Anzitutto vediamo quale forma presenta la metafisica tantrica quando essa assume e traduce, facendone il principio per l’interpretazione generale dell’universo, l’idea arcaica della Devi, della Grande Dea concepita come la divinità suprema.
Si potrebbe dire che qui il punto di partenza sia il riconoscimento che della realtà di ogni essere e di ogni forma, il principio e la misura sono una energia, un potere agente che, nell’uno o nell’altro modo, vi si esprime. È stato notato come non casuale che la stessa parola tedesca per «realtà», Wirklichkeit, deriva dal verbo wirken = agire. Non diverso è, dunque, il punto di vista della metafisica in questione, da essa fatto valere su ogni piano. Rispetto al potere, shakti, anche ciò che è «persona» presenterebbe un rango ontologicamente subordinato, perfino se si tratta della persona divina, del Dio teistico, di ishvara. L’idea, che vi sia un principio che «abbia» la potenza distinguendosene, in questa forma estremistica dello shaktismo viene negata: «Se ogni cosa esiste in virtù della shakti, che senso ha cercare un possessore di essa? Voi sentite il bisogno di chiedere in virtù di quale principio (o sostegno, adhara) la shakti esiste. Non pensate che allora siete tenuti a spiegare in virtù di quale principio lo stesso possessore della shakti esiste?» [1].
La connessione del tantrismo con la precedente metafisica indù può venire stabilita nei seguenti termini. Anche questa metafisica non si era arrestata al concetto di essere e di persona: l’essere, sat, ha per controparte il non-essere, asat, e l’Assoluto (il Brahman, al neutro, da distinguere da Brahma al maschile) deve essere posto al disopra dell’uno e dell’altro. Così come punto ultimo di riferimento essa non aveva «Dio» nel senso teistico, come dio-persona (Ishvara, Brahma e altre analoghe ipostasi); Brahman è qualcosa che lo trascende, come una profondità primordiale e abissale. La Shakti tantrica, la Devi, viene evidentemente identificata con esso, con il che cade però ogni sua specifica determinazione «femminile» (quell’apice sta di là dalla stessa differenziazione del maschile e del femminile) [2] ed anche di ciò che, nelle civiltà arcaiche, poté aver suggerito l’idea del primato del femminile, ossia la sua capacità di generare, il grembo generatore, trasposto su un piano cosmico: perché il generare, come il creare in genere, è solamente una funzione parziale subordinata nell’induismo, esso è la prerogativa di Brahma, non del trascendente Brahman.
Alla Shakti vengono dunque dati gli stessi attributi di questo Brahman: non ha nulla fuori di sé, è «sola e senza un secondo» (advaya). In lei, gli esseri tutti hanno la loro condizione, la loro vita, la loro fine. Si afferma: «In ogni potere sei il potere in quanto tale — sarva shaktih svarupini» [3]. «La Shakti è la radice di ogni esistenza; da lei i mondi si sono manifestati, da lei sono sostenuti e in lei, alla fine, verranno riassorbiti… Essa è lo stesso supremo Brahman (Parabrahman)… Sta alla base di tutti gli altri dèi. Senza la Shakti essi non potrebbero conservare la loro esistenza personale»[4]. Viene chiamata parapara, «supremo del Supremo»[5], ossia quel che fa supremo il Supremo (s’intende il Brahman della metafisica induista e brahmana). È «l’eterna energia di colui da cui l’universo è sostenuto (vaishnavishakti», e, con riferimento alla triade divina induista, o Trimurti: «È soltanto in virtù del tuo potere che Brahma crea, che Vishnu conserva e che, alla fine dei tempi, Shiva dissolve l’universo. Senza di te [ossia senza la Shakti] essi sono incapaci di ciò; quindi sei propriamente tu la creatrice, la reggitrice e la distruggitrice del mondo»[6] «Sostegno di tutto, tu stessa non hai alcun sostegno». È colei che, sola, è «pura» e «nuda»[7], cioè unicamente se stessa: «Pur avendo forme, tu sei sempre senza forma»[8].
Concepita in questa estensione e primordialità, escludente qualsiasi essere o principio che le sia superiore, la Shakti ha il nome di Parashakti. Divenuta «colei che esiste in ogni cosa sotto le specie di potenza (shaktirupa), questa è la forma quasi irriconoscibile che, al contatto con la metafisica propriamente aria upanishadica, assume nei Tantra la concezione arcaica pre-aria della Shakti quale Magna Mater demetrica, quale Madre degli dèi, quale divinità femminile signora e produttrice di ogni vita e di ogni esistenza.
Dai testi si può raccogliere un punto ulteriore che ha una particolare importanza. Considerando il Principio dell’universo soltanto come una energia primordiale, si potrebbe pensare che la sua manifestazione sia un movimento cieco e interiormente necessitato, più o meno come la «Vita» di certe filosofie irrazionalistiche occidentali o come nel panteismo di uno. Spinoza, secondo il quale il mondo procederebbe eternamente e quasi automaticamente dalla sostanza della divinità con la stessa necessità per cui le proprietà di un triangolo derivano dalla sua definizione. Invece, nel tantrismo la manifestazione della Shakti viene considerata libera, la Shakti non conosce leggi di sorta, né esterne né interne, così nulla la costringe a manifestarsi: «Tu sei la potenza: chi potrebbe esservi ad ordinarti di fare o non fare cosa alcuna?» [9]. E poiché sul piano umano il prototipo dell’azione libera per eccellenza è il giuoco, Ma, dai Tantra viene detto che la manifestazione è giuoco, che di giuoco la Shakti è sostanziata (lilamayishakti), che il suo nome è «colei che giuoca», lalita [10], dunque che in tutte le forme dell’esistenza manifestata e condizionata, umane, subumane e divine, si esprime unicamente il giuoco solitario della suprema Shakti, di Parashakti [11]. Qui il simbolismo tantrico è confluito con quello shivaita, perché esso si è appropriato anche del motivo della divinità che danza: danza, quindi qualcosa di libero, di sciolto, è il dispiegamento della manifestazione. Non più Shiva, ma la dea, la Shakti aureolata di fiamme, è la divinità che danza quando la Shakti viene intesa nel suo aspetto propriamente produttivo.
