L’Arte di ascoltare di Plutarco: una metodologia per preparare i ragazzi allo studio della Filosofia.

L’arte di ascoltare è un trattato morale e pedagogico scritto da Plutarco nel I-II secolo d.C., che fa parte delle sue Moralia, una raccolta di saggi su vari temi filosofici e culturali. In questo testo, Plutarco si rivolge a un giovane Nicandro, che sta per iniziare il suo apprendimento della filosofia, e gli offre dei consigli preziosi su come ascoltare con attenzione e discernimento le parole dei maestri. Plutarco sostiene che l’ascolto è la base per raggiungere la conoscenza di sé e la saggezza, e che bisogna evitare le distrazioni, le pretese e le opinioni infondate che possono ostacolare la comprensione del vero.

L’arte di ascoltare può essere considerata come una metodologia di approccio per i fanciulli allo studio della filosofia, perché insegna loro a sviluppare alcune abilità fondamentali per il pensiero critico e la riflessione personale. Tra queste abilità ci sono:

  • La capacità di formulare domande pertinenti e stimolanti, che portino a esplorare i problemi filosofici in modo approfondito e originale.
  • La capacità di ascoltare con curiosità e apertura le diverse prospettive dei filosofi, senza giudicare o imporre la propria visione.
  • La capacità di confrontarsi con gli altri studenti o con i maestri, scambiando idee e opinioni in modo costruttivo e rispettoso.
  • La capacità di valutare il proprio ragionamento, verificando se è coerente, logico ed efficace.

Per applicare l’arte di ascoltare allo studio della filosofia, si possono seguire alcuni suggerimenti pratici:

  • Prima di leggere o ascoltare un testo o una conferenza filosofica, prepararsi informandosi sul contesto storico-sociale in cui è stato scritto o pronunciato il pensiero.
  • Durante la lettura o l’ascolto attento del testo o della conferenza filosofica, prendere appunti su i concetti chiave, le argomentazioni principali e le fonti citate.
  • Dopo la lettura o l’ascolto del testo o della conferenza filosofica, riassumere con parole proprie il contenuto principale, evidenziando i punti salienti e le domande rimaste irrisolte.
  • Infine, confrontarsi con gli altri studenti o con i maestri sul testo o sulla conferenza filosofica appreso, esprimendo le proprie opinioni critiche ma anche aperte al dialogo.

Per approfondire è possibile consultare i seguenti siti web:

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

Platone - Non dualità

Materiali di Ecofilosofia

www.filosofiatv.org

DALLA PARTE DELLA SAGGEZZA NON-DUALE

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

di Paolo Scroccaro

La metafisica della non-dualità, ossia la saggezza nel suo significato più profondo, è perlopiù ignorata, deformata o vista con supponenza dalla subcultura contemporanea ormai dilagante, che al massimo la considera un orpello museale. Con questo intervento, estraneo alla retorica tradizionalista, si tenta di restituirne per sommi tratti il senso più essenziale, mostrandone l’importanza per il nostro tempo.

Oblio della verità e violenza

L’età moderna e contemporanea sembra aver rinunciato alla filosofia come ricerca della saggezza, tramite un lungo percorso che si snoda attraverso le varie filosofie che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, quanto meno da Cartesio in poi.

Sarebbe interessante riflettere sulle modalità che via via, a partire dalla sfera teoretica-epistemologica, hanno permesso di mettere al bando l’intuizione intellettuale, e con essa l’apertura al Tutto incircoscrivibile, determinando così una serie di contraccolpi a livello materiale e spirituale, che nel loro intreccio costituiscono la civiltà occidentale moderna, ormai per altro estesa anche alle aree orientali, sempre più occidentalizzate.

Gli spazi un tempo vivificati e illuminati dalla saggezza aperta al Tutto, sono stati così occupati da forze invasive che sembrano alimentare la loro esistenza proprio in assenza di tale orientamento correttivo: tra queste, le più prepotenti sembrano essere le forze economiche del mercato e della pianificazione, l’esaltazione tecnocratica, la scienza dominante o “normale (nel senso di Thomas Kuhn), e le politiche ad esse asservite. Storia dei nostri giorni.

Molto spesso queste forze, quasi per sgravio di coscienza, tentano di giustificare il ripudio della Saggezza tradizionale, rileggendo la storia di essa come storia di violenza, di imposizione, di esclusione… anche se queste forze che denunciano possibili prepotenze altrui, in realtà hanno generato dispositivi e meccanismi di sopraffazione e di dominio, tra i più potenti ed efficaci in assoluto, grazie soprattutto alle superiori capacità operative dell’Apparato tecnico-scientifico dominante.

Si tratta di temi che abbiamo in parte già affrontato, prendendo a pretesto vari autori.

Limitiamoci ora al primo aspetto: la Saggezza tradizionale è intrinsecamente correlata a forme di violenza e sopraffazione?

Questa tesi ritorna spesso negli autori contemporanei: per farsene un’idea, basterà considerare certi testi, espressione della mentalità corrente, quali ad esempio La società aperta e i suoi nemici, di K. Popper, oppure, su un altro piano, Il regime della verità, di E. Pace.

K. Popper considera la metafisica platonica, con le sue pretese di verità, come un sistema chiuso, dogmatico, nemico del pluralismo …, ne discenderebbe una dottrina sociopolitica totalitaria, come quella che sarebbe delineata in Stato e ancor più in Leggi. Le critiche, apertamente o velatamente, riguardano tutte le filosofie che in una forma o nell’altra vorrebbero imitare il Platonismo.

Secondo un’opinione corrente, le pretese di possedere la Verità, avrebbero due espressioni privilegiate: la metafisica (sul modello di Platone), e la religione (sul modello del fondamentalismo).

Con quest’ultimo se la prende E. Pace, criticando il fondamentalismo islamico, evangelico etc., poiché l’integralismo religioso, in nome della Verità, pretenderebbe di imporre con la forza un regime autoritario, che di tale presunta Verità trascendente vorrebbe essere la proiezione nella storia.

Più in generale, le pretese della metafisica e del fondamentalismo (che in realtà sono molto diverse) vengono accusate di riduzionismo e di volontà liberticida, poiché tenderebbero a ridurre la ricchezza, la molteplicità del reale, ad un Principio unico, che nelle diverse correnti spirituali prenderebbe il nome di Dio, Assoluto, Fondamento, Bene … o più semplicemente Uno, termine che ricapitola tutti gli altri.

È diffusa l’espressione monismo, a volte in senso spregiativo, per riassumere il carattere essenziale di quelle visioni del mondo che sarebbero penalizzate da un’impostazione unilaterale, volta a ridurre ad un solo termine tutto ciò che è. In effetti, tale locuzione è comunque da prendere con le riserve del caso, per motivi facilmente intuibili[1] .

Perfino le accuse di Heidegger e Severino alla metafisica, anche quando non coincidono con quelle di cui sopra, risentono a vario titolo di tale pregiudizio antimetafisico, fatto che meriterebbe di esser approfondito a parte. Esaminiamo ora gli aspetti principali del problema posto, alla luce di una domanda di fondo: cosa c’entra la metafisica non-dualistica con il riduzionismo monistico?

Come intendere l’Uno?

Poniamo subito un criterio metodologico di onestà intellettuale, che non dovrebbe mai esser disatteso: quando si giudica una corrente spirituale, il punto di riferimento per una seria disamina deve essere cercato nelle sue manifestazioni più autentiche, e non in quelle più degenerate o comunque controverse che certo non possono mai mancare nella storia!

Non possiamo penetrare l’insegnamento di Gesù, di Muhammad, di Shankara, di Plotino o altri speculando sulle perversioni teoriche e pratiche dovute all’inquisitore medievale, al prete sprovveduto, al fanatico integralista, al millantato guru e così via …

La mediocrità intellettiva di troppi discepoli presunti tali o degli eruditi, non sarà di alcun aiuto ai fini della comprensione della dottrina. Nel caso della nozione di Uno (e di molte altre), vengono ripetute con sospetto fervore semplificazioni non sempre lecite, non sempre coerenti, che in gran parte sono state raccattate qua e là ignorando il criterio di onestà intellettuale sopra segnalato, per malafede o imperizia: esse non possono pretendere attenuanti, anche perché le fonti non mancano, e qui ci limiteremo a qualche esempio, di volta in volta.

Giova ripetere una volta di più un tratto basilare di qualsiasi metafisica non-duale: dicendo che il Principio, o l’Assoluto, o Dio, o il Fondamento, o Brahman … è Uno, si afferma qualcosa che si impone intuitivamente e logicamente per la sua trasparenza, incontrovertibilità e semplicità.

Anche se i vari termini manifestano sfaccettature di significato un po’ diverse, essi presentano altresì una linea di continuità. Come potrebbe il Principio, o l’Assoluto etc. esser duplice? Due assoluti si limiterebbero a vicenda, per cui non potrebbero esser tali, per la contraddizione che non lo consente.

Di qui una qualche preferenza accordata al termine Uno per indicare la Realtà Assoluta, accanto ad altre espressioni che, per altri seri motivi, sono da sempre utilizzate in metafisica e in certe religioni (soprattutto nelle rispettive interpretazioni esoteriche).

In questo contesto, può comparire anche l’espressione non-dualità, per mettere tra l’altro in risalto che il Principio è per forza esente da dualità, dato che essa comporterebbe anche limitazione, il che non può essere nel caso dell’Assoluto.

La dualità si addice invece agli enti, i quali sono necessariamente caratterizzati da qualche aspetto limitativo che li distingue dagli altri.

L’Uno, cioè l’infinito non-duale

Ovviamente il Reale-Assoluto, essendo Uno per definizione, nulla può avere fuori di sé, altrimenti sarebbe limitato da una realtà ulteriore: perciò si dice che l’Uno è Incondizionato, senza secondo, o se si preferisce Infinito. Essendo tale, è per forza di cose onnicomprensivo. In un certo senso, solo l’Uno, cioè l’Infinito, è[2] , nulla potendovi essere in aggiunta, ed essendo tutto da sempre (eternamente) già incluso nell’Infinito, che altrimenti non sarebbe tale…

Ciò non comporta la nientificazione degli enti finiti e molteplici, come talvolta si crede: semplicemente, gli enti tutti, senza alcuna eccezione possibile, sono reali non in quanto separati ma in quanto partecipano dell’Infinito, che può quindi essere immaginato come una Dimora Ospitale che, essendo Infinita, accoglie da sempre tutti gli enti senza preclusioni di sorta.

Se l’Infinito fosse inospitale ed escludesse qualche ente, in quanto tale questi dimorerebbe altrove, ma allora ciò che si considera l’Infinito non potrebbe esserlo, anche qui per la contraddizione che non lo consente.

Quanto detto è più che sufficiente per intuire che la metafisica dell’Uno, cioè dell’Infinito, cioè della Non-Dualità[3] , lungi dall’avere quel carattere riduttivistico che alcuni hanno ad essa abusivamente rimproverato, per superficialità o altro, permette invece un pluralismo integrale[4] , proprio perché è la Parola di quella Casa Ospitale, che da sempre è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente[5].

Gli abitatori dell’infinito

Gli enti, umani e non, sono da sempre chiamati a raccolta nell’universale dimora dell’Infinito: è questa consapevolezza che si richiede anche all’uomo, affinché il suo abitare non pretenda di diventare invadente nei confronti dell’altro Ente, richiedendo impossibili privilegi nell’economia del tutto.

Antropocentrismo, Utilitarismo, Apparato tecnico-scientifico … sono alcune delle espressioni dell’arroganza umana, che vorrebbe imporre l’impossibile: vorrebbe cioè che la Dimora Ospitale dell’Infinito diventasse una Dimora Inospitale ad uso dell’uomo, e specialmente di certi uomini, quelli che, oggi, operano per conto dell’Apparato, essendone i funzionari.

In alternativa, ricorderemo che l’umiltà dell’abitatore ospitato e riconoscente trova invece una sublime esemplificazione nella metafisica dei Pellerossa, presso i quali è tradizionalmente molto vivo il sentimento dello “esser ospitati” nel mondo, il che spiega molto bene perché essi abbiano solo sfiorato la Terra, invece di calpestarla[6].

La natura dell’errore, cioè della violenza

Ecco la radice dell’errore, cioè di qualsiasi errore in quanto tale: l’inospitalità, l’arroganza. Essa si mostra quando un qualunque ente finito (si prenda il termine in un senso molto estensivo e variegato – anche un’ipotesi scientifica è un ente finito) pretende l’impossibile, cioè di farsi esso stesso Assoluto[7], volendo tenere solo o principalmente per sé la Dimora dell’Infinito, dimenticando che, nell’Infinito, qualsiasi ente è a casa propria, e non solo alcuni.

Da sempre, la metafisica, o se si preferisce la sophia perennis, è impegnata a denunciare la struttura fondamentale dell’errore, consistente nello scambiare il relativo con l’Assoluto, il finito con l’Infinito, l’Abitatore con la Dimora, la Parte con il Tutto…

Alcune immagini elaborate nelle scuole spirituali, o forse donate dagli dei (si sarebbe detto in altri tempi), per condurre gli umani erranti ed educarli all’Ospitalità, sono celebri e particolarmente suggestive: esse hanno contribuito ad orientare le civiltà del passato, in Occidente come in Oriente, conferendo ad esse misura e dignità, limitando la tracotanza della parte umana degli Abitatori dell’Infinito.

