in modo che si spiegassero a vicenda e si componessero in una unità”. Goethe aveva istituito un metodo di osservazione pura, in cui usava il pensiero non per “ragionare” o dedurre significati intellettuali dalle cose: usava la ragione per leggere le cose. Noi leggiamo uno scritto, formando un tutto con le singole lettere: ogni singola riga ci consegna un determinato senso o concetto.

Analizzare le singole lettere non ci porterebbe a nulla. Nel linguaggio ordinario si deve smettere di prestare attenzione (dimenticare) della forma delle varie lettere alfabetiche che compongono una parola, se si vuole arrivare ad apprendere il senso che è espresso nella parola intera. Non porta a nulla considerare la forma della “C” o della “L” se si vuole arrivare al concetto della parola “cielo”. Si deve operare una sintesi: dimenticarsi della totalità delle lettere, per accogliere il significato che tutte insieme contengono, esprimono nella loro totalità. Goethe faceva lo stesso con i singoli fenomeni della natura. Non filosofeggiava sulle vibrazioni del suono, della luce, delle forze misteriose che potrebbero esistere dietro ad un processo. Non usava la ragione per speculare cosa opera dietro i fenomeni. Ma così come noi leggendo uno scritto dobbiamo collegare ogni lettera e dimenticarci delle forme della scrittura per cogliere il significato concettuale, egli riunisce tutti i singoli fenomeni in modo che sia possibile leggerli nel loro insieme. Goethe adopera il pensiero come un mezzo di “lettura cosmica”. Egli attende che la contemplazione dei singoli fenomeni lo porti a far si che essi si spieghino a vicenda componendosi in una unità. Non cerca qualcosa dietro al singolo fenomeno, ma cerca di “leggere” nei fenomeni che accadono spazialmente e nel tempo, un significato superiore. “Non si cerchi nulla dietro i fenomeni, sono essi stessi l’insegnamento.” Accade qualcosa di analogo, quando in termini occulti, rosicruciani, si parla de “La lettura della scrittura occulta,” la modalità esoterica di definire la coscienza ispirata.

La “capacità di leggere i caratteri di cui sono composti i nomi divini”. Di fatto i “caratteri” di siffatta scrittura occulta sono quelle immagini eteriche che appaiono al discepolo attorno agli oggetti che egli contempla tramite l’immaginazione, dopo aver superato la fase di concentrazione del pensiero: tali rappresentazioni immaginative devono venire composte insieme, o meglio dimenticate per poter far affiorare il significato globale di ciò che dietro ad esse vive e si può esprimere. Come scienziati dello spirito, si deve riuscire addirittura arrivare a superare lo stesso Goethe (che era il precursore di questo nuovo modo di indagare) per arrivare a conseguire un tal sentimento di unificazione con i processi stessi. Si deve voler vivere entro i fenomeni, desiderare di immedesimarsi in essi, vivendoli intensamente. In tal modo si realizza quell’atteggiamento di dedizione amorevole nell’atto della ricerca: l’unico che conferisce risultati alla ricerca occulta. Secondo le indicazioni di Goethe, dobbiamo quindi rieducarci alle fenomenologia e all’osservazione.

Ma la vera novità dell’indagare goethiano sta nella fase finale dell’osservazione. Immaginiamo per esempio che l’indagine sia rivolta verso una determinata pianta o un dato minerale; anche se questo è applicabile anche a fatti o eventi umani. Dopo essersi familiarizzati con l’intero decorso spaziale/temporale dei vari fenomeni, dopo aver analizzato, realizzato diverse e attente osservazioni delle singole fasi esprimenti il tema indagato, occorre ritrarsi in un ambiente appartato e silenzioso. Occorre cominciare a ricordare esattamente e chiaramente tutte le osservazioni compiute, tutti i singoli particolari investigati. Possibilmente senza usare le parole e la dialettica, ma solo evocando le immagini di ricordo le osservazioni compiute. Accade allora che fra i ricordi e unitamente all’attività del ricordare si affaccerà una nuova immagine ben densa e pregna, nella nostra coscienza. Si tratterà poi di cancellare tutto, di reprimere tutto per deliberazione interiore: attivando la coscienza ispirata. Si dirigerà ora l’attenzione soltanto verso la forza animica di dedicazione impiegata. La coscienza deve essere sgombra di immagini: impregnata solo dell’eco della forza di sentimento spesa sinora. E si attenderà così pazientemente, un responso dal mondo spirituale.