Era però naturale che procedendo in quest’ordine di idee le posizioni dello shaktismo estremista, riflettente l’arcaica sovranità e priorità della Dea, dovessero venire ulteriormente articolate, il che avvenne con l’assimilazione della metafisica del Samkhya e poi col ridimensionamento della dottrina della maya nel periodo in cui essa era stata già formulata da Shankara.
Il Samkhya è un darshana [12] a fondo dualistico. Come principio esplicativo esso pone una dualità originaria, quella di purusha e di prakrti, corrispondenti al maschile e al femminile, al principio spirituale e alla natura, conscio l’uno, inconscio l’altro, immutabile l’uno, principio di ogni movimento o divenire l’altro. Il Samkhya si è preoccupato di escludere rigorosamente dal primo, da purusha, tutto ciò che non ha la qualità di un essere puro, impassibile, non trasportato dall’azione. La creazione viene fatta derivare da una connessione dei due principi di un genere tutto speciale, ossia da un’azione del purusha paragonabile a quella che in chimica si chiama catalitica, determinata dalla semplice presenza (sannidhimatrena upakarin). L’analogia più prossima è quella offerta dalla dottrina aristotelica che spiega il mondo e il suo divenire col moto e il desiderio destato nella materia ( ule = prakrti) dalla presenza del voi); quale «motore immobile». In sé, prakrti viene concepita in uno stato di equilibrio di tre potenze (i guna, sui quali torneremo più oltre). Il «riflesso» di purusha su prakrti rompe questo equilibrio, quasi con un’azione fecondatrice provoca il moto e lo sviluppo di prakrti in un mondo di forme e di fenomeni, che è il samsara. Dal Samkhya viene però considerata anche una situazione di caduta, che corrisponde all’avidya, concetto fondamentale della metafisica indù ed anche del buddhismo: il purusha si identifica col riflesso di sé in prakrti, col cosiddetto «Io fatto degli elementi» (bhutatma); dimentica di essere I’ «altro», l’essere impassibile sostanziato di pura luce, lo «spettatore». «Travolto e contaminato dalla corrente dei guna egli disconosce il sacro, augusto creatore che è in lui» e «soggiace alla mania del “mio” (abhimano ahamkarah)»; nel pensare «Io sono questo, questo è mio», egli «vincola sé da se stesso (badhmati atamana atmananarn) come un uccello in una rete», anche se nella sua essenza resta così poco tocco da tutto ciò quanto una goccia d’acqua aderisce alla superficie liscia di una foglia di loto [13]. Ciò riguarda essenzialmente la condizione dell’essere vivente, dello jiva. Dal Sàmkhya ha tratto le sue premesse lo Yoga classico, il quale ha indicato la via che, per mezzo del distacco della coscienza o dell’Io (atma = purusha), per neutralizzazione delle modificazioni (vrtti) che essa ritiene sue proprie mentre derivano dall’altro principio, da prakrti, conduce alla reintegrazione dello stato puramente purushico, potremmo quasi dire «olimpico», e quindi a mukti, alla liberazione.
Ma per ora non ci interessano le visuali d’ordine pratico, bensì quelle cosmologiche: il Sàmkhya offre una spiegazione del mondo in quanto questo non è né puro spirito, né pura natura, né immutabile né soltanto un divenire introducendo appunto la diade purusha prakrti, due principi che si trovano variamente congiunti dopo che l’equilibrio dei guna è rotto e prakrti, fecondata dal riflesso di Purusha, «diviene», si sviluppa nel mondo manifestato dei «nomi» e delle «forme» (per usare questa designazione classica indù dell’universo differenziato).
Ebbene, la sintesi tantrica riprende questo schema, però ridimensionandolo, nel senso che a differenza del Samkhya, Purusha e Prakrti non vengono più concepiti come una eterna dualità primigenia. L’uno e l’altra vengono invece presentati come due differenziazioni o forme della Shakti, all’uno si fa corrispondere Shiva (la divinità trasformata in un principio metafisico), all’altra Shakti in un senso limitato, come controparte di Shiva, come la femmina o shakti del dio, come la sua «sposa» che è anche il suo potere (il termine shakti tradizionalmente ha avuto appunto il duplice senso di potere e di sposa) però mantenendo per entrambi gli attributi considerati dal Samkhya: a Shiva è proprio l’essere, l’immutabilità, la natura dell’Atma o principio cosciente; a Shakti è proprio invece il movimento, il mutamento, essa è l’origine di ogni produzione, generazione e vivificazione. L’idea di una fecondazione, che non appare esplicitamente nel Samkhya perché, come si è visto, esso si è limitato a parlare di un «riflesso» e di un’azione per pura presenza, qui è senz’altro ammessa: dal congiungimento di Shiva con Shakti procede l’universo nei suoi aspetti sia statici e stabili, sia dinamici, sia nelle sue forme immateriali e coscienti, sia In quelle materiali e inconsce in esso riscontrabili. Come è evidente, con l’introduzione dell’elemento purushico o shivaico è rimossa l’idea, che lo shaktismo estremista avrebbe potuto far sorgere della manifestazione: quasi come il prorompere selvaggio di una energia elementare indifferenziata. L’iconografia tantrica induista mette in risalto in vario modo le caratteristiche antitetiche dei due principi’. Da una parte, si può indicare l’iconografia della danza della Shakti fatta di fiamma sul corpo immobile disteso di Shiva, corpo assai più grande di quello di lei: l’immobilità qui sta a significare l’immutabilità del principio maschile, e secondo le convenzioni dell’arte religiosa indù la sua più grande statura ne vuole esprimere il superiore rango ontologico rispetto alla Shakti in movimento. In secondo luogo, ricorderemo il simbolismo di Shiva e di Shakti (o di altre divinità induiste o tibetane ad essi omologabili) in viparita maithuna, ossia in una unione sessuale caratterizzata dal fatto che il maschio sta seduto immobile, ed è la donna che, avvinghiata, compie i movimenti dell’atto dell’amore. Si può notare, a tale riguardo, l’inversione delle concezioni «attivistiche» dell’Occidente moderno: il vero principio maschile è caratterizzato dall’«essere», esso non agisce nel senso che è sovrano, che si limita a suscitare l’azione senza esserne preso; tutto ciò che è azione, dinamismo, sviluppo, divenire sta invece sotto segno femminile, cade nel dominio di prakrti, della natura, non in quello dello spirito, dell’atma o del Purusha, non ha in sé il proprio principio. Immobilità attiva e attività passiva. L’Occidente attivistico ha dimenticato tutto ciò, per cui quasi non conosce nemmeno il senso della vera virilità.