Occorre ammettere che nel mondo moderno e contemporaneo, tali insegnamenti vengono per lo più ignorati, se non derisi, e la supponenza della parte umana ha raggiunto livelli che un tempo erano impensabili: l’uomo dell’Apparato tecnico-scientifico e delle forze economiche dominanti pensa, anzi crede, di essere il padrone della Dimora dell’Infinito; crede che gli enti siano manipolabili a piacimento; crede di custodire la chiave che apre e chiude la porta della Dimora, facendovi entrare ed uscire gli enti, a comando; crede che tutto questo generi qualcosa di positivo, cui ha imposto dei nomi rassicuranti: Sviluppo, Progresso, P.N.L., Benessere, Felicità per il maggior numero …[8].

Molti di quei saperi che oggi portano il nome di Scienza in generale, ma che in realtà ne sono solo una componente (e non certo la migliore), sono espressione del sistema dominante, e in quanto tali sono finanziati, protetti, diffusi, imposti nelle scuole e nelle università, nella misura in cui sono funzionali ai progetti operativi della volontà di potenza che vuole padroneggiare la Dimora dell’Infinito; essi sono in contrasto con i saperi indipendenti, e non hanno più nulla in comune con i saperi di un tempo, per lo più espressione di quella saggezza non-duale, che insegnava a contemplare in silenzio l’Infinito e i suoi molteplici Abitatori; che ricordava che nella grande casa dell’Essere, c’è un posto per ogni Abitatore; che insegnava a mettere tra parentesi la presunzione umana[9], rammentando che l’uomo è solo uno degli Abitatori, e che non è lecito tentare di conculcare una prospettiva meramente umana.

Il carattere non-umano del contemplare.

Riassumendo: molti saperi che gli umani oggi valutano tali, sono in realtà interpretazioni funzionali ad una prospettiva parziale, per lo più antropocentrica, la quale, coscientemente o meno, opera come se il mondo esistesse in esclusiva per l’uomo stesso, e (ormai) per l’Apparato di cui è funzionario.

In tempi meno oscuri, si riteneva che il nome di Scienza dovesse spettare prima di tutto a quel conoscere disinteressato, esente da egoicità e utilitarismi, che come tale era quindi estraneo ad ogni forma di antropocentrismo e di attaccamento. Solo un conoscere purgato di tali elementi limitativi era degno del nome di Scienza, e Contemplazione era il termine utilizzato nella tradizione greco-latina per designare l’atto conoscitivo purificato, e quindi autentico, perché virtualmente capace di una prospettiva non meramente umana, perlopiù tramite una facoltà sovraindividuale designata nella stessa tradizione come nous o intelletto (il carattere “divino” del nous non indica nulla di misticoide e di misterioso, ma la qualità non meramente umana e non meramente individuale di tale facoltà).

La cultura moderna, invece, in nome di un acritico “hic homo intelligit“, deride noùs e contemplazione, di cui nulla sa (non promuovendone alcuna esperienza), ritenendo dogmaticamente che ogni posizione conoscitiva debba necessariamente esser solo umana, risultando ad essa impensabile il trascendimento dell’unico orizzonte alla sua portata. In questo modo, umanesimo, relativismo e tecnoscienza manipolatrice vengono assolutizzati; di conseguenza, la prospettiva unilaterale e ammorbante del mondo umano e dell’Apparato si arroga il diritto di predazione su tutto il resto, operando nel segno della violenza rispetto a tutti gli altri enti (e perfino all’interno del mondo umano).

Al contrario, l’intellezione almeno tendenzialmente pura e sovraindividuale[10] è il tentativo di guardare agli enti e all’Infinito non con l’occhio parziale e aggressivo di un particolare ente, che vede l’altro come asservito anticipatamente, ma con lo sguardo orientativamente imparziale e distaccato della sapienza non-umana, che cerca di vedere ogni cosa con equanimità rigorosa e per quanto può sub specie aeternitatis.

Più ci si avvicina a tale sguardo, più ci si allontana dalla prepotenza legata agli sguardi interessati, e subentra una dimensione pacificante.

Nel contemplare da tali altezze, non accessibili ai più, emerge la piccineria e la violenza più o meno mascherata dei criteri con cui gli umani solitamente valutano gli enti e gli eventi del mondo.

Il moralismo umanistico come violenza

Gli umani stimano bene o male gli eventi, valutandone il tornaconto o meno; anche le situazioni considerate più nobili spesso finiscono per tradire la presenza di un calcolo meschino e di una mentalità ristretta.

Schopenhauer e Nietzsche hanno avuto il merito di denunciare apertamente il carattere ipocrita e mistificatorio delle varie idee morali e dello stesso “principio di ragione”, che spesso cerca di fondare i sistemi morali che vanno per la maggiore.

Qualche esempio.

  • La morale razionale di Kant, che vieta di trattare l’uomo solo come mezzo, nello stesso tempo permette che tutti gli altri enti siano asserviti al mondo umano, giustificandone tutte le prevaricazioni in nome di una presunta superiorità della coscienza morale-razionale! In realtà, il tanto declamato rigorismo kantiano prevede una rigorosa e fastidiosa giustificazione delle prepotenze degli umani contro i non-umani. Da questo punto di vista, Kant ha fatto scuola: gli idealisti come Fichte e Hegel conservano questo aspetto sgradevole del Kantismo; la formula da essi preferita è quella della supremazia dello Spirito (leggasi mondo umano) sulla Natura, in nome del progresso della libertà del primo, della morale, dell’eticità, della ragione….
  • Il Marxismo (molto più di Marx) su questo punto, è stranamente allineato con i filosofi borghesi: l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive, prevede espressamente il crescente dominio sul mondo non-umano, il che è considerato acriticamente un fatto di per se stesso positivo, come tale apportatore di civiltà.

Si potrebbe rivisitare tutta la storia del pensiero moderno, per farne emergere la continuità di fondo, ben più forte delle eventuali differenze ideologico-politiche.

Solo le migliori correnti spirituali, espressioni della metafisica non dualistica, sono estranee a tali vedute anguste; in tempi abbastanza recenti, anche l’Ecologia Profonda ha dato dignitosi contributi, volti a ridimensionare l’invadente protagonismo degli umani, in una prospettiva radicalmente ecocentrica.

È auspicabile un possibile connubio, ormai, tra saggezza non-duale ed ecologia profonda, capace di aprire spazi di cultura, di civiltà, di modi di essere, non risucchiabili nella potenza dell’Apparato tecnico-scientifico e delle Forze Economiche che oggi condizionano e devastano il mondo.

Sistema chiuso e sistema aperto

Un pervicace luogo comune, diffuso negli ambienti antimetafisici, pretende che la metafisica sia essenzialmente un sistema di pensiero definito e chiuso, come tale responsabile di logiche oppressive ed autoritarie, che vietano qualsiasi apertura e qualsiasi pluralismo. La civiltà libera-democratica comporterebbe invece una società aperta, poiché basata sul rifiuto della metafisica, e sull’accettazione del razionalismo critico, della scienza, della democrazia … .

Tra i liberaldemocratici, K. Popper (che pure ha notevoli meriti in campo epistemologico) è uno dei maggiori sostenitori di questa tesi, la cui diffusione è pari all’infondatezza, dato che lo stesso Popper ha mostrato di non conoscere i termini più indispensabili del problema e di travisare perfino certi concetti essenziali (v. la nozione di Bene in Platone).

Abbiamo già detto che la metafisica si rivolge principalmente all’Infinito il quale, per la sua stessa natura, sfugge ad ogni definizione concettuale, poiché ogni definizione è un tentativo di delimitare ciò che, in questo caso, è al di là di ogni delimitazione[11].

Ne discende che nessun sistema concettuale può pretendere di essere una descrizione assoluta dell’Assoluto (cioè un Sistema chiuso)[12]: al contrario, anche le descrizioni più profonde ed elaborate dovranno necessariamente esser considerate delle descrizioni approssimative, capaci di indicare solo qualche aspetto della Realtà.

Di conseguenza, qualsiasi formulazione metafisica potrà esser accettata, purché accompagnata dalla consapevolezza dei suoi limiti intrinseci, consentendo uno spazio illimitato per altre possibili letture dell’Infinito, mai esaustive: tutto questo, se proprio si vuol conservare il termine “sistema”, costituisce un Sistema Aperto, ed è questo atteggiamento di Inesauribile Apertura a qualificare la metafisica in quanto tale, come hanno ripetuto in modo assai ridondante i Neoplatonici.

Il sistema chiuso, invece, le è strutturalmente estraneo, contrariamente a quanto avventatamente sostenuto da Popper, da troppa manualistica filosofica e da vari inesperti in materia[13].

Il linguaggio simbolico e l’infinito

Riguardo al linguaggio in generale, si possono svolgere le stesse considerazioni, poiché nessun termine linguistico può esser veramente “comprensivo” dell’Infinito.

Qualsiasi sistema linguistico-concettuale è sempre in ritardo strutturale, dato l’inesauribile traboccamento della Realtà totale, e tale divario non è mai colmabile.

Con questo, non si intende rifiutare il linguaggio concettuale: semplicemente, si prende atto dei limiti intrinseci che qualsiasi operazione linguistico-concettuale porta inevitabilmente con sé.

La prudenza nei confronti del linguaggio non sfocia in un oscuro misticismo, in fantasie irrazionalistiche: al contrario, permette di salvaguardare anche tale linguaggio, a patto di conoscerne i limiti, evitando le assolutizzazioni fuori posto e controproducenti, come quelle realizzate da Cartesio o da Hegel.

Non esistono idee chiare e distinte, nel senso di Cartesio, sostanzialmente corrispondenti alle cose; il linguaggio matematico non è affatto più chiaro e preciso di altri, e soprattutto non corrisponde meglio di altri alla natura del reale, come pretende gran parte della cultura moderna, di derivazione cartesiana e galileiana.

L’hegelismo, che ha il merito di avere ben compreso i difetti del razionalismo cartesiano, ha creduto vanamente di compensarli inventandosi la ragion dialettica, capace di una concettualizzazione dinamica esente dalle rigidità del concetto “astratto”, ed in grado quindi di esporre compiutamente l’Assoluto nella sua totalità, senza ripiegare nelle parzialità della ragione non-dialettica.

Come si può notare da questi cenni cursori, sono principalmente le filosofie moderne, “razionali” e “critiche”, ad esser talvolta dogmatiche, stante la loro pretesa di elaborare un linguaggio concettuale in grado di definire il Reale e di rinchiuderlo nei confini delle formulazioni cartesiane, hegeliane o altro.

Al polo opposto, altre correnti moderne, rifiutando tali insane dogmatizzazioni, eludono il problema rifiutandosi a priori di parlarne dato che perfino gli enti risulterebbero insondabili data l’opacità del mondo in cui viviamo.

La cultura moderna-contemporanea risulta marchiata da questi estremismi, che sono tali per eccesso (il linguaggio circoscrive l’Assoluto, il Reale, l’Ente) o per difetto (l’Assoluto non esiste, e se esiste, comunque sfugge totalmente … non resta, eventualmente, che la fede!).

Questa mancanza di equilibrio è un altro preoccupante “segno dei tempi”; in alternativa, una soluzione misurata è ben presente nelle varie espressioni della Sophia Perennis, là dove si dice che il linguaggio, non potendo circoscrivere l’Infinito che travalica ogni confinamento, può però alludere ad esso o indicarne taluni aspetti, così da esser d’aiuto quale sostegno per una intuizione dell’Infinito stesso.

Il linguaggio così inteso, invece di voler catturare, misurare e rinchiudere (l’Infinito, gli Enti), si propone come supporto che aiuta la visione intuitiva di ciò che prima non si lasciava nemmeno scorgere. Tale linguaggio, stante la funzione di cui sopra, appare dunque “disvelante”, nel senso che, togliendo il velo, lascia vedere qualcosa dell’Infinito; oppure, il che è lo stesso, appare come “apertura”, poiché apre (sostiene, favorisce) ulteriori possibilità di visione, prima precluse.

Gli antichi chiamavano mitico-simbolico questo linguaggio tipico di arcaiche saggezze, per distinguerlo da altre forme linguistiche; rimanendo in Occidente, Pitagora, Platone e i loro discepoli ci hanno lasciato le più belle testimonianze di questa pratica simbolica del linguaggio: i “Numeri” di Pitagora ed i Miti di Platone sono appunto Simboli che stimolano e sorreggono il lampo dell’intuizione[14], la cui luce arriva così ad irraggiarsi in contrade prima inesplorate e misteriose, per lo spirito dormiente.

È la cultura moderna ad esaltare, in una forma o nell’altra, il linguaggio concettuale, quale linguaggio catturante-misurante, teso a dominare “scientificamente” gli enti; l’Apparato tecnico-scientifico oggi predominante ha perfezionato questo uso imprigionante del linguaggio, negando qualsiasi dignità ad altre possibilità linguistiche.