Che non tarderà ad arrivare al di là dell’abisso. Apparirà una conoscenza che mostrerà un altro lato dell’esistenza. Ma ci si potrebbe chiedere: come mai è possibile ottenere una conoscenza che si basa sulla percezione (osservazione), anziché sui concetti? In conseguenza all’applicazione di questa metodologia goethiana non solo si può ottenere una coscienza siffatta, ma si svela anche la missione della forza del pensiero e il suo ruolo nell’economia conoscitiva umana. Si comprende cosa è il Pensiero vivente. Come espressione della corrente di vita dell’universo che intesse con la sua trama, ogni cosa esistente nel mondo: un principio di “unitarietà” organica del cosmo, pervaso e legato in una comune vita. Si viene a sapere che ogni cosa o essere è collegata, permeata dalla stessa corrente di vita unitaria. Il pensiero ordinario nell’uomo è una frammentaria e momentanea espressione di tale vita unitaria, che si mostra come facoltà di ragionare. “Scade” dalla sua natura vivente per metamorfosarsi in pensiero astratto. Ma perché chiamarlo “pensiero vivente”, essendo come natura più affine alla natura di un qualcosa di vita vegetale, di impersonale, un qualcosa di così dissimile dal concetto di pensare umano, esprimente razionalità e intellettualità?

Perché non chiamarlo in altro modo? Invece è appropriato chiamarlo “pensiero” perché nella sua essenza reca più “intelligenza e saggezza” di quello che vi è nel pensare umano. La natura del pensiero di fatto di palesa come un essenza titanica di vita fluente incessante, un tessuto sovrasensibile ove si intrecciano colloqui spirituali, deliberazioni di volontà promananti da entità divine: impulsi connotati secondo progetti e intenzioni di una saggezza sovrumana. In esso fluttua la “parola primordiale” cantata di coro in coro, di angelo in arcangelo. Il pensiero usuale è quindi un “non pensiero” ossia, un cadavere. Ma deve divenire tale, per poter essere cosciente di sé. Deve diventare pensare umano, per essere ritrovato come pensare divino.

La processione dell’Ecce Homo tra spiritualità e leggenda

Oggi ho sentito il bisogno di rendere omaggio a una delle persone più buone che abbia mai conosciuto: il mio vecchio insegnante di religione delle medie: Don Tino Donò. Così ho cercato il suo nome su internet ed ho trovato questo articolo che parla anche di lui. Mi fa piacere ripubblicarlo anche qui.

Le radici dell’appartenenza si alimentano agli umori profondi della memoria comunitaria e familiare, alla letteratura, al patrimonio dell’arte ma soprattutto all’espressione religiosa. Quanti amano Dipignano e le sue tradizioni religiose sanno benissimo che la devozione per l’antica scultura dell’Ecce Homo, dalla straordinaria bellezza e dalla possente drammaticità, è da sempre molto sentita dai dipignanesi. Se ne ha una riprova ogni anno nella preparazione e celebrazione della festa del 3 maggio. La devozione popolare raggiunge il suo momento più intenso con la processione del Santissimo Ecce Homo sul piazzale antistante il convento, voluta particolarmente dai contadini per invocare la grazia di un buon raccolto. Significativa la testimonianza degli anziani che raccontano come un tempo era veramente una fiumana di devoti vicini e lontani alcuni dei quali giungevano a piedi scalzi in segno di umiltà e penitenza dai paesi limitrofi. La gente di Dipignano ricorda il verde delle corone di spine, la fatica dei portatori del simulacro quando, per i sentieri tortuosi di “Ferdizza”, si incamminavano verso il Convento dei Cappuccini.

Scrive lo studioso Giulio Palange: “Quando la siccità minaccia i raccolti i dipignanesi si mettono in testa un serto di spine, prendono dal santuario della Riforma il Santissimo Ecce Homo e lo portano in processione per le contrade. Il corteo segue sempre lo stesso percorso, e quanti reggono la statua sulle spalle, allorché sono in vista del Convento dei Cappuccini, ove è custodito un dipinto della Madonna, voltano l’Ecce Homo di spalle e lo rigirano solo dopo che il convento in questione non si vede più. Tale usanza, che potrebbe sembrare una stramberia ritualistica, ha. invece, una precisa ragion d’essere.
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