Nel periodo in cui il tantrismo sviluppò la dottrina della diade metafisica, il Vedanta era stato formulato in termini estremistici da Shankara. A questa dottrina abbiamo già accennato, nel considerare una critica rivolta ad essa dal tantrismo. Svolgendo le idee delle Upanishad, Shankara tiene fermo nel modo più intransigente al principio che reale non può dirsi quel che cangia ed è differenziato (kalatraya-sattva). Dato però che l’esperienza nostra del mondo non è quella del Nirguna-Brahman (corrispondente ad un Purusha assolutamente puro, distaccato e solitario), siccome esiste un mondo qualificato, condizionato e mutevole, Shankara, come si è visto, è costretto a considerare come illusione e falsità tale mondo. Tuttavia con ciò il problema è soltanto spostato, vi è da spiegare donde provenga questa apparenza o finzione, come essa, in genere, sia possibile. Shankara introduce allora il concetto di maya facendone la causa dell’oscuramento del solitario Nirguna-Brahman, dell’apparire di esso come Saguna-Brahman, ossia come il Brahman che si manifesta e dispiega in un mondo di forme e di esseri condizionati, col dio teistico persona (Ishvara) al vertice. Maya viene concepita come qualcosa di insondabile, di inafferrabile; è impensabile, indefinibile (anirvacya). Non si può dire che è (perché non è l’essere puro), né che non è (perché agisce e s’impone di fatto nell’esperienza comune), né che è e non è ad un tempo — affermano i vedantini. Essa resta dunque un mistero, qualcosa di assolutamente irrazionale. Naturalmente, per Shankara non esiste nessun nesso fra Brahman e maya.
Tutto ciò indica la difficolta fondamentale che incontra il monismo assolutistico vedantino, più che risolverla. Né la si risolve uscendo dall’ontologia e rifacendosi ad una dottrina dei punti di vista. In Grecia, già Parmenide, fiso nell’Essere puro, aveva formulato una teoria della doppia verità: alla verità propria al pensiero rigoroso, secondo la quale «solo l’essere è», egli aveva contrapposto la verità propria all’«opinare», doxa, che può rendere conto del divenire e della natura pur negando loro, «secondo giustizia», l’essere. Del pari Shankara oppone un punto di vista profano e empirico (vyavaharthika) al punto di vista assoluto (paramarthika). Dal secondo punto di vista maya non esiste, per cui conseguire la conoscenza illuminante, alla quale si lega cotesto punto di vista, significa vederla sparire come una nebbia o un miraggio, epperò far venir meno lo stesso problema di spiegarla. Maya non è che un prodotto dell’«ignoranza», avidya, è quasi la sua proiezione sull’essere eterno e immutabile.
Ma, di nuovo, anche così la difficoltà sussiste perché è da chiedere come, in genere, l’ignoranza e il punto di vista non assoluto possano mai sorgere. Si potrebbe ancora trovare una soluzione se si fosse nell’ambito della teologia creazionistica di religioni come il cristianesimo e l’islamismo: poiché esse postulano l’esistenza di un essere, la creatura, in un certo modo staccato da Dio, dal Principio, non identico con lui, distinto da lui (= creatio per iatum: come ciò sia concepibile, è naturalmente un enigma, ma questo è un altro problema), si potrebbe riferire appunto all’essere finito creato il punto di vista «non assoluto» facendo sorgere il miraggio della maya. Purtroppo nel monismo vedantino non vi è posto per una idea del genere. Il suo assioma è «Egli [il Brahman] è senza un secondo», ossia egli non ha nulla al di fuori di sé, quindi nemmeno un essere creato soggiacente all’ignoranza epperò sperimentante il mondo secondo l’illusione della maya. A tener fermo il non-dualismo, l’advaita, vedantino, si sarebbe dunque costretti ad ammettere che nello stesso Brahman (altro non essendovi che lui) può misteriosamente nascere la maya nella sua irrazionalità e nel suo carattere di eterno miraggio, dunque che sia lo stesso Brahman a subire, in un qualche modo, l’«ignoranza». È l’unica via d’uscita; ma prendendola il monismo vedantino estremista ne risulta evidentemente incrinato.
Ecco alcune battute della polemica tantrica. Sotto un certo aspetto, il mondo non può dirsi «reale» in senso assoluto, ma maya, intesa come la sua radice, non può dirsi irreale. Il sogno lo si può dire falso, ma non il potere che lo genera e se maya è irreale, da dove viene il samsara, ossia il mondo finito e mutevole? Non basta: «Se maya è irreale, il samsara diviene reale», nel senso che si può affermare l’irrealtà, la contingenza del mondo fenomenico e del divenire — del samsara — solamente se si può mostrare che esso non esiste in sé e per sé, che esso deriva da una funzione o potenza sovraordinata che come lo ha fatto apparire, così può anche farlo svanire. Se invece non si ammette questo principio, non vi è modo di considerare contingente e irreale il samsara; in tal caso, esso dovrà venire considerato come una realtà a sé, eterna e autonoma, da cui il supremo Principio è limitato o alterato. Pei Tantra, la vera soluzione del problema è questa: riferire maya ad un potere, ad una shakti; alla misteriosa maya vedantina essi sostituiscono maya-shakti, come una manifestazione della Shakti suprema, di Parashakti. Ed essi si rifanno anche al significato di magia che può avere il termine maya (maya-yoga vuol dire, ad esempio, uno yoga a finalità magiche), naturalmente intendendo per magia non l’arte di creare illusioni — come quella degli illusionisti e dei prestigiatori bensì un’arte creatrice che produce effetti reali. Riportando maya a maya-shakti, non vi è più bisogno di negar nulla e di chiamare nulla illusione [14]. Nella sua liberta, nel suo essere «colei che giuoca», la Shakti fa apparire il mondo del samsara, manifestandosi in esso. L’utilità del Principio è salvata.