La saggezza non duale, da sempre, lascia parlare anche un altro linguaggio, che invece di confinare e chiudere, dischiude e disvela, incoraggiando l’apertura della visione intellettuale oltre le precedenti limitazioni.

Il “mito della caverna” di Platone conserva un’importanza perenne poiché esemplifica in modo eccellente le tappe principali percorse dalla coscienza nel corso della sua espansione (apertura) verso l’Infinito, tappe che costituiscono le stazioni principali di un processo di decondizionamento e di liberazione.

Oggi più che mai, urge il ritorno della saggezza non duale e con essa della parola disvelante e non catturante, capace di dischiudere nuovi spazi di libertà, in un mondo ostile alla pluralità, banalizzato dall’omologazione planetaria e asfissiato dalla clonazione frenetica ed unilaterale delle parole calcolanti-catturanti della peggiore tecnoscienza, che vorrebbe escludere tutte le altre: è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, ed è un fenomeno particolarmente inquietante.


[1] Il termine “monismo” si presta ad equivoci che è opportuno evitare, perché effettivamente può far pensare ad un sistema riduttivistico; per questo motivo, è di gran lunga preferibile l’espressione “non-dualità”, che appare maggiormente adatta allo scopo. R. Guénon ha fatto il punto con chiarezza: «Si può dire che il monismo è caratterizzato da questo, che, non ammettendo l’irriducibilità assoluta e volendo andare oltre l’opposizione apparente, crede di poterci riuscire riducendo uno dei due termini all’altro; se, in particolare, si tratta dell’opposizione spirito-materia, si avrà da una parte il monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materia a spirito, e dall’altra il monismo materialista, che pretende al contrario di ridurre lo spirito a materia […] gli accade quasi fatalmente […] di negare la opposizione […] in realtà le due opposte soluzioni moniste non sono che le due facce d’una doppia soluzione, in sé al tutto insufficiente. È a questo punto che un’altra soluzione deve intervenire. […] Designeremo questa dottrina coll’appellativo di non[1]dualismo, o meglio ancora come la dottrina della non-dualità, volendo tradurre nel modo più esatto possibile il termine sanscrito adwaita-vada.» (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pagg. 128-129).

[2] Proprio per questo T. Burckhardt scrive che «il metodo sufico consiste nell’arte di mantenere l’anima aperta all’influsso dell’Infinito» (Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Ed. Mediterranee, 1987, pag. 36). Aggiungeremo questa riflessione complementare di F. Schuon: «Una civiltà è integrale e sana in quanto poggia sulla religione invisibile o soggiacente, la religio perennis; questo significa che essa lo è in quanto le sue espressioni o le sue forme lasciano trasparire l’Aformale.» (Sguardi sui mondi antichi, Ed. Mediterranee, 1996, pag. 143).

[3] «Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità assoluta, il non-dualismo differisce da esso profondamente perché non pretende affatto che uno dei due termini sia riducibile all’altro così semplicemente; esso li considera l’uno e l’altro simultaneamente nell’unità di un principio comune, di carattere più universale, nel quale essi sono entrambi contenuti non più come opposti, ma quali complementari […] il non-dualismo è così l’unico tipo di dottrina che sia consono all’universalità della metafisica». (R. Guénon, Introd. gener. allo studio … cit., pagg. 129-130).

[4] L’Infinito implica un pluralismo integrale, anche perché «ogni conoscenza, anche se relativa, è sempre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema» (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pag. 142). Inoltre, «è impossibile che vi sia una sola dottrina che renda conto dell’Assoluto e delle relazioni tra la contingenza e l’Assoluto» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, cit., pag. 138).

[5] Il simbolismo del Soffio, ben presente nella Sophia Perennis, si riferisce proprio al contenuto appena individuato. Seguendo l’esoterismo islamico, tutti gli enti essendo tali, sono infatti necessariamente sorretti dal Soffio di compassione (An-Nafas ar-rahmani), o sono espressioni di tale soffio onnipervadente. Non a caso, nel Corano Allah è detto anche «compassionevole». Il soffio infinito-compassionevole, essendo tale, non può che accogliere in sé tutti gli esseri senza eccezione. Non diversamente, in Brhadaranyaka Upanishad è detto che «il Soffio vitale è simile alla formica, alla mosca, all’elefante, al trimundio, a tutto l’universo […] sul Soffio infatti tutto l’universo si sostiene» (1.III, 22- 23). Ed inoltre, sempre in riferimento al Soffio universale: «Conosci quel filo che tien legati insieme questo mondo, il mondo di là e tutte le creature? […] Chi conosce questo filo e questo interno reggitore, costui conosce il Brahman, i mondi, gli dei, i Veda, le creature, costui conosce l’Atman, conosce ogni cosa […] Il soffio è il filo che tiene insieme legati questo mondo, quell’altro e tutte le creature» (3.VII, l-2). Guénon ha così commentato: «Questo raggio luminoso che lega tra loro tutti gli stati è anche simbolicamente rappresentato come il soffio in virtù del quale essi sussistono, il che, si osserverà, è strettamente conforme al significato etimologico dei termini designanti lo spirito (si tratti del latino spiritus o del greco pneuma); e così, come abbiamo spiegato in altre occasioni, egli è propriamente il sutratma; ciò equivale anche a dire che egli in realtà è Atma stesso» (Spirito e intelletto, in Melanges, I, Venezia 1978). Il simbolismo indù del sutratma compendia in modo essenziale i contenuti di cui sopra, dato che «Atma, come un filo (sutra), penetra e lega fra di loro tutti i mondi e nel contempo è anche il soffio che […] li sostiene e li fa sussistere» (R. Guénon, Simboli della scienza sacra, LXI). Lo stesso dicasi per il simbolismo del sarva-prana, cioè del soffio totale, che ha la stessa funzione rispetto alla molteplicità degli enti e degli stati di Esistenza. Questa la sintesi di Shankara a proposito del sutratma: «forma un legame tra i vari corpi sottili, e li permea e passa tra tutti loro come un filo su cui è infilato un filare di gemme. È anche conosciuto come Prana poiché in forma di respiro vitale anima e sostiene tutta la vita.» (La quintessenza del vedanta, 389).

[6] La suggestiva immagine è di S. H. Nasr, Uomo e natura, Rusconi ed.

[7] «I bisogni vitali e quindi il diritto alla vita rimangono i medesimi in ogni dove, si tratti d’uomini o d’insetti. Uno degli errori più perniciosi è ritenere che la collettività umana da un lato e il benessere della stessa dall’altro rappresentino un valore assoluto e pertanto un fine in sè.» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, pag. 4).

[8] «Questi due idoli (scienza e progresso) son serviti tanto per mortificare quelle minoranze dissidenti che malgrado tutto sono esistite negli ultimi secoli […] e che vorrebbero sottrarsi all’agitazione moderna, alla pazzia della velocità […] ; tanto -il che è molto più significativo- per costringere la maggioranza dell’umanità, grazie ad una presunta superiorità ed in barba a qualsiasi principio egualitario, e con la forza brutale delle armi, ad asservirsi allo spirito dì conquista e agli interessi economici occidentali. Quel che la razionalità dominante in Europa e in America non tollera assolutamente è che degli uomini preferiscano lavorare di meno (com’è tipico in qualsiasi civiltà tradizionale e in generale presso i popoli antichi) e contentarsi di poco per vivere, secondo una misura che gli deriva dall’intuizione dell’essenziale. Siffatta intolleranza deriva direttamente dalla centralità della quantità e dalla negazione del non-sensibile in quanto irreale, con le note conseguenze dell’agitazione ossessiva e della produzione materiale come unico valore, all’estremo opposto della contemplazione.» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno in R. Guenon, Pontecorboli Ed., 1996, pagg. 186-187).

[9] Tutte le scuole spirituali tradizionali, non a caso, hanno come comune denominatore il trascendimento o per lo meno il ridimensionamento di quell’accidente denominato ego, il che è stato espresso secondo formulazioni talvolta abbastanza diverse, e però convergenti nel significato di fondo. Il trattato breve di Ibn Arabi, intitolato Il libro dell’estinzione nella contemplazione, è dedicato proprio alla negazione della egoicità, e più in generale di tutto ciò che risulta contingente, poiché «la visione di Lui non ha realmente luogo se non attraverso il venir meno di te stesso» (SE, 1996, pag. 34). Drg drsya viveka è un testo classico dell’Advaita Vedanta, per lo più attribuito a Shankara. Tratta della Discriminazione (viveka) tra drg (osservatore, Sè, …) e drsya (spettacolo, osservato, non-Sè, …), tra cui rientra anche l’ego come componente di ciò che non è propriamente Sé. Perciò anche l’ego appartiene a ciò che è meramente “illusorio-relativo” rispetto all’assolutezza onnipervadente dell’Infinito (Sé, Atman, Brahman nirguna, …). Per apprezzare una volta di più la portata veramente universale, quindi non egoica e non-antropocentrica del Vedanta, possiamo meditare sul Sutra 21, in cui le qualità più universali dell’Infinito vengono attribuite anche ai mondi non-umani, dato che «il Puro Essere (Sat), la Pura Coscienza (Cit) e la Pura Beatitudine (Ananda) sono comuni […] all’etere, all’aria, al fuoco, all’acqua, alla terra […] agli dei, agli animali». Una riflessione consimile si può esercitare a proposito del Platonismo, dato il carattere impersonale del Nous. In aggìunta, ci limiteremo a segnalare che Plotino attribuiva lo stato contemplativo anche agli esseri non-umani (v. Enneadi, III, B, I). Ricorderemo anche che secondo Avicenna e molti altri medievali, l’atto conoscitivo superiore non ha mai natura meramente individuale, ma dipende dall’Intelletto Agente che ha natura sovraindividuale (v. Libro delle direttive, parte II, gruppo VII).

[10] «L’intelletto trascendente, per cogliere direttamente i principi universali, deve esso stesso essere d’ordine universale; non è quindi una facoltà individuale. […] La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma ciò che sta oltre la ragione è veramente non-umano e proprio per questo rende possibile la conoscenza metafìsica, che, bisogna ripeterlo ancora, non è affatto una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a tale conoscenza, ma è in quanto questo essere, che è umano in uno dei suoi stati, è in pari tempo altra cosa […] se l’individuo costituisse un sistema chiuso, al modo della monade di Leibnitz, non vi sarebbe metafisica possibile.» (R. Guénon, La metafisica orientale, ora in Studi sull’ induismo, Basaia, 1983, pag.117). A proposito dell’ostilità della modernità per la contemplazione e l’intuizione intellettuale, merita di esser richiamata questa osservazione di J. Pieper: «La radice filosofica moderna di questo disprezzo del contemplare nella quiete, e di questo culto del lavoro, sta nella negazione dell’attività intuitiva dell’intelletto umano, la cui origine è kantiana» (La verità delle cose, Massimo ed., pag. 17).

[11] Proprio per questo Shankara, parlando di Brahman, sentenzia che è «di natura infinita, non soggetto a modificazioni, incomprensibile per mezzo del ragionamento […] trascende ogni definizione verbale» (La quintessenza del vedanta, 761); ed anche: «rimane quella sola e pura Realtà, che è al di là delle categorie mentali» (Aparokshanubhuti-Autorealizzazione, 136).

[12] Ha scritto bene G. Reale: «la metafisica riguarda la problematica dell’assoluto, ma non è, e non può essere, conoscenza assoluta dell’assoluto, poiché rimane dinamicamente sempre aperta. Ma è proprio di questa conoscenza e di questa problematica dell’intero che l’uomo non può fare a meno nel processo conoscitivo in generale.» (Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Cortina ed., 1995, pag. 47).

[13] Contro la valutazione popperiana, vi sono motivi per sostenere che è proprio il modello di razionalità scientifica oggi preponderante (la “scienza normale” nel senso di T. Kuhn) a delineare un sistema chiuso. «Ma in che cosa consiste la razionalità scientifica? Il Moderno si presenta innanzitutto come spirito di negazione. La forma della negazione è il sistema, che nel porsi come concezione chiusa e totalizzante, nega le illimitate possibilità di concezione inerenti una metafisica tradizionale e riduce il reale ai suoi schemi ermeneutici, vale a dire delinea un immagine del mondo quale appare necessariamente dati certi presupposti […] per poi gabellare quell’immagine come il modo vero e oggettivo in cui stanno le cose. […] Kant e Comte incarnano per Guénon più di altri lo spirito di negazione di cui sopra» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno, pag.154). Abbiamo già rimarcato che la mancanza di Universalità e di pluralismo appartiene al sistema chiuso, il quale è tale perché vorrebbe nientificare tutto ciò che non rientra nei confini da esso stesso predisegnati. In questo senso, le cosiddette filosofie critiche moderne, nonostante le loro pretese e, talvolta, le buone intenzioni, stanno dalla parte del sistema chiuso, in quanto volontà di negare, di volta in volta, quanto non è riducibile alla ragion matematica (Galilei, Cartesio, Hobbes …), all’intelletto discorsivo e alla ragion pura (Kant), alla ragion dialettica (Hegel), al mero empirismo fattuale (Positivismo, Neopositivismo). Il tratto comune e veramente inquietante è la negazione dell’intuizione intellettuale e della contemplazione, con la conseguente atrofizzazione dell’intelligenza, per cui Schuon può scrivere: «Con Voltaire, Rousseau e Kant, la carenza d’intelligenza borghese (o vaishya come direbbero gli indù) diventa dottrina e si insedia definitivamente nel pensiero europeo, dando origine […] allo scientismo, all’industria e alla cultura quantitativa. L’ipertrofia mentale dell’uomo colto supplisce ormai all’assenza penetrativa intellettuale; il senso dell’assoluto e del principiale è sommerso da un empirismo mediocre. […] Alcuni ci rimprovereranno forse di mancare di riguardo, ma vorremmo proprio sapere dove sono i riguardi dei filosofi che stroncano senza vergogna interi millenni di sapienza» (Le stazioni della saggezza, Mediterranee , pag.20).

[14] Ovviamente, anche i Simboli comportano qualche imperfezione rispetto ai contenuti cui alludono; ciò nonostante costituiscono, come si è detto, dei sostegni indispensabili e potenti per avvicinarsi alle verità che essi in qualche modo esprimono. Schuon ha formulato con insuperabile concisione questo duplice aspetto del simbolo, dato che « visto dall’alto, il simbolo è oscurità, ma visto dal basso è luce» (Le stazioni della saggezza, pag. 31).

Laureato in Filosofia delle scienze, fondatore dell’Associazione Eco-Filosofica, animatore del sito filosofiatv.org, scrittore e divulgatore sul tema della decrescita. I suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente. Autore del libro: ◾Decrescita – Idee per una civiltà post-sviluppista [di Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel], Sismondi Editore, dicembre 2009

René Guénon: “Sul significato delle feste carnevalesche”

A proposito di una «teoria della festa» formulata da un sociologo, abbiamo segnalato [Si veda «Etudes Traditionnelles», aprile 1940, p. 169] che tale teoria aveva, fra gli altri difetti, quello di voler ridurre tutte le feste a un solo tipo, costituito da quelle che si possono chiamare feste «carnevalesche», espressione che ci pare abbastanza chiara per essere facilmente compresa da tutti, poiché il carnevale rappresenta effettivamente ciò che ne rimane ancor oggi in Occidente; e dicevamo allora che si pongono, a proposito di questo genere di feste, delle questioni che meritano un esame più approfondito. Infatti, l’impressione che se ne trae è sempre, anzitutto, un’impressione di «disordine» nel senso più completo della parola; come mai quindi si constata la loro esistenza, non solo in un’epoca come la nostra, in cui si potrebbe in fondo, se non avessero un’origine così remota, considerarle semplicemente come una delle numerose manifestazioni dello squilibrio generale, ma anche, e persino con uno sviluppo molto maggiore, in civiltà tradizionali con le quali a prima vista esse sembrano incompatibili?

Non è inutile citare qui alcuni esempi precisi, e menzioneremo anzitutto, a questo riguardo, certe feste di carattere veramente strano che si celebravano nel Medioevo: la «festa dell’asino» in cui quest’animale, il cui simbolismo propriamente «satanico» è assai noto in tutte le tradizioni [Sarebbe un errore voler opporre a questo il ruolo svolto dall’asino nella tradizione evangelica, poiché, in realtà, il bue e l’asino, posti ai due lati opposti della mangiatoia alla nascita di Cristo, simboleggiano rispettivamente l’insieme delle forze benefiche e quello delle forze malefiche; si ritrovano d’altronde nella crocifissione, sotto forma del buono e del cattivo ladrone. Quanto poi a Cristo sulla groppa di un asino, al suo ingresso in Gerusalemme, egli rappresenta il trionfo sulle forze malefiche, trionfo la cui realizzazione costituisce propriamente la «redenzione»], veniva introdotto addirittura nel coro della chiesa, ove occupava il posto d’onore e riceveva i più straordinari segni di venerazione; e la «festa dei folli», in cui il basso clero si abbandonava agli atti più sconvenienti, parodiando al tempo stesso la gerarchia ecclesiastica e la liturgia medesima [Questi «folli» portavano d’altronde un copricapo a lunghe orecchie, manifestamente destinato a evocare l’idea di una testa d’asino, e questo particolare non è il meno significativo dal punto di vista in cui ci poniamo].

Com’è possibile spiegare che cose simili, il cui carattere più evidente è incontestabilmente quello parodistico o addirittura sacrilego [L’autore della teoria alla quale abbiamo alluso non ha difficoltà a riconoscervi la parodia e il sacrilegio, ma, riferendoli alla sua concezione della «festa» in generale, pretende di farne degli elementi caratteristici del «sacro» medesimo, il che non solo è un paradosso piuttosto esagerato, ma, bisogna dirlo chiaramente, una pura e semplice contraddizione] abbiano potuto, in un’epoca come quella, non solo essere tollerate, ma persino ammesse più o meno ufficialmente?

Menzioneremo anche i saturnali degli antichi Romani, da cui il carnevale moderno sembra d’altronde trarre origine direttamente, per quanto non ne sia più, a dire il vero, che un ricordo assai pallido: durante queste feste, gli schiavi comandavano ai padroni e questi li servivano [Si riscontrano anche, in paesi diversi, casi di feste dello stesso genere in cui si giungeva fino a conferire temporaneamente a uno schiavo o a un criminale le insegne della regalità, con tutto il potere che esse comportano, salvo a condannarli a morte quando la festa era terminata]; si aveva allora l’immagine di un vero «mondo alla rovescia», in cui tutto si faceva contrariamente all’ordine normale [Lo stesso autore parla anche lui, a questo proposito, di «atti alla rovescia», e persino di «ritorno al caos», il che contiene una parte di verità, ma, per una sbalorditiva confusione di idee, vuole assimilare tale caos all’«età dell’oro»].

Per quanto si pretenda comunemente che ci fosse in queste feste un richiamo dell’«età dell’oro», tale interpretazione è manifestamente falsa, dal momento che non si tratta affatto di una specie di «uguaglianza» che a rigore potrebbe esser considerata una rappresentazione, nella misura in cui lo consentono le presenti condizioni [Vogliamo dire le condizioni del Kali Yuga o dell’«età del ferro» di cui fanno parte tanto l’epoca romana quanto la nostra] dell’indifferenziazione iniziale delle funzioni sociali; si tratta di un rovesciamento dei rapporti gerarchici, il che è completamente diverso, e un tale rovesciamento costituisce, in modo generale, uno dei caratteri più evidenti del «satanismo».

Bisogna vedervi dunque piuttosto qualcosa che si riferisce all’aspetto «sinistro» di Saturno, aspetto che non gli appartiene certo in quanto dio dell’«età dell’oro», ma al contrario in quanto egli attualmente è solo il dio decaduto di un’èra trascorsa [Che gli dèi antichi diventino in certo modo dei demòni, è un fatto abbastanza generalmente constatato, e di cui l’atteggiamento dei cristiani nei riguardi degli dèi del «paganesimo» è solo un caso particolare, ma che non sembra esser mai stato spiegato a dovere; non possiamo d’altronde insistere qui su tale punto, che ci condurrebbe fuori tema. Resta inteso che tutto questo va riferito unicamente a certe condizioni cicliche, e perciò non intacca né modifica in nulla il carattere essenziale di questi stessi dèi in quanto simboli non temporali di princìpi di ordine sopra umano, di modo che, accanto a tale aspetto malefico accidentale, l’aspetto benefico sussiste sempre, malgrado tutto, e anche quando è più completamente misconosciuto dalla «gente dell’esterno»; l’interpretazione astrologica di Saturno potrebbe fornire a questo riguardo un esempio chiarissimo].

Si vede da tali esempi che vi è sempre, nelle feste di questo genere, un elemento «sinistro» e anche «satanico», ed è da notare in modo del tutto particolare che proprio questo elemento piace al volgo ed eccita la sua allegria: è infatti qualcosa di molto adatto, anzi più adatto di ogni altra cosa, a dar soddisfazione alle tendenze dell’«uomo decaduto», in quanto queste tendenze lo spingono a sviluppare soprattutto le possibilità meno elevate del suo essere. Ora, proprio in ciò risiede la vera ragione delle feste in questione: si tratta insomma di «canalizzare» in qualche maniera tali tendenze e di renderle il più possibile inoffensive, dandogli l’occasione di manifestarsi, ma solo per periodi brevissimi e in circostanze ben determinate, e assegnando così a questa manifestazione degli stretti limiti che non le è permesso oltrepassare [Ciò è in rapporto con la questione dell’«inquadramento» simbolico, sulla quale ci proponiamo di tornare].

Se infatti queste tendenze non potessero ricevere quel minimo di soddisfazione richiesto dall’attuale stato dell’umanità, rischierebbero, per così dire, di esplodere [Alla fine del Medioevo, quando le feste grottesche di cui abbiamo parlato furono soppresse o caddero in disuso, si produsse un’espansione della stregoneria senza alcuna proporzione con quel che s’era visto nei secoli precedenti; fra questi due fatti esiste un rapporto abbastanza diretto, per quanto in genere inavvertito, il che d’altronde è tanto più sorprendente in quanto vi sono alcune somiglianze abbastanza singolari fra tali feste e il sabba degli stregoni, ove pure tutto si faceva «alla rovescia»], e di estendere i loro effetti all’intera esistenza, sia dell’individuo sia della collettività, provocando un disordine ben altrimenti grave di quello che si produce soltanto per qualche giorno riservato particolarmente a questo scopo.

Tale disordine è d’altra parte tanto meno temibile in quanto viene quasi «regolarizzato», poiché, da un lato, questi giorni sono come avulsi dal corso normale delle cose, in modo da non esercitare su di esso alcuna influenza apprezzabile, e comunque, dall’altro lato, il fatto che non vi sia niente di imprevisto «normalizza» in qualche modo il disordine stesso e lo integra nell’ordine totale.

Oltre a questa spiegazione generale, perfettamente evidente quando si voglia riflettervi bene, ci sono alcune osservazioni utili da fare, per quanto concerne più in particolare le «mascherate», che svolgono un’importante funzione nel carnevale propriamente detto e in altre feste più o meno simili; e tali osservazioni riconfermeranno quel che abbiamo appena detto. Infatti, le maschere di carnevale sono generalmente orride ed evocano il più delle volte forme animali o demoniache, tanto da essere quasi una sorta di «materializzazione» figurativa di quelle tendenze inferiori, o addirittura «infernali», cui è permesso così di esteriorizzarsi. Del resto, ognuno sceglierà naturalmente fra queste maschere, senza neppure averne una chiara coscienza, quella che meglio gli conviene, cioè quella che rappresenta quanto è più conforme alle sue tendenze, sicché si potrebbe dire che la maschera, che si presume nasconda il vero volto dell’individuo, faccia invece apparire agli occhi di tutti quello che egli porta realmente in se stesso, ma che deve abitualmente dissimulare.

È bene notare, perché ne precisa ancor più il carattere, che vi è in questo quasi una parodia del «rovesciamento» che, come abbiamo spiegato altrove [Si veda “L’Esprit est il dans le corps ou le corps dans l’esprit”], si produce a un certo grado dello sviluppo iniziatico; parodia, diciamo, e contraffazione veramente «satanica», perché qui il «rovesciamento» è un’esteriorizzazione, non più della spiritualità, ma, all’opposto, delle possibilità inferiori dell’essere [C’erano anche, in certe civiltà tradizionali, periodi speciali in cui, per ragioni analoghe, si consentiva alle «influenze erranti» di manifestarsi liberamente, prendendo comunque tutte le precauzioni necessarie in un caso simile; queste influenze corrispondono naturalmente, nell’ordine cosmico, a quel che è lo psichismo inferiore nell’essere umano, e di conseguenza, fra la loro manifestazione e quella delle influenze spirituali esiste lo stesso rapporto inverso che esiste fra le due specie di esteriorizzazione appena menzionate; di più, in queste condizioni, non è difficile capire come la mascherata stessa paia raffigurare in qualche modo un’apparizione di «larve» o di spettri maligni].

Per terminare questi brevi cenni, aggiungeremo che, se le feste di questo genere vanno sempre più perdendo importanza e sembrano ormai suscitare a malapena l’interesse della folla, il fatto è che, in un’epoca come la nostra, hanno veramente perduto la loro ragione d’essere [Ciò equivale a dire che esse propriamente non sono più che «superstizioni», nel senso etimologico della parola]: come potrebbe, infatti, esserci ancora il problema di «circoscrivere» il disordine e di rinchiuderlo entro limiti rigorosamente definiti, quando esso è diffuso dappertutto e si manifesta costantemente in tutti gli ambiti in cui si esercita l’attività umana? Così, la scomparsa quasi completa di queste feste, di cui, se ci si limitasse alle apparenze esteriori e da un punto di vista semplicemente «estetico», ci si potrebbe rallegrare per via dell’aspetto “laido” che inevitabilmente assumono, questa scomparsa, diciamo, costituisce al contrario, se si va al fondo delle cose, un sintomo assai poco rassicurante, poiché testimonia che il disordine ha fatto irruzione nell’intero corso dell’esistenza e si è a tal punto generalizzato da far sì che noi viviamo in realtà, si potrebbe dire, in un sinistro «carnevale perpetuo».