Così si può affermare, con ragione, che «il concetto di potenza, per chi si applica al sadhana, è una guida assai più sicura che non la nebulosa idea di spirito (atma). È assai difficile per coloro che non credono nella Shakti intendere l'”uno, senza un secondo” dell’insegnamento tradizionale (shrutt) nel dominio fisico e, ad un tempo, in quello spirituale, non essendovi [allora] una connessione valida fra questi due ordini. Ma uno shakta [un seguace dello shaktismo] non ha da combattere con questa difficoltà. Su ogni piano dell’esistenza egli ritrova l’unico potere onnipervadente. Onde è detto nei l’altra: “O Devi’, la liberazione senza la conoscenza della Shakti è una mera burla!”. E ancora: La questione non è di affermare o di non affermare che questo o quello sia “irreale” bensì: fino a che punto siete capaci di fare “irreale” (cioè non esistente in se stesso, il che implica il potere su) anche un solo filo d’erba?»[15]. Ciò che esiste non cessa di esistere per il semplice fatto che si desideri o si pensi altrimenti: la potenza dell’azione si incaricherà lei a svegliare da una tale fantasticheria. «Finché il Brahman non verrà percepito in ogni cosa, finché il vincolo della legge di natura non sia distrutto e l’idea della differenza fra Io e altro non sia scomparsa di fatto, l’essere particolare vivente (jiva) non può non credere nell’universo dualistico e chiamarlo falsità, sogno, fantasia e simili. L’efficienza di karma, il potere dell’azione, mi costringerà, che io lo voglia o no, a credere in esso» [16].
Così, poco curandosi di come può apparire il mondo dal punto di vista di Dio (per esprimersi all’occidentale), il tantrismo speculativo ha formulato una metafisica più adatta per un sadhaka, ossia per colui che s’impegna praticamente sulla via della realizzazione. In questa metafisica è, pertanto, superato sia il dualismo del Samkhya (purusha e prakrti), sia quello che il Vedanta ha cercato invano di rimuovere (Brahman e maya). Prende il suo posto la diade propria ad ogni libera manifestazione. Viene considerata, per così dire, una «trascendenza immanente», corrispondente a Shiva, ossia alla forma Shiva del Principio; è ad esso che, in ultima analisi, tutte le potenze della realtà sono sospese, ed è in esso che trovano il loro centro o sostegno. Così Shiva viene chiamato «colui che è nudo» (digambaram, ossia libero da determinazioni) e, nello stesso tempo, «colui il cui corpo è l’intero universo». Con un simbolismo che vedremo non esser privo di relazione anche con l’etica tantrica, egli viene presentato come colui che, benché immerso nel vortice delle passioni, è signore di esse, come colui che, maestro d’amore, è, lui stesso, privo di concupiscenza: sempre unito a forme, energie e poteri (a shakti), è tuttavia eternamente libero, invulnerabile, sciolto da ogni attributo [17]. Tutto ciò che nel giuoco cosmico della suprema Shakti è differenza, non investe l’immanente unità del suo aspetto Shiva [18]. Anche quel che è finito e inconscio, deriva dal conscio, è il prodotto di maya-shakti che, in sé, non è inconscia [19]. Ci sembra importante l’idea, che il finito non costituisce più un problema quando lo si riporta ad un potere che lo pone come tale.
* * *
L’insieme può venire ulteriormente chiarito se si considera il significato che ha, nel suo complesso, la manifestazione della Shakti e i «momenti» in cui essa si articola.
Mentre una potenza particolare può avere questo o quest’altro oggetto, la suprema Shakti può manifestare soltanto se stessa, fuori di sé, per definizione, non esistendo nulla: in un Tantra è detto: «La terra della tua nascita sei tu stessa: in e per te stessa ti sei manifestata».
Ciò non impedisce che la manifestazione implichi un «procedere» (prasarati), un moto esteriorizzante, un «uscire» — dallo stato di identità statica — e un proiettarsi. Ciò corrisponde al moto primo suscitato nella sostanza femminile dall’atto fecondante dell’immobile Shiva o Purusha, analogo a quello che nella metafisica aristotelica destano le potenze Informi della «natura». I testi parlano, a tal riguardo, di un «guardar fuori» (bahirmukhi) e considerano qualcosa, come un prorompere e proiettarsi della Shakti sotto le specie di kamarupini shakti, di un desiderio o brama elementare, di un eros cosmogonico vòlto a crearsi un oggetto in cui fruirsi. Questa è anche maya-shakti, il potere magico del dio, che finirà col far apparire le forme e gli oggetti così come se esistessero in sé, per confondersi con essi nel fruimento. È la fase chiamata pravrtti-marga, ossia la via delle determinazioni, delle forme finite (vrtti) che la Shakti genera e fa proprie. È la fase «discendente» nel segno del predominio della Shakti la quale sembra travolgere l’altro principio. Pertanto, dai Tantra viene detto che la funzione della Shakti è la negazione: nishedha vyapararupa shaktih [20]. Infatti, le forme manifestate non possono essere che forme o possibilità parziali, rispetto all’intero immanifestato che riposa in se stesso. Viene anche detto che maya-shakti è «il potere che misura» (miyate amena iti maya), ossia che crea determinazioni o delimitazioni corrispondenti ai vari esseri particolari e alle varie forme di esistenza. L’ignoranza, avidya, inerisce al potere in quanto «guarda fuori», verso l’esterno, verso qualcosa d’altro [21], come è il proprio del movimento bramoso e dell’immedesimazione bramosa — in genere del processo di oggettivazione.
Questo processo incontra però un limite, all’arco discendente segue l’arco ascendente perché il senso della manifestazione è quello di un auto-manifestarsi; in tutto ciò che si è differenziato, oggettivato e «alterizzato» ad opera di maya-shakti la potenza dovrà riconoscere se stessa, il processo dovrà consumarsi in un possesso, l’elemento shivaico dovra riprendere il sopravvento su quello puramente shaktico e riportarlo a sé in tutte le sue produzioni. Al moto centrifugo subentra un moto centripeto, al «guardar fuori, al vincolarsi bramoso agli oggetti fatti sorgere dalla magia di mayashakti segue l’interno distacco da essi (nivrtti-marga, opposto a pravrttimarga). Se nella prima fase la shakti aveva preso il predominio su Shiva, e l’aveva quasi trasformato nella sua natura, ora dovrà realizzarsi l’opposto, è Shiva che andrà a prendere il sopravvento sulla shakti e a trasformarla nella sua natura fino ad una assoluta trasparente unità. Dai Tantra induisti della scuola del Nord ciò è stato espresso con le parole: «Come attraverso un puro specchio, attraverso la Shakti Shiva realizza l’esperienza di se stesso (shivarupa vimarsha nirmaladarshah)» [22]. Viene quasi di pensare allo schema hegeliano dello Spirito assoluto che prima è «in sé», poi diviene oggetto a sé e infine nell’oggettivo riconosce sé stesso ed è «in sé e per sé», o ad analoghi schemi della speculazione idealistica occidentale, quando nel commento a questo testo si parla propriamente dell’astratto dell’esser «io», della «iità» in un senso trascendente — aham ityr evamrupam jnanam — come dell’essenza della suprema esperienza mediata dalla Shakti. La stessa idea viene espressa per mezzo di analisi convenzionali della parola che in sanscrito vuol dire «Io» = aham. A, intesa come la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, è Shakti, Ha intesa come l’ultima lettera dello stesso alfabeto è Shiva. La formula della manifestazione non è A né Ha bensì A+Ha = aham, ossia «Io» nel senso indicato di autoidentità attiva mediata dalla Shakti come da uno specchio: l’«iità» (ahamatmika) è dunque la parola suprema che comprende tutta la manifestazione, tutto l’universo il quale nella dottrina dei nomi di potenza, nel mantra–shastra (cfr. cap. 8), è simboleggiato dalle lettere comprese fra A e Ha[23]. Analogamente, nel tantrismo tibetano le varie potenze della manifestazione vengono riferite alle varie parti della sillaba sacra Hum che in tibetano significa parimenti «Io». Questo è il senso del gesto cosmico del supremo potere, di Parashakti, entro il quale si dispiega un mondo di forme e di esseri finiti, in un moto in cui «la dualità si converte in unità e questa di nuovo si dispiega nel giuoco dualistico» [24], in cui «Brahman, che è perfetta coscienza [qui, si tratta del Brahman attivo tantrico], genera il mondo come maya composta dai guna e lui stesso assume la parte di un essere particolare vivente (jiva) per la realizzazione del suo giuoco cosmico» [25]. Lo stesso principio che nel «guardar dentro» realizza la suprema esperienza, nel «guardar fuori» ha l’esperienza del mondo come samsara [26].
Circa le «epoche» della manifestazione, viene stabilita una relazione fra esse e la già accennata teoria delle due vie, della Mano Destra e della Mano Sinistra, anche nella forma seguente. L’aspetto creativo e produttivo del processo cosmico viene riferito alla Mano Destra e al color bianco, e alle due dee Umà e Gauri (nelle quali la Shakti si presenta come prakashatmika = «colei che è la luce e manifestazione»); il secondo aspetto, quello della conversione, del ritorno, viene invece riferito alla Mano Sinistra e al color nero, e alle dee nere «distruttive» Durga e Kali. Così, nel Mahakala-tantra viene detto che fino a quando il lato sinistro e il lato destro sono in equilibrio vi è samsara, ma quando la sinistra prende il sopravvento sulla destra si ha la liberazione.
Da qui, una ulteriore interpretazione di Kali prendente le mosse dall’iconografia popolare di questa dea, che la raffigura nera, nuda, adorna soltanto di una collana costituita da cinquanta teste recise. La dea, a tale stregua, è la shakti di Shiva, cioè il suo potere come trascendenza attiva; il color nero sta appunto ad esprimere la trascendenza rispetto a tutto ciò che è manifestato e visibile. Secondo una etimologia convenuta, essa si chiama Kali perché divora il tempo, ossia il divenire, l’ «andare», che è legge dell’esistenza samsarica [27]. La sua nudità simboleggia il suo esser sciolta da ogni forma; le cinquanta teste recise di cui si adorna (nella mitologia popolare, sono le teste di dèmoni da lei sterminati in un noto episodio) vengono fatte corrispondere alle cinquanta lettere dell’alfabeto sanscrito che, come si è accennato, a loro volta simboleggiano le varie potenze cosmiche presiedenti alla manifestazione (matrka — equivalenze dei logoi spermatikoi della speculazione greca): le teste recise alludono pertanto a queste potenze in quanto rimosse dalla loro natura elementare, propria alla fase discendente. Così se la funzione della potenza quale maya-shakti è, come è detto nei Tantra, una negazione, Kali secondo l’aspetto ora indicato, come Mahakali, si potrebbe ben definire come una «negazione della negazione». Qui prende dunque già risalto quell’idea di un possibile orientamento autodistruttivo o di autotrascendenza della potenza che nel tantrismo ha una parte fondamentale, specie sul piano delle pratiche e dei riti della Via della Mano Sinistra.