René Guénon

« Tutto ciò che è, sotto qualsiasi modalità si trovi, avendo il suo principio nell’Intelletto divino, traduce o rappresenta questo principio secondo la sua maniera e secondo il suo ordine d’esistenza; e, così, da un ordine all’altro, tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale, che è come un riflesso dell’Unità divina stessa. »
(René Guénon, Il Verbo e il Simbolo, gennaio 1926, ora in Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 22)

Il ruolo della fisica moderna

La scienza moderna, il cui carattere razionalista ed antitradizionale deriva dalla corrente di pensiero che prese forma nel Rinascimento e che può essere descritta con il nome di “umanesimo”, rappresenta uno dei paradigmi su cui si fonda la civiltà occidentale, e lo si vede dall’importanza che essa ha assunto in seno a questa stessa civiltà, al punto da diventarne un idolo intoccabile, addirittura posto al di sopra di quell’altra entità indiscutibile che è la “democrazia”, poiché ultimamente si sente dire, per mettere a tacere qualunque opinione che sia in contrasto con quelle della comunità scientifica, che “la scienza non può essere democratica”. Interessa qui notare, più che il carattere di autoreferenzialità di simile osservazione, il potere enorme che sono venuti ad assumere i procedimenti del metodo scientifico, rispetto al mantenimento di quell’illusione collettiva che sta alla base della civiltà moderna. Si tratta infatti di un’illusione poter pensare di considerare, così come fa la scienza sperimentale, una civiltà unicamente da un punto di vista materiale, ovvero di limitare il reale all’universo corporeo ed a quel poco di elementi “sottili”, quali il pensiero ed altre manifestazioni vitali, che sono direttamente collegate al corpo, e che peraltro vengono studiate come facoltà derivanti totalmente da quest’ultimo. Questo modo di considerare la realtà, escludendo proprio tutto ciò che vi è di essenziale in essa, non può che condurre ad una serie di paradossi e di incongruenze, che stanno alla base delle concezioni proprie della mentalità moderna e che devono continuare ad essere ben mistificati, affinché questa stessa mentalità possa continuare ad esistere.

L’umanesimo altro non è che la volontà di ricondurre tutto all’uomo, ed alla sua facoltà caratteristica, la ragione. Questo processo viene attuato negando di fatto qualunque principio trascendente, o per lo meno dichiarando conoscibile solo ciò che può essere studiato attraverso l’uso della ragione; e se questo non significa negare a priori che esista qualcos’altro -anche se per la maggior parte delle persone oggi è proprio così- nella pratica ci si comporta come se questo non esistesse, o comunque non avesse la minima influenza in nessun contesto della propria vita.

Con ciò non si vuole disconoscere l’importanza della ragione e dei suoi mezzi di indagine; quello che si intende dire è che la ragione è una facoltà limitata, e che non si può chiederle di trascendere i propri confini, ed arrivare a dare una spiegazione vera del manifestato, perché anche rimanendo nell’ambito cosmologico una qualunque conoscenza, per possedere una certa realtà, deve derivare dai princìpi, princìpi che non sono indagabili attraverso la ragione, perché la comprendono e la superano. È un’illusione pensare che la conoscenza possa arrivare dal basso, ovvero studiando le proprietà della materia (di cui peraltro i fisici non sembra siano riusciti a dare una vera definizione, e questa è una di quelle incongruenze di cui si parlava prima); la vera materia, la materia prima del nostro mondo, la materia signata quantitate, è inconoscibile, in quanto substrato omogeneo ed indifferenziato del reale. Chiaramente i fisici non si riferiscono a questa materia, che non potrebbe cadere sotto i loro strumenti di misura; ciò nonostante la materia fisica da loro considerata, quale che sia l’entità a cui essi danno questo nome, è nel mondo manifestato la cosa che più si avvicina a questa materia prima, e come tale partecipa della sua inintelligibilità. Eppure è proprio questa l’illusione dei fisici, pensare di poter spiegare l’Universo attraverso lo studio della materia, all’interno di una teoria che risente fortemente dell’ipotesi evoluzionista. Notiamo per inciso che l’ipotesi evoluzionista, pur non essendo mai stata validamente verificata, permea ormai tutte le branche della scienza, insinuando e mantenendo nell’opinione pubblica la credenza cieca nel progresso, così essenziale per la costituzione della mentalità moderna. Secondo questa teoria, che pretenderebbe di parlare dell’origine dell’Universo, o per lo meno di cosa sarebbe successo a partire dalle prime fasi (come se l’Universo fisico potesse aver avuto un inizio nel tempo, altra concezione paradossale)[1], la materia inizialmente non sarebbe stata come quella di oggi, bensì disgregata in particelle subatomiche, entità peraltro indefinibili, in quanto non composte di materia ordinaria. In particolare vengono definite nove ere cosmologiche, di durata progressivamente maggiore, che varia da frazioni di miliardesimi di secondo per la prima fino a miliardi di anni per l’ultima, che è quella in cui ci troviamo, durante le quali, a partire dalla data di inizio risalente a 13,7 miliardi di anni fa, si sarebbero formate le varie particelle, poi i nuclei, gli atomi, le prime stelle, attraverso un successivo raffreddamento, collegato ad un’espansione dell’Universo (e qui rileviamo una seconda incongruenza, quella di un Universo che si espande, senza che questa espansione presupponga l’esistenza di uno spazio esterno dove espandersi, che non farebbe ancora parte dell’Universo, come rilevato nella nota (1)).

Quello che viene rappresentato in questo modo è dunque un Universo totalmente inanimato, privo di coscienza e di vita, la quale sarebbe apparsa casualmente, miliardi di anni dopo, da una combinazione di condizioni favorevoli, a partire dalla formazione di organismi unicellulari, per giungere successivamente, attraverso una lunga evoluzione, ad organismi complessi ed infine all’uomo, mediante il quale l’Universo avrebbe finalmente preso coscienza di sé stesso. Una simile teoria, oltre ad essere impossibile, come chiunque abbia delle minime nozioni di metafisica, od anche solo di logica potrà constatare (basti pensare che dal meno non può in alcun caso derivare il più, e questa semplice tautologia demolisce in partenza ogni concezione evoluzionista), non è in grado di spiegare niente: perché la materia si sarebbe formata, perché avrebbe le caratteristiche che conosciamo e quale sarebbe il motore di tutto questo processo; in che modo avrebbe potuto comparire la vita e che cosa rappresenti.
Inoltre, mai prima dell’era moderna lo studio del mondo sensibile fine a sé stesso avrebbe potuto destare interesse, in quanto ogni scienza era anticamente concepita valida nella misura in cui poteva esprimere qualcosa delle verità superiori, di cui partecipa tutto ciò che possiede un qualunque grado di realtà.

La moderna cosmologia esaurisce invece l’argomento del suo studio proprio nel mondo corporeo, visto come qualcosa a sé stante, completamente indipendente da qualunque principio di ordine superiore, di cui non viene peraltro postulata l’esistenza.

Una prima conseguenza di questo particolare modo di vedere le cose è stato il diffondersi di quella mentalità comune, presente ormai in quasi tutte le persone, siano esse atee o credenti, che è la mentalità materialista. Questo è stato fatto inculcando fin dalla più tenera età, attraverso l’istruzione obbligatoria, quelle che non sono più presentate come delle semplici ipotesi, ma come dati inoppugnabili, veri e propri dogmi scientifici. Il credente plasmato dalle idee moderne, pensa di poter riuscire a conciliare queste teorie con la propria fede, vedendo Dio al di là dell’ultima particella, ovvero nel luogo più lontano dove si potrebbe trovare. Quello che ne scaturisce è una serie di confusioni e di errori che trasmesse al mondo esterno non fanno che allontanare ulteriormente dalla fede quelle poche persone che, spinte da un autentico desiderio di conoscenza, vengono ad imbattersi in simili assurdità.

Analizziamo ora un po’ meglio questa teoria delle particelle che sta alla base della cosmologia moderna.
Il punto di partenza di tutti i modelli di questo tipo è l’atomismo. Il presupposto di questa fisica è che tutta la “materia” è formata da atomi (atomo, dal greco ἄτομος – àtomos -, indivisibile), ma già qui iniziamo con la prima contraddizione, poiché questi atomi non sono affatto indivisibili. Essi a loro volta sono formati da “particelle” più piccole, che peraltro possiedono delle caratteristiche ambigue e contraddittorie, e che si muovono nel vuoto)[2]. L’intero universo visibile -assimilato a tutto il reale- è visto come una pura combinazione di queste particelle, che interagiscono tra loro attraverso delle forze. Queste cosiddette forze però non sono più viste come qualcosa di diverso dalla materia, qualcosa di sottile in grado di agire sui corpi: sono esse stesse presentate come delle ulteriori particelle. Si potrebbe obiettare che con la parola “particella” il fisico non intende quello che pensiamo, ossia una piccola parte di qualcosa di materiale. Ma se le parole vengono dissociate dal loro significato, quale potere esplicativo possono ancora avere?

Inoltre questo sarà vero per qualche scienziato -probabilmente nemmeno per tutti-, ma che dire dell’uomo comune che vede uno dei tanti filmati del CERN dove protoni ed antiprotoni sono rappresentati come tante palline rosse e blu che si scontrano tra di loro? Probabilmente egli penserà di poterle anche osservare direttamente con queste caratteristiche, se solo avesse un microscopio abbastanza potente.

Eppure è sufficiente pensare a questo semplice fatto: se elettroni e protoni sono i costituenti di tutti gli atomi di tutti gli elementi della tavola periodica, di quale elemento dovrebbero essere fatti? Di nessuno ovviamente: se sono i mattoncini che servono a costituire la materia, è chiaro che non possono essi stessi essere fatti di materia[3]. E allora perché continuare a chiamarli particelle?
Da questo semplice esempio si vede come queste teorie, oltre a non spiegare nulla che abbia a che vedere con una qualsivoglia realtà, non facciano che aumentare la confusione che pervade la mente dei nostri contemporanei. Sarebbe più onesto per gli scienziati rinunciare ad una spiegazione e concentrarsi unicamente sulle applicazioni tecnologiche. Queste ultime purtroppo, invece, funzionano molto bene, e sono quelle che hanno permesso la costruzione delle armi nucleari, e che potrebbero infine portare ad un disastro irreversibile, magari anche involontario (si pensi agli incidenti già successi in alcune centrali). Come già Guénon aveva notato, i fisici utilizzano delle forze senza conoscerne la reale natura ed i potenziali pericoli. La maggior parte dei contemporanei obietterà che la nostra civiltà, con tutti i vantaggi che presenta legati alla tecnologia, deriva dallo sviluppo e dalla applicazione delle teorie scientifiche, e che questi vantaggi sono irrinunciabili: ma questa rimane un’opinione individuale, seppur condivisa dalla maggioranza. Tutto quello che si è perso a livello intellettuale, mai potrebbe essere ricompensato da questi presunti vantaggi materiali; inoltre esistono persone che rinuncerebbero volentieri a tutte le invenzioni della tecnologia moderna per poter vivere in un modo più tranquillo ed in un mondo meno artificiale e caotico, dove l’agitazione fine a sé stessa e le sue deleterie conseguenze hanno intaccato ogni campo della vita ordinaria.
Tutto ciò non è d’altronde che l’aspetto esteriore del disordine interno dell’uomo moderno, la cui attenzione è tutta rivolta al mondo corporeo ed all’azione che può esercitare in rapporto ad esso. Questo è l’orizzonte intellettuale dei fisici, e chi studia questa disciplina rischia davvero di acquisire quella miopia intellettuale, tipica degli specialisti, che lo porterà a non vedere niente al di fuori del mondo materiale.

L’aspetto che è stato analizzato finora riguarda tuttavia solo un lato della questione, quello direttamente collegato alla chiusura, rispetto alla percezione dell’uomo ordinario, di ogni influenza spirituale e di tutto ciò che si trova “più in alto” rispetto a questo mondo. Come sappiamo il materialismo non è il fine ultimo, ma soltanto una tappa nel processo discendente che porta ad allontanarsi sempre più dal Principio; tappa che ormai è stata largamente superata. Nella fase finale del ciclo le forze che prevalentemente agiscono, sono delle tendenze dissolutrici che non possono che giungere “dal basso”; il loro lavoro è volto alla disgregazione del nostro mondo, secondo quelle leggi cicliche conosciute da tutte le tradizioni; e la dissoluzione che opera a diversi livelli ha ormai intaccato lo stesso concetto di materia.