Un punto assai importante va sottolineato. Il «distruggere» o «trascendere» va concepito essenzialmente nei termini di un portarsi di là dalle forme manifestate e vincolate, di una rescissione dei legami delle immedesimazioni estroverse, sia nell’ordine umano che in quello cosmico: la distruzione riguarda propriamente solo l’aspetto «desiderio» e di autofascinazione vincolante. Che, poi, praticamente sul piano individuale o culturale ciò possa eventualmente richiedere processi di rottura e di distruzione, è secondario. Quanto alle distruzioni che rientrano nei processi del mondo manifestato e della natura, esse non vanno confuse con gli attributi ora accennati di Kali, attributi aventi un significato trascendentale, e, in ultima analisi, anche quello di un riprendere e riportare in alto, ossia di un trascendere nel senso letterale etimologico latino. Per questo, in un inno tantrico Kali viene presentata come l’aspetto della Shakti secondo il quale essa riprende ciò che ha proceduto [28] e il termine usato per la sua azione è vishvasamghera; in essa dunque si manifesta essenzialmente la shakti il potere — di Shiva.
La cosmologia tradizionale indù conosce la teoria della promanazione e del riassorbimento (pralaya) dei mondi, secondo cicli. Tale teoria non va confusa con quella ora esposta. Anche parlare di due «epoche», momenti o fasi è improprio, se questi termini vengono presi in un senso comunque temporale, come stati che si succedono. Nella seconda epoca non è che venga eliminato o dissolto un qualunque ordine della realtà; come si è detto or ora, si tratta solamente di un cambiamento di polarità e di una esperienza dell’essere in quanto (come è detto nel Tantra della Grande Liberazione) [29] è «senza forma pur possedendo ogni forma» — in quanto «appare, ad un tempo, con forme e senza forme (ruparupaprakasha)», come è parimenti detto nel Tantrasara. Nel segno della Shakti riportata al suo principio e nella realizzazione di questo principio «il mondo, il samsara, resta, e diviene il luogo stesso della liberazione», secondo la formula del Kularnava–tantra (moksha yate samsarah). A tale stregua, il tantrismo si incontra con quella forma del buddhismo mahayanico, la suprema, paradossale verità del quale è l’identità e coestensività del nirvana col samsara, colta, secondo lo Zen, nell’esperienza del cosiddetto satori.
Aggiungiamo due riferimenti tratti dalla tradizione upanishadica, che forse potranno integrare quanto abbiamo esposto.
Come punto di riferimento qui vale l’arma, l’Io spirituale. Vengono considerate quattro sue possibili sedi o stati, riguardo alla manifestazione. Nel primo, che è quello della coscienza normale di veglia, vaishvanara, il mondo si presenta sotto le specie di una esteriorità. Nel secondo, esso viene percepito sotto le specie di shakti produttive — tajasa —, questa esperienza rendendosi possibile però solo se l’Io riesce a spostarsi, mantenendosi cosciente, passando anzi ad una supercoscienza, nello spazio che nell’uomo comune corrisponde a quello riempito dalla caotica vita dei sogni. Nel terzo stato, prajna, il mondo di queste energie si rivela «come uno», ossia viene percepito in funzione della sua unità, quella che sul piano religioso viene raffigurata da Ishvara. Tale stato viene raggiunto quando l’Io si sposta in quell’ultima profondità che nell’uomo comune corrisponde al sonno vuoto senza sogni. La legge di causa ed effetto esiste solamente nei due primi ordini; nel terzo esistono soltanto i principi’ nella forma di pure cause. Viene infine considerato un quarto stato, turiya, chiamato così impropriamente perché viene dopo gli altri tre soltanto dal punto di vista del sadhana e dello yoga; in sé, ontologicamente, esso riprende e trascende gli altri. Si è al livello della «iità» in cui, secondo il testo già citato, si consuma tutta la manifestazione. Dell’Atma nello stato turiya viene detto, nelle Upanishad, che esso «distrugge l’intero mondo manifestato», «divorando» «lo stesso Ishvara come essere a sé», che esso sta «di là sia dal “guardar fuori” che dal “guardar dentro”», ossia dalle due «epoche» di cui si è parlato [30].
Il secondo riferimento lo trarremo dalla Nrsintauttara–tapanîya–upanishad. Atma, l’«unico» — vien detto — esiste nel primo stato come «contenuto», ad, cioè immerso nella materia della sua esperienza e come materia di tale esperienza, il che, tantricamente, corrisponde alla forma-limite della funzione di maya–shakti. Nel secondo stato esso esiste come anujatri, ossia come «colui che afferma» — non semplicemente desidera, ma afferma: «Affermatore di questo mondo è l’atma, perché ad esso dà il suo Io — afferma il suo Io [come Io del mondo], il mondo in sé essendo senza Io». Altra formulazione, per questo stato: egli «dice sì (om) al mondo intero», con il che «dà a tutto questo mondo senza sostanza una sostanza». La realtà esterna viene dunque ricondotta ad una proiezione o estroiezione della realtà del principio spirituale quale «affermatore», come colui che dice «sì» al mondo. Nel grado ulteriore, il terzo, l’esperienza è semplicemente anujna, ossia affermazione pura senza più soggetto, senza la personalità dell’affermatore; poi la stessa forza viene superata e subentra lo stato supremo, che ha solamente se stesso per riferimento e viene chiamato non-differenza = avikalpa. Qui 1′ atma «conosce e non conosce» (ossia non conosce secondo il conoscere che comporta una oggettivazione, un «altro», la conoscenza è qualcosa di «semplice», anubhuthi). Egli «è diverso dal divenire eppure non diverso dal divenire», è se stesso «in tutte le forme dell’essere da cui sembra essere diverso», donde questa veduta, identica alla «perfezione della conoscenza», alla prajnaparamita del buddhismo mahyanico: «Secondo verità, non vi è svanire e non vi è divenire, non vi è chi vincoli e non vi è chi agisca, non vi è chi abbisogni della liberazione e non vi è chi è liberato»[31].