Con la meccanica quantistica queste particelle costituenti la materia perdono letteralmente consistenza, per cui non si può più parlare di una loro posizione definita, ma soltanto della probabilità che si trovino in una determinata zona; inoltre in determinate situazioni esse presentano un comportamento non più corpuscolare ma ondulatorio.[4] Quindi questa materia che noi percepiamo come solida e tangibile, e che costituisce tutta la realtà che l’uomo dell’età ultima è in grado di concepire, viene ad assumere delle ben strane caratteristiche: formata per la maggior parte di spazio vuoto, ovvero di puro nulla, all’interno del quale si muovono delle entità che non è possibile classificare in modo certo né come particelle né come onde, e delle quali se ne conosciamo la velocità non possiamo determinarne con esattezza la posizione e viceversa. Queste sono le favole che si trasmettono e si divulgano come fossero delle verità, eventualmente solo da perfezionare in quello che non riescono a spiegare, illudendosi che in tutto ciò vi sia della vera conoscenza!
Nei testi destinati al pubblico “profano” non è mai spiegato che questi sono soltanto dei modelli ideati dall’uomo per cercare di spiegare alcune proprietà della natura, e che si utilizzano fin quando qualche esperimento non li contraddice. Ma anche tra coloro i quali questo fatto fosse ben chiaro, mi domando quanto questa consapevolezza riesca ad eliminare dalla propria visione l’immagine di atomi formati da particelle materiali, magari un po’ confuse e nebulosamente disperse come in una nuvola (infatti per visualizzare quest’indeterminazione intrinseca, o meglio per esprimere quello che non si riesce altrimenti a spiegare, si parla spesso della “nuvola degli elettroni”). Ritroviamo quindi, all’interno di queste teorie, accanto agli aspetti materialistici, altri di tipo diverso e più direttamente legati alla fase ulteriore del processo discendente. Non a caso infatti la meccanica quantistica, almeno nella sua parte divulgativa, viene presa come base teorica per le più incredibili divagazioni new-age, pensando in questo modo di dotarle di credibilità scientifica. Un altro esempio è quello preso dalla psicanalisi: qualcuno ha voluto paragonare l’emergere in superficie di elementi del subcosciente con la modifica che subisce la particella nel momento in cui viene osservata. Questa corrispondenza tra meccanica quantistica e psicanalisi, che è stata notata con entusiasmo da qualche professore universitario, è, per chi sa vedere, sufficientemente rappresentativa del ruolo che stanno svolgendo entrambe le discipline in quest’ultima fase.[5]

Ricollegandoci a quest’ultimo punto, il fatto che il comportamento di una particella possa essere modificata dall’osservazione, tralasciando quello che può significare il termine “particella”, ha portato a riconoscere come l’osservatore ed il mondo esterno non siano due realtà separate, in quanto l’atto di osservare interagisce con l’oggetto osservato, modificandolo. Questa verità, sempre che non venga interpretata nel senso di un relativismo assoluto, è una conseguenza del principio dell’unicità dell’esistenza: non vi sono parti distaccate nel mondo, ma “l’esistenza è unica”, poiché riflette l’unità dell’Essere. Può capitare che la scienza moderna arrivi a volte ad incrociare delle verità tradizionali[6]; ma anche in questi casi è il punto di vista che rimane sostanzialmente diverso, poiché essa non parte mai dai princìpi per ricavarne le conseguenze; anzi formalmente nega questi princìpi, vantandosi della propria indipendenza rispetto a tutto ciò che la trascende, e che solo potrebbe invece legittimarla, come conoscenza relativa all’ambito che si propone.

[1] Se l’Universo ha avuto un inizio nel tempo, cosa c’era prima? Se c’era del tempo prima, c’era comunque qualcosa, il tempo stesso: e questo non era Universo? Il tempo è una delle condizioni dell’Universo materiale, quindi è il tempo ad essere contenuto nell’Universo e non il contrario. Per questo è assurdo cercare una data d’inizio. L’inizio non è un inizio nel tempo, ma un inizio nel Principio primo. La stessa considerazione vale per un Universo che si espande nello spazio: questo presuppone l’esistenza di qualcosa dove potersi espandere, e questo qualcosa come può non essere parte dell’Universo? L’Universo comprende lo spazio, che è una della condizioni a cui soggiace lo stato corporeo, e non viceversa.

[2] Come spiega in varie occasioni René Guénon, il vuoto non è una possibilità di manifestazione, e considerarlo tale conduce ad una vera e propria assurdità metafisica; così, a livello spaziale, pensare ad uno “spazio vuoto” significherebbe concepire un contenente senza contenuto, il che è una contraddizione in termini.
“Come esempio di una possibilità di non-manifestazione possiamo citare il vuoto, perché una possibilità del genere è concepibile, perlomeno negativamente, cioè attraverso l’esclusione di certe determinazioni: il vuoto implica l’esclusione non solo di ogni attributo corporeo o materiale, né soltanto, più generalmente, di ogni qualità formale, ma anche di tutto ciò che si ricollega un modo qualsiasi della manifestazione. È dunque un non-senso pretendere che il vuoto possa esistere in ciò che è compreso nella manifestazione universale, in qualunque stato, [come è noto, è quanto sostengono gli atomisti] poiché il vuoto appartiene essenzialmente all’ambito della non-manifestazione; non è possibile dare a tale termine altra accezione intelligibile.”[René Guénon: Gli stati molteplici dell’essere]

[3] Tutti gli elementi della tavola periodica e le loro combinazioni sono formati da molecole, che a loro volta sono formati da atomi. Ma tutti questi atomi, di tutti i materiali diversi, sono formati da queste stesse particelle subatomiche: elettroni, protoni e neutroni. Un atomo di idrogeno è formato da elettroni, protoni e neutroni. Un atomo di ferro è formato da elettroni, protoni e neutroni. Quello che cambia è solo il numero di queste particelle, che determina la posizione dell’elemento nella tavola periodica. Quindi, di che cosa sono fatte queste stesse particelle? Si può parlare di un atomo di ferro, o di un atomo di idrogeno, ma non si può parlare di un elettrone di ferro, o di un elettrone di idrogeno, perché questo stesso elettrone interviene nella composizione di entrambi gli atomi, così come di tutti gli altri; è sempre la stessa particella subatomica: quindi di cosa sarebbe fatto questo elettrone?

[4] La modalità ondulatoria concernente la materia dei fisici moderni e dimostrata attraverso la meccanica quantistica, in realtà era già conosciuta ed indicata nei testi tradizionali, ad esempio in quelli della tradizione induista, come riporta Guénon in Studi sull’induismo trattando della natura dei cinque elementi: “Volendo assolutamente trovare un punto di contatto con le teorie fisiche, nell’accezione attuale del termine, sarebbe senza dubbio più giusto considerare gli elementi, riferendosi alla loro corrispondenza con le qualità sensibili, come rappresentanti differenti modalità vibratorie della materia, modalità sotto le quali essa si rende percepibile successivamente a ciascuno dei nostri sensi[…].” Questo non significa tuttavia che possa esservi un accordo o anche solo un semplice paragone tra la conoscenza tradizionale e le teorie della fisica moderna; anche sotto questo aspetto è bene dunque non farsi prendere dall’entusiasmo nei confronti della scienza profana, il cui punto di vista stesso con la relativa pretesa di studiare il mondo corporeo come qualcosa di a sé stante può essere considerato illegittimo. Dal confronto indicato sopra riguardante la modalità ondulatoria dalle due diverse prospettive, possiamo invece notare tutta la diversità che separa i due tipi di conoscenza: dal punto di vista moderno ci si ferma al mondo materiale, tentando di dare una spiegazione dei fenomeni che, rimanendo all’interno di quest’ultimo, sarà sempre inesatta; dal punto di vista tradizionale, la modalità vibratoria attraverso la quale i nostri sensi percepiscono gli oggetti esterni è la base di tecniche realizzative incentrate sulla corrispondenza tra i vari stati dell’essere, per cui la vibrazione sonora prodotta dalla ripetizione di un mantra, ad esempio, produce delle ripercussioni anche al di fuori dello stato umano, negli stati superiori dell’essere; basta questa semplice applicazione per far capire tutta la differenza di profondità che sussiste tra i due diversi tipi di sapere.

[5] Il ruolo è in entrambi i casi un ruolo dissolutore, per quanto riguarda la materia, cioè il mondo esterno, nel caso della meccanica quantistica; per quanto riguarda l’uomo nel caso della psicanalisi, che portando alla luce degli elementi cosiddetti “inconsci” lo mette a contatto diretto con le potenze inferiori del proprio essere.

[6] Un altro esempio di questo, sempre riguardo alla meccanica quantistica, può essere il fatto che per una conseguenza del principio di indeterminazione di Heisenberg, non esistono oscillatori perfettamente fermi: questo principio prevede che nella condizione di equilibrio, corrispondente alla configurazione di minimo per l’energia, l’oscillatore non sia in quiete ma continui ad oscillare impercettibilmente, in modo che velocità e posizione non sarebbero mai determinate con esattezza. Questo non fa che tradurre, in una situazione particolare, il principio generale del fatto che la quiete non è una possibilità di manifestazione nel mondo corporeo, nel quale ogni cosa è soggetta al movimento, come condizione particolare che collega tra di loro lo spazio ed il tempo nel quale tale forma corporea è soggetta ad esistere.

Shakti. Il mondo come potenza

Anzitutto vediamo quale forma presenta la metafisica tantrica quando essa assume e traduce, facendone il principio per l’interpretazione generale dell’universo, l’idea arcaica della Devi, della Grande Dea concepita come la divinità suprema.

Si potrebbe dire che qui il punto di partenza sia il riconoscimento che della realtà di ogni essere e di ogni forma, il principio e la misura sono una energia, un potere agente che, nell’uno o nell’altro modo, vi si esprime. È stato notato come non casuale che la stessa parola tedesca per «realtà», Wirklichkeit, deriva dal verbo wirken = agire. Non diverso è, dunque, il punto di vista della metafisica in questione, da essa fatto valere su ogni piano. Rispetto al potere, shakti, anche ciò che è «persona» presenterebbe un rango ontologicamente subordinato, perfino se si tratta della persona divina, del Dio teistico, di ishvara. L’idea, che vi sia un principio che «abbia» la potenza distinguendosene, in questa forma estremistica dello shaktismo viene negata: «Se ogni cosa esiste in virtù della shakti, che senso ha cercare un possessore di essa? Voi sentite il bisogno di chiedere in virtù di quale principio (o sostegno, adhara) la shakti esiste. Non pensate che allora siete tenuti a spiegare in virtù di quale principio lo stesso posses­sore della shakti esiste?» [1].

La connessione del tantrismo con la precedente metafisica indù può venire stabilita nei seguenti termini. Anche questa metafisica non si era arrestata al concetto di essere e di persona: l’essere, sat, ha per controparte il non-essere, asat, e l’Assoluto (il Brahman, al neutro, da distinguere da Brahma al maschile) deve essere posto al disopra dell’uno e dell’altro. Così come punto ultimo di riferimento essa non aveva «Dio» nel senso tei­stico, come dio-persona (Ishvara, Brahma e altre analoghe ipostasi); Brahman è qualcosa che lo trascende, come una profondità primordiale e abissale. La Shakti tantrica, la Devi, viene evidentemente identificata con esso, con il che cade però ogni sua specifica determinazione «femminile» (quell’apice sta di là dalla stessa differenziazione del maschile e del femminile) [2] ed anche di ciò che, nelle civiltà arcaiche, poté aver suggerito l’idea del primato del femminile, ossia la sua capacità di generare, il grembo generatore, trasposto su un piano cosmico: perché il generare, come il creare in genere, è solamente una funzione parziale subordinata ­nell’induismo, esso è la prerogativa di Brahma, non del trascendente Brahman.

Alla Shakti vengono dunque dati gli stessi attributi di questo Brahman: non ha nulla fuori di sé, è «sola e senza un secondo» (advaya). In lei, gli esseri tutti hanno la loro condizione, la loro vita, la loro fine. Si afferma: «In ogni potere sei il potere in quanto tale — sarva shaktih svarupini» [3]. «La Shakti è la radice di ogni esistenza; da lei i mondi si sono manifestati, da lei sono sostenuti e in lei, alla fine, verranno riassorbi­ti… Essa è lo stesso supremo Brahman (Parabrahman)… Sta alla base di tutti gli altri dèi. Senza la Shakti essi non potrebbero conservare la loro esi­stenza personale»[4]. Viene chiamata parapara, «supremo del Supremo»[5], ossia quel che fa supremo il Supremo (s’intende il Brahman della metafisica induista e brahmana). È «l’eterna energia di colui da cui l’uni­verso è sostenuto (vaishnavishakti», e, con riferimento alla triade divina induista, o Trimurti: «È soltanto in virtù del tuo potere che Brahma crea, che Vishnu conserva e che, alla fine dei tempi, Shiva dissolve l’universo. Senza di te [ossia senza la Shakti] essi sono incapaci di ciò; quindi sei pro­priamente tu la creatrice, la reggitrice e la distruggitrice del mondo»[6] «Sostegno di tutto, tu stessa non hai alcun sostegno». È colei che, sola, è «pura» e «nuda»[7], cioè unicamente se stessa: «Pur avendo forme, tu sei sempre senza forma»[8].

Concepita in questa estensione e primordialità, escludente qualsiasi essere o principio che le sia superiore, la Shakti ha il nome di Parashakti. Divenuta «colei che esiste in ogni cosa sotto le specie di potenza (shaktiru­pa), questa è la forma quasi irriconoscibile che, al contatto con la metafisi­ca propriamente aria upanishadica, assume nei Tantra la concezione arcai­ca pre-aria della Shakti quale Magna Mater demetrica, quale Madre degli dèi, quale divinità femminile signora e produttrice di ogni vita e di ogni esistenza.

Dai testi si può raccogliere un punto ulteriore che ha una particolare importanza. Considerando il Principio dell’universo soltanto come una energia primordiale, si potrebbe pensare che la sua manifestazione sia un movimento cieco e interiormente necessitato, più o meno come la «Vita» di certe filosofie irrazionalistiche occidentali o come nel panteismo di uno. Spinoza, secondo il quale il mondo procederebbe eternamente e quasi automaticamente dalla sostanza della divinità con la stessa necessità per cui le proprietà di un triangolo derivano dalla sua definizione. Invece, nel tantrismo la manifestazione della Shakti viene considerata libera, la Shakti non conosce leggi di sorta, né esterne né interne, così nulla la costringe a manifestarsi: «Tu sei la potenza: chi potrebbe esservi ad ordinarti di fare o non fare cosa alcuna?» [9]. E poiché sul piano umano il prototipo dell’azione libera per eccellenza è il giuoco, Ma, dai Tantra viene detto che la manifestazione è giuoco, che di giuoco la Shakti è sostanziata (lilamayishakti), che il suo nome è «colei che giuoca», lalita [10], dunque che in tutte le forme dell’esistenza manifestata e condizionata, umane, subumane e divine, si esprime unicamente il giuoco solitario della suprema Shakti, di Parashakti [11]. Qui il simbolismo tantrico è confluito con quello shivaita, perché esso si è appropriato anche del motivo della divinità che danza: danza, quindi qualcosa di libero, di sciolto, è il dispiegamento della mani­festazione. Non più Shiva, ma la dea, la Shakti aureolata di fiamme, è la divinità che danza quando la Shakti viene intesa nel suo aspetto propriamente produttivo.

Era però naturale che procedendo in quest’ordine di idee le posizioni dello shaktismo estremista, riflettente l’arcaica sovranità e priorità della Dea, dovessero venire ulteriormente articolate, il che avvenne con l’assi­milazione della metafisica del Samkhya e poi col ridimensionamento della dottrina della maya nel periodo in cui essa era stata già formulata da Shankara.

Il Samkhya è un darshana [12] a fondo dualistico. Come principio esplicativo esso pone una dualità originaria, quella di purusha e di prakrti, corrispondenti al maschile e al femminile, al principio spirituale e alla natu­ra, conscio l’uno, inconscio l’altro, immutabile l’uno, principio di ogni movimento o divenire l’altro. Il Samkhya si è preoccupato di escludere rigorosamente dal primo, da purusha, tutto ciò che non ha la qualità di un essere puro, impassibile, non trasportato dall’azione. La creazione viene fatta derivare da una connessione dei due principi di un genere tutto spe­ciale, ossia da un’azione del purusha paragonabile a quella che in chimica si chiama catalitica, determinata dalla semplice presenza (sannidhimatrena upakarin). L’analogia più prossima è quella offerta dalla dottrina aristoteli­ca che spiega il mondo e il suo divenire col moto e il desiderio destato nella materia ( ule = prakrti) dalla presenza del voi); quale «motore immobile». In sé, prakrti viene concepita in uno stato di equilibrio di tre potenze (i guna, sui quali torneremo più oltre). Il «riflesso» di purusha su prakrti rompe questo equilibrio, quasi con un’azione fecondatrice provoca il moto e lo sviluppo di prakrti in un mondo di forme e di fenomeni, che è il samsara. Dal Samkhya viene però considerata anche una situazione di caduta, che corrisponde all’avidya, concetto fondamentale della metafisica indù ed anche del buddhismo: il purusha si identifica col riflesso di sé in prakrti, col cosiddetto «Io fatto degli elementi» (bhutatma); dimentica di essere I’ «altro», l’essere impassibile sostanziato di pura luce, lo «spettato­re». «Travolto e contaminato dalla corrente dei guna egli disconosce il sacro, augusto creatore che è in lui» e «soggiace alla mania del “mio” (abhimano ahamkarah)»; nel pensare «Io sono questo, questo è mio», egli «vincola sé da se stesso (badhmati atamana atmananarn) come un uccello in una rete», anche se nella sua essenza resta così poco tocco da tutto ciò quanto una goccia d’acqua aderisce alla superficie liscia di una foglia di loto [13]. Ciò riguarda essenzialmente la condizione dell’essere vivente, dello jiva. Dal Sàmkhya ha tratto le sue premesse lo Yoga classico, il quale ha indicato la via che, per mezzo del distacco della coscienza o dell’Io (atma = purusha), per neutralizzazione delle modificazioni (vrtti) che essa ritiene sue proprie mentre derivano dall’altro principio, da prakrti, conduce alla reintegrazione dello stato puramente purushico, potremmo quasi dire «olimpico», e quindi a mukti, alla liberazione.

Ma per ora non ci interessano le visuali d’ordine pratico, bensì quelle cosmologiche: il Sàmkhya offre una spiegazione del mondo in quanto que­sto non è né puro spirito, né pura natura, né immutabile né soltanto un divenire introducendo appunto la diade purusha prakrti, due principi che si trovano variamente congiunti dopo che l’equilibrio dei guna è rotto e prakrti, fecondata dal riflesso di Purusha, «diviene», si sviluppa nel mondo manifestato dei «nomi» e delle «forme» (per usare questa designazione classica indù dell’universo differenziato).

Ebbene, la sintesi tantrica riprende questo schema, però ridimensio­nandolo, nel senso che a differenza del Samkhya, Purusha e Prakrti non vengono più concepiti come una eterna dualità primigenia. L’uno e l’altra vengono invece presentati come due differenziazioni o forme della Shakti, all’uno si fa corrispondere Shiva (la divinità trasformata in un principio metafisico), all’altra Shakti in un senso limitato, come controparte di Shiva, come la femmina o shakti del dio, come la sua «sposa» che è anche il suo potere (il termine shakti tradizionalmente ha avuto appunto il duplice senso di potere e di sposa) però mantenendo per entrambi gli attributi con­siderati dal Samkhya: a Shiva è proprio l’essere, l’immutabilità, la natura dell’Atma o principio cosciente; a Shakti è proprio invece il movimento, il mutamento, essa è l’origine di ogni produzione, generazione e vivificazio­ne. L’idea di una fecondazione, che non appare esplicitamente nel Samkhya perché, come si è visto, esso si è limitato a parlare di un «rifles­so» e di un’azione per pura presenza, qui è senz’altro ammessa: dal con­giungimento di Shiva con Shakti procede l’universo nei suoi aspetti sia sta­tici e stabili, sia dinamici, sia nelle sue forme immateriali e coscienti, sia In quelle materiali e inconsce in esso riscontrabili. Come è evidente, con l’introduzione dell’elemento purushico o shivaico è rimossa l’idea, che lo shaktismo estremista avrebbe potuto far sorgere della manifestazione: quasi come il prorompere selvaggio di una energia elementare indifferen­ziata. L’iconografia tantrica induista mette in risalto in vario modo le carat­teristiche antitetiche dei due principi’. Da una parte, si può indicare l’icono­grafia della danza della Shakti fatta di fiamma sul corpo immobile disteso di Shiva, corpo assai più grande di quello di lei: l’immobilità qui sta a significare l’immutabilità del principio maschile, e secondo le convenzioni dell’arte religiosa indù la sua più grande statura ne vuole esprimere il supe­riore rango ontologico rispetto alla Shakti in movimento. In secondo luogo, ricorderemo il simbolismo di Shiva e di Shakti (o di altre divinità induiste o tibetane ad essi omologabili) in viparita maithuna, ossia in una unione sessuale caratterizzata dal fatto che il maschio sta seduto immobile, ed è la donna che, avvinghiata, compie i movimenti dell’atto dell’amore. Si può notare, a tale riguardo, l’inversione delle concezioni «attivistiche» dell’Occidente moderno: il vero principio maschile è caratterizzato dall’«essere», esso non agisce nel senso che è sovrano, che si limita a suscitare l’azione senza esserne preso; tutto ciò che è azione, dinamismo, sviluppo, divenire sta invece sotto segno femminile, cade nel dominio di prakrti, della natura, non in quello dello spirito, dell’atma o del Purusha, non ha in sé il proprio principio. Immobilità attiva e attività passiva. L’Occidente attivistico ha dimenticato tutto ciò, per cui quasi non conosce nemmeno il senso della vera virilità.

Nel periodo in cui il tantrismo sviluppò la dottrina della diade metafi­sica, il Vedanta era stato formulato in termini estremistici da Shankara. A questa dottrina abbiamo già accennato, nel considerare una critica rivolta ad essa dal tantrismo. Svolgendo le idee delle Upanishad, Shankara tiene fermo nel modo più intransigente al principio che reale non può dirsi quel che cangia ed è differenziato (kalatraya-sattva). Dato però che l’esperienza nostra del mondo non è quella del Nirguna-Brahman (corrispondente ad un Purusha assolutamente puro, distaccato e solitario), siccome esiste un mondo qualificato, condizionato e mutevole, Shankara, come si è visto, è costretto a considerare come illusione e falsità tale mondo. Tuttavia con ciò il problema è soltanto spostato, vi è da spiegare donde provenga questa apparenza o finzione, come essa, in genere, sia possibile. Shankara intro­duce allora il concetto di maya facendone la causa dell’oscuramento del solitario Nirguna-Brahman, dell’apparire di esso come Saguna-Brahman, ossia come il Brahman che si manifesta e dispiega in un mondo di forme e di esseri condizionati, col dio teistico persona (Ishvara) al vertice. Maya viene concepita come qualcosa di insondabile, di inafferrabile; è impensa­bile, indefinibile (anirvacya). Non si può dire che è (perché non è l’essere puro), né che non è (perché agisce e s’impone di fatto nell’esperienza comune), né che è e non è ad un tempo — affermano i vedantini. Essa resta dunque un mistero, qualcosa di assolutamente irrazionale. Naturalmente, per Shankara non esiste nessun nesso fra Brahman e maya.

Tutto ciò indica la difficolta fondamentale che incontra il monismo assolutistico vedantino, più che risolverla. Né la si risolve uscendo dall’ontologia e rifacendosi ad una dottrina dei punti di vista. In Grecia, già Parmenide, fiso nell’Essere puro, aveva formulato una teoria della dop­pia verità: alla verità propria al pensiero rigoroso, secondo la quale «solo l’essere è», egli aveva contrapposto la verità propria all’«opinare», doxa, che può rendere conto del divenire e della natura pur negando loro, «secondo giustizia», l’essere. Del pari Shankara oppone un punto di vista profano e empirico (vyavaharthika) al punto di vista assoluto (paramarthika). Dal secondo punto di vista maya non esiste, per cui conseguire la conoscenza illuminante, alla quale si lega cotesto punto di vista, signifi­ca vederla sparire come una nebbia o un miraggio, epperò far venir meno lo stesso problema di spiegarla. Maya non è che un prodotto dell’«ignoran­za», avidya, è quasi la sua proiezione sull’essere eterno e immutabile.

Ma, di nuovo, anche così la difficoltà sussiste perché è da chiedere come, in genere, l’ignoranza e il punto di vista non assoluto possano mai sorgere. Si potrebbe ancora trovare una soluzione se si fosse nell’ambito della teologia creazionistica di religioni come il cristianesimo e l’islami­smo: poiché esse postulano l’esistenza di un essere, la creatura, in un certo modo staccato da Dio, dal Principio, non identico con lui, distinto da lui (= creatio per iatum: come ciò sia concepibile, è naturalmente un enigma, ma questo è un altro problema), si potrebbe riferire appunto all’essere finito creato il punto di vista «non assoluto» facendo sorgere il miraggio della maya. Purtroppo nel monismo vedantino non vi è posto per una idea del genere. Il suo assioma è «Egli [il Brahman] è senza un secondo», ossia egli non ha nulla al di fuori di sé, quindi nemmeno un essere creato soggiacente all’ignoranza epperò sperimentante il mondo secondo l’illusione della maya. A tener fermo il non-dualismo, l’advaita, vedantino, si sarebbe dun­que costretti ad ammettere che nello stesso Brahman (altro non essendovi che lui) può misteriosamente nascere la maya nella sua irrazionalità e nel suo carattere di eterno miraggio, dunque che sia lo stesso Brahman a subi­re, in un qualche modo, l’«ignoranza». È l’unica via d’uscita; ma prenden­dola il monismo vedantino estremista ne risulta evidentemente incrinato.

Ecco alcune battute della polemica tantrica. Sotto un certo aspetto, il mondo non può dirsi «reale» in senso assoluto, ma maya, intesa come la sua radice, non può dirsi irreale. Il sogno lo si può dire falso, ma non il potere che lo genera e se maya è irreale, da dove viene il samsara, ossia il mondo finito e mutevole? Non basta: «Se maya è irreale, il samsara divie­ne reale», nel senso che si può affermare l’irrealtà, la contingenza del mondo fenomenico e del divenire — del samsara — solamente se si può mostrare che esso non esiste in sé e per sé, che esso deriva da una funzione o potenza sovraordinata che come lo ha fatto apparire, così può anche farlo svanire. Se invece non si ammette questo principio, non vi è modo di con­siderare contingente e irreale il samsara; in tal caso, esso dovrà venire considerato come una realtà a sé, eterna e autonoma, da cui il supremo Principio è limitato o alterato. Pei Tantra, la vera soluzione del problema è questa: riferire maya ad un potere, ad una shakti; alla misteriosa maya vedantina essi sostituiscono maya-shakti, come una manifestazione della Shakti suprema, di Parashakti. Ed essi si rifanno anche al significato di magia che può avere il termine maya (maya-yoga vuol dire, ad esempio, uno yoga a finalità magiche), naturalmente intendendo per magia non l’arte di creare illusioni — come quella degli illusionisti e dei prestigiatori ­bensì un’arte creatrice che produce effetti reali. Riportando maya a maya-shakti, non vi è più bisogno di negar nulla e di chiamare nulla illusione [14]. Nella sua liberta, nel suo essere «colei che giuoca», la Shakti fa appa­rire il mondo del samsara, manifestandosi in esso. L’utilità del Principio è salvata.