A parte queste altezze metafisiche, riferendosi al mondo, il limite del processo discendente o estroverso è rappresentato dalla oggettività materiale dello stesso mondo, dalla «materia» fisica. In esso si condensa la forma estrema del «pensare l’altro». Sia la Chandogya-upanishad che il Gandharva–tantra parlano del potere, che si potrebbe dire autoipnotico e magico ad un tempo, per cui il pensiero di una cosa la genera e esso si trasforma in essa. La coscienza che pensa «altro», una realtà distinta da essa, secondo la legge della brama, genera altro ed è altro; al limite della immedesimazione totale si ha la materia come esperienza e come simbolo. Soltanto l’«ignoranza» derivante dal desiderio e dall’immedesimazione (da maya–shakti in quanto kamarapinî) in atto nella fase estrovertita fa apparire la «natura» nella sua apparente fattualità. In Occidente Meister Eckhart ebbe a scrivere che anche una pietra è Dio, solo che essa non sa di esserlo, e che è appunto questo suo non saper di essere Dio (o questo non saper di sé di Dio = avidya) a determinarla come una pietra [32]. Il concetto è lo stesso, per la fase della manifestazione nella quale la Shakti ha il sopravvento: la realtà e la natura, non come realtà a sé, bensì come una precipitazione magica cosmica di una idea, di uno stato. Esse non verrebbero percepite come tali dall’uomo se in lui non agisse la funzione corrispondente, a cui debbono tutto il loro essere, ossia maya–shakti.
Di la dal limite della natura, sempre come oggettivazioni e simboli cosmici, i gradi del processo ascendente — gradi di risveglio e di «sapere», vidya (l’opposto di avidya) — si riflettono nella gerarchia degli esseri che innalzandosi di là dall’oscura passione della materia e dal demonismo della natura inferiore, preumana, si destano in forme sempre più animate da una vita cosciente e libera; il limite corrispondente essendo lo stato in cui lo spirito è per se stesso non più nella forma di un oggetto o «altro» (ossia sotto le specie dell’ alterità), ma quale è in se stesso (atma–svarupi) e in cui la Shakti anziché essere principio vincolatore e magia di maya si manifesta come colei grazie alla quale anche tutto ciò che sembra imperfetto e finito si palesa perfetto e assoluto [33], epperò come Tara, «colei che libera».
Dal punto di vista immanente, il fatto di trovarsi a sperimentare come natura e materia ciò che metafisicamente corrisponde ad una serie di stadi dell’unica realtà spirituale, deriva dal grado di avidya inerente alla propria esperienza che la definisce come esperienza di un particolare individuo. È l’azione di maya–shakti in lui. Ma in ognuno risiede parimenti, in via di principio, il soggetto o signore di questa funzione, Shiva; egli è la stessa suprema potenza che si sperimenta in un determinato aspetto del suo giuoco cosmico, ed è quale vuole essere [34]. Si è passivi di fronte a mayashakti, si è incapaci di assumerla e riportarla al suo principio: solo per questo, in ogni forma e in qualsiasi punto non si ritrova, intatta e libera, la Shakti originaria, e il mondo non viene vissuto, secondo la formula già citata del Kularnava–tantra e secondo la veduta di vetta del Mahayana, come liberazione.
Specificando, in ogni forma o essere dell’universo devesi riconoscere un particolare incontro, un particolare nodo dinamico di maya–shakti e di shiva–shakti. La sintesi suprema è paragonabile ad una fiamma che ha consumato tutta la sua materia e ora è soltanto sé stessa, come pura energia o atto puro. Rispetto ad essa, ogni esistenza particolare è caratterizzata da una inadeguazione dei due principi’, da un differenziale di potenzialità. Materialità, incoscienza, condizionatezza, maya in senso vedantino corrispondono, nella metafisica tantrica, a questo differenziale, hanno in esso la loro radice. In ogni essere finito, le due forme primordiali di Parashakti, il maschile e il femminile, Shiva che è «conoscenza» e shakti che è «ignoranza», ossia moto verso l’esterno e immedesimazione estroversa, stanno fra loro in un diverso rapporto e «dosamento». Da questo punto di vista è shakti ciò che in un essere vi è di potenza non ancora attuata nella forma di Shiva; Shiva, o shiva-shakti, è, invece, ciò che in esso vi è di unificato e di trans-formato, di ricongiunto con se stesso, di trasparente e luminoso. In particolare, alla prima corrisponde tutto ciò che è materia, corpo e mente, al secondo l’elemento atma — l’una e l’altra cosa presentandosi pertanto nel tantrismo solo come due modi di apparire di un unico principio, di un’unica realtà.
Solamente il fatto che nell’una o nell’altra condizione di esistenza l’unione di Shiva con Shakti non è perfetta e assoluta come al livello della sintesi suprema, solamente questo fatto fa sì che lo spirito viva ciò che, come shakti e maya-shakti, in fondo è un suo stesso potere, come qualcosa di diverso e in secondo luogo come fantasma di un mondo esterno. Esser dominato dalla shakti, anziché dominarla: tale è il significato della finitezza degli esseri. La differenza fra Ishvara (corrispondenza indù del dio teistico) o Shiva e l’essere vivente finito, jiva, secondo i Tantra consiste in ciò, che, congiunti entrambi a maya (cioè a maya-shakti) ed essendo metafisicamente la stessa cosa, il primo la domina, il secondo ne è invece dominato [35].
Riassumendo quanto si è esposto in questo capitolo, nei Tantra è dichiarata l’intenzione di conciliare la verità trascendentale, corrispondente al monismo o dottrina della non-dualità upanishadica, con la verità propria all’esperienza concreta dualistica dell’essere vivente [36]. La conciliazione viene realizzata col concepire il Brahman nei termini di una unità in atto di Shiva e di Shakti, principi che qui prendono il posto del Purusha e della prakrti del Samkhya. Il concetto di shakti è ciò che fa da mediatore fra Io e non-Io, fra incondizionato e condizionato, fra spirito cosciente e natura, fra mente e corporeità, physis, fra volontà e realtà e che riporta questi principi apparentemente opposti ad una superiore unità trascendentale della quale viene proposta all’uomo la realizzazione. Mentre il Kularnava-tantra (I, 110) fa dire a Parashakti: «Vi è chi mi comprende dualisticamente (dvaitavada), vi è chi mi comprende monisticamente (advaitavada), ma la mia realtà sta di là sia da dualismo che da monismo (dvaitadvaitavivarjita)», possono venire nuovamente citate le parole dell’autore dei Tantratattva: «Il concetto di potenza per chi si applica al sadhana è una guida molto più sicura che non la nebulosa idea di spirito (ama). È assai difficile che coloro che non credono nella Shakti possano intendere l'”Uno e senza un secondo” dell’insegnamento tradizionale (shrutí) sia nell’ordine fisico che in quello spirituale, non essendovi [per costoro] nessuna connessione valida fra i due ordini. Ma uno shàkta [= un seguace dello shaktismo] non ha da combattere con una tale difficoltà. Per cui nei Tantra viene detto: ” O Devi, la liberazione senza la conoscenza della Shakti è una semplice burla!”» [37].
Tratto da Julius Evola: Lo Yoga della Potenza. Ed. Mediterranee
NOTE
[1] Cfr. Tantratattva, 1, 59, e riferimenti in A. Avalon, Shakti and Shakta, cit., p.
164
[2] In un inno della Mahakala-Samhita viene detto: «In verità, non sei né maschio né femmina né un essere neutro. Sei l’inconcepibile, non misurabile potere, l’essere di tutto ciò che è, sei libera da ogni dualità, il supremo Brahman, raggiungibile soltanto nella illuminazione» (A. Avalon, Shakti and Shakta, cit., p. 26)
[3] Mahanirvana-tantra, V, 1.
[4] Tantratattva, II, p. XVII, XXI, 355.
[5] A. e E. Avalon, introduzione a Hymns to the Goddess, London, 1913, p. 4 (tr. it. Inni alla Dea Madre, Edizioni Mediterranee, Roma, 1984)
[6] Inno a Jodabambika (Devibhagavata, XIX, V), in A. e E. Avalon, Hymns, cit.
[7] Tantrasara, in A. e E. Avalon, Hymns, cit., p. 178.
[8] Mahanirvana-tantra, IV, 34; cfr. IV, 14.
[9] Tantratattva, I, 194; cfr. II, 378, ove è detto, della Shakti, che «la sua sostanza è fatta di volontà — icchamayi»
[10] Natananda, Commento al Kamakalavilasa, verso 1 (ed. A. Avalon, p. 2): Per il Signore gli atti della creazione sono semplicemente un giuoco, perché non sono necessitati (na prayojanam)». Cfr. Anandalahri, v. 35: «Mediante il tuo giuoco [della Shakti] manifesti la tua coscienza e la tua beatitudine nel corpo dell’universo».
[11] Tantratattva, I, 336; Kamakalavilasa, commento ai vv. 37-38, p. 58.
[12] Questo termine, che di solito viene tradotto con «sistema di filosofia», secondo la sua etimologia vuol dire propriamente: ciò che risulta da un dato punto di vista. Di massima, le principali «filosofie» indù non sono sistemi isolati e chiusi, ma presentazioni di un complesso dottrinale secondo una varietà di possibili punti di vista.
[13] Samkhyakarika, 42, 65; cfr. Maitrayant-upanishad, III, 2.
[14] Tantratattva, I, 206, 281, 295-296.
[15] Tantratattva, I, 225.
[16] Tantratattva, I, 227.
[17] Tantratattva, II, 170-171.
[18] Kaulavali-tantra, XI, 12
[19] Tantratattva, I, 281
[20] Yogaraja, 4.
[21] Tantratattva, 1, 312.
[22] Kamakalavilasa, v. 2. Il commentario aggiunge: «Il Signore supremo, guardando la sua stessa Shakti (svatmashaka) che è all’interno di lui stesso (svadhinabhuta) conosce la propria natura come “Io sono tutto” (paripurno’ ham)»
[23] Kamakalavilasa, commento ai vv. 3-4 (pp. 8-11); Prapancasara-tantra, N, 21; I, 86-95.
[24] Shrkakrasambhara-tantra, p. 7.
[25] Tantratattva, I, 312
[26] B.K. Majumdar, Introduzione ai Tantratattva, vol. II, pp. XXVII, CXIX.
[27] Kamakalavilasa, commento ai vv. 1 e 5
[28] Karpuradistotram, commento al v. 12
[29] IV, 34
[30] Su tutto ciò cfr. Mandukya-upanishad, I, i, 2-5; Il, 11; II, 13; Maitrayaniupanishad, VII, 11, 7-8
[31] Nrsintauttara-tapaniya-upanishad, 2, 8, 9 (testo in P. Deussen, Sechzig Upanishaden, Leipzig3, 1921)
[32] Meister Eckhart, Schifken und Predigten, ed. Buttner, vol. I, p. 135
[33] Tantratattva, I, 280
[34] Taníratattva, I, 293-294: «Il nostro Brahman è tutt’altra cosa di quello esclusivista dell’aryashatra [si vuol dire: della dottrina bràhmanica]. Esso è nel cielo come nell’inferno, nella virtù come nella colpa, nel desiderio come nella distruzione di esso, nel bene come nel male, nella creazione come nella dissoluzione. Esso è lo stesso dovunque: nel conscio, nell’inconscio e nel vario giuoco dei due. È esso che causa la schiavitù ed è esso, di nuovo, che dà la liberazione».
[35] Tantratattva, I, 173-174; Kularnava-taníra, IX, 42: «Lo jiva è Shiva e Shiva è lo jiva, la sola differenza è che l’uno è vincolato, l’altro non lo è».
[36] Tantratattva, I, 83, 85-87
[37] Tantratattva, p. XXVI
Giulio Cesare Andrea Evola, meglio conosciuto come Julius Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974), è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.