Così si può affermare, con ragione, che «il concetto di potenza, per chi si applica al sadhana, è una guida assai più sicura che non la nebulosa idea di spirito (atma). È assai difficile per coloro che non credono nella Shakti intendere l'”uno, senza un secondo” dell’insegnamento tradizionale (shrutt) nel dominio fisico e, ad un tempo, in quello spirituale, non essen­dovi [allora] una connessione valida fra questi due ordini. Ma uno shakta [un seguace dello shaktismo] non ha da combattere con questa difficoltà. Su ogni piano dell’esistenza egli ritrova l’unico potere onnipervadente. Onde è detto nei l’altra: “O Devi’, la liberazione senza la conoscenza della Shakti è una mera burla!”. E ancora: La questione non è di affermare o di non affermare che questo o quello sia “irreale” bensì: fino a che punto siete capaci di fare “irreale” (cioè non esistente in se stesso, il che implica il potere su) anche un solo filo d’erba?»[15]. Ciò che esiste non cessa di esi­stere per il semplice fatto che si desideri o si pensi altrimenti: la potenza dell’azione si incaricherà lei a svegliare da una tale fantasticheria. «Finché il Brahman non verrà percepito in ogni cosa, finché il vincolo della legge di natura non sia distrutto e l’idea della differenza fra Io e altro non sia scomparsa di fatto, l’essere particolare vivente (jiva) non può non credere nell’universo dualistico e chiamarlo falsità, sogno, fantasia e simili. L’effi­cienza di karma, il potere dell’azione, mi costringerà, che io lo voglia o no, a credere in esso» [16].

Così, poco curandosi di come può apparire il mondo dal punto di vista di Dio (per esprimersi all’occidentale), il tantrismo speculativo ha formula­to una metafisica più adatta per un sadhaka, ossia per colui che s’impegna praticamente sulla via della realizzazione. In questa metafisica è, pertanto, superato sia il dualismo del Samkhya (purusha e prakrti), sia quello che il Vedanta ha cercato invano di rimuovere (Brahman e maya). Prende il suo posto la diade propria ad ogni libera manifestazione. Viene considerata, per così dire, una «trascendenza immanente», corrispondente a Shiva, ossia alla forma Shiva del Principio; è ad esso che, in ultima analisi, tutte le potenze della realtà sono sospese, ed è in esso che trovano il loro centro o sostegno. Così Shiva viene chiamato «colui che è nudo» (digambaram, ossia libero da determinazioni) e, nello stesso tempo, «colui il cui corpo è l’intero universo». Con un simbolismo che vedremo non esser privo di relazione anche con l’etica tantrica, egli viene presentato come colui che, benché immerso nel vortice delle passioni, è signore di esse, come colui che, maestro d’amore, è, lui stesso, privo di concupiscenza: sempre unito a forme, energie e poteri (a shakti), è tuttavia eternamente libero, invulnera­bile, sciolto da ogni attributo [17]. Tutto ciò che nel giuoco cosmico della suprema Shakti è differenza, non investe l’immanente unità del suo aspetto Shiva [18]. Anche quel che è finito e inconscio, deriva dal conscio, è il prodotto di maya-shakti che, in sé, non è inconscia [19]. Ci sembra impor­tante l’idea, che il finito non costituisce più un problema quando lo si riporta ad un potere che lo pone come tale.

* * *

L’insieme può venire ulteriormente chiarito se si considera il significato che ha, nel suo complesso, la manifestazione della Shakti e i «momenti» in cui essa si articola.

Mentre una potenza particolare può avere questo o quest’altro oggetto, la suprema Shakti può manifestare soltanto se stessa, fuori di sé, per defi­nizione, non esistendo nulla: in un Tantra è detto: «La terra della tua nasci­ta sei tu stessa: in e per te stessa ti sei manifestata».

Ciò non impedisce che la manifestazione implichi un «procedere» (prasarati), un moto esteriorizzante, un «uscire» — dallo stato di identità statica — e un proiettarsi. Ciò corrisponde al moto primo suscitato nella sostanza femminile dall’atto fecondante dell’immobile Shiva o Purusha, ana­logo a quello che nella metafisica aristotelica destano le potenze Informi della «natura». I testi parlano, a tal riguardo, di un «guardar fuori» (bahir­mukhi) e considerano qualcosa, come un prorompere e proiettarsi della Shakti sotto le specie di kamarupini shakti, di un desiderio o brama ele­mentare, di un eros cosmogonico vòlto a crearsi un oggetto in cui fruirsi. Questa è anche maya-shakti, il potere magico del dio, che finirà col far apparire le forme e gli oggetti così come se esistessero in sé, per confon­dersi con essi nel fruimento. È la fase chiamata pravrtti-marga, ossia la via delle determinazioni, delle forme finite (vrtti) che la Shakti genera e fa pro­prie. È la fase «discendente» nel segno del predominio della Shakti la quale sembra travolgere l’altro principio. Pertanto, dai Tantra viene detto che la funzione della Shakti è la negazione: nishedha vyapararupa shaktih [20]. Infatti, le forme manifestate non possono essere che forme o possibi­lità parziali, rispetto all’intero immanifestato che riposa in se stesso. Viene anche detto che maya-shakti è «il potere che misura» (miyate amena iti maya), ossia che crea determinazioni o delimitazioni corrispondenti ai vari esseri particolari e alle varie forme di esistenza. L’ignoranza, avidya, ineri­sce al potere in quanto «guarda fuori», verso l’esterno, verso qualcosa d’altro [21], come è il proprio del movimento bramoso e dell’immedesima­zione bramosa — in genere del processo di oggettivazione.

Questo processo incontra però un limite, all’arco discendente segue l’arco ascendente perché il senso della manifestazione è quello di un auto-manifestarsi; in tutto ciò che si è differenziato, oggettivato e «alterizzato» ad opera di maya-shakti la potenza dovrà riconoscere se stessa, il processo dovrà consumarsi in un possesso, l’elemento shivaico dovra riprendere il sopravvento su quello puramente shaktico e riportarlo a sé in tutte le sue produzioni. Al moto centrifugo subentra un moto centripeto, al «guardar fuori, al vincolarsi bramoso agli oggetti fatti sorgere dalla magia di maya­shakti segue l’interno distacco da essi (nivrtti-marga, opposto a pravrtti­marga). Se nella prima fase la shakti aveva preso il predominio su Shiva, e l’aveva quasi trasformato nella sua natura, ora dovrà realizzarsi l’opposto, è Shiva che andrà a prendere il sopravvento sulla shakti e a trasformarla nella sua natura fino ad una assoluta trasparente unità. Dai Tantra induisti della scuola del Nord ciò è stato espresso con le parole: «Come attraverso un puro specchio, attraverso la Shakti Shiva realizza l’esperienza di se stesso (shivarupa vimarsha nirmaladarshah)» [22]. Viene quasi di pensare allo schema hegeliano dello Spirito assoluto che prima è «in sé», poi divie­ne oggetto a sé e infine nell’oggettivo riconosce sé stesso ed è «in sé e per sé», o ad analoghi schemi della speculazione idealistica occidentale, quan­do nel commento a questo testo si parla propriamente dell’astratto dell’esser «io», della «iità» in un senso trascendente — aham ityr evamrupam jnanam come dell’essenza della suprema esperienza mediata dalla Shakti. La stessa idea viene espressa per mezzo di analisi convenzio­nali della parola che in sanscrito vuol dire «Io» = aham. A, intesa come la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, è Shakti, Ha intesa come l’ultima let­tera dello stesso alfabeto è Shiva. La formula della manifestazione non è A né Ha bensì A+Ha = aham, ossia «Io» nel senso indicato di autoidentità attiva mediata dalla Shakti come da uno specchio: l’«iità» (ahamatmika) è dunque la parola suprema che comprende tutta la manifestazione, tutto l’universo il quale nella dottrina dei nomi di potenza, nel mantrashastra (cfr. cap. 8), è simboleggiato dalle lettere comprese fra A e Ha[23]. Analogamente, nel tantrismo tibetano le varie potenze della manifestazione vengono riferite alle varie parti della sillaba sacra Hum che in tibetano significa parimenti «Io». Questo è il senso del gesto cosmico del supremo potere, di Parashakti, entro il quale si dispiega un mondo di forme e di esse­ri finiti, in un moto in cui «la dualità si converte in unità e questa di nuovo si dispiega nel giuoco dualistico» [24], in cui «Brahman, che è perfetta coscienza [qui, si tratta del Brahman attivo tantrico], genera il mondo come maya composta dai guna e lui stesso assume la parte di un essere particolare vivente (jiva) per la realizzazione del suo giuoco cosmico» [25]. Lo stesso principio che nel «guardar dentro» realizza la suprema esperienza, nel «guardar fuori» ha l’esperienza del mondo come samsara [26].

Circa le «epoche» della manifestazione, viene stabilita una relazione fra esse e la già accennata teoria delle due vie, della Mano Destra e della Mano Sinistra, anche nella forma seguente. L’aspetto creativo e produttivo del processo cosmico viene riferito alla Mano Destra e al color bianco, e alle due dee Umà e Gauri (nelle quali la Shakti si presenta come prakashatmika = «colei che è la luce e manifestazione»); il secondo aspetto, quello della conversione, del ritorno, viene invece riferito alla Mano Sinistra e al color nero, e alle dee nere «distruttive» Durga e Kali. Così, nel Mahakala-tantra viene detto che fino a quando il lato sinistro e il lato destro sono in equilibrio vi è samsara, ma quando la sinistra prende il sopravvento sulla destra si ha la liberazione.

Da qui, una ulteriore interpretazione di Kali prendente le mosse dall’iconografia popolare di questa dea, che la raffigura nera, nuda, adorna soltanto di una collana costituita da cinquanta teste recise. La dea, a tale stregua, è la shakti di Shiva, cioè il suo potere come trascendenza attiva; il color nero sta appunto ad esprimere la trascendenza rispetto a tutto ciò che è manifestato e visibile. Secondo una etimologia convenuta, essa si chiama Kali perché divora il tempo, ossia il divenire, l’ «andare», che è legge dell’esistenza samsarica [27]. La sua nudità simboleggia il suo esser sciolta da ogni forma; le cinquanta teste recise di cui si adorna (nella mitologia popolare, sono le teste di dèmoni da lei sterminati in un noto episodio) vengono fatte corrispondere alle cinquanta lettere dell’alfabeto sanscrito che, come si è accennato, a loro volta simboleggiano le varie potenze cosmiche presiedenti alla manifestazione (matrka — equivalenze dei logoi spermatikoi della speculazione greca): le teste recise alludono pertanto a queste potenze in quanto rimosse dalla loro natura elementare, propria alla fase discendente. Così se la funzione della potenza quale maya-shakti è, come è detto nei Tantra, una negazione, Kali secondo l’aspetto ora indica­to, come Mahakali, si potrebbe ben definire come una «negazione della negazione». Qui prende dunque già risalto quell’idea di un possibile orien­tamento autodistruttivo o di autotrascendenza della potenza che nel tantri­smo ha una parte fondamentale, specie sul piano delle pratiche e dei riti della Via della Mano Sinistra.

Un punto assai importante va sottolineato. Il «distruggere» o «trascen­dere» va concepito essenzialmente nei termini di un portarsi di là dalle forme manifestate e vincolate, di una rescissione dei legami delle immede­simazioni estroverse, sia nell’ordine umano che in quello cosmico: la distruzione riguarda propriamente solo l’aspetto «desiderio» e di autofasci­nazione vincolante. Che, poi, praticamente sul piano individuale o cultura­le ciò possa eventualmente richiedere processi di rottura e di distruzione, è secondario. Quanto alle distruzioni che rientrano nei processi del mondo manifestato e della natura, esse non vanno confuse con gli attributi ora accennati di Kali, attributi aventi un significato trascendentale, e, in ultima analisi, anche quello di un riprendere e riportare in alto, ossia di un tra­scendere nel senso letterale etimologico latino. Per questo, in un inno tan­trico Kali viene presentata come l’aspetto della Shakti secondo il quale essa riprende ciò che ha proceduto [28] e il termine usato per la sua azione è vishvasamghera; in essa dunque si manifesta essenzialmente la shakti ­il potere — di Shiva.

La cosmologia tradizionale indù conosce la teoria della promanazione e del riassorbimento (pralaya) dei mondi, secondo cicli. Tale teoria non va confusa con quella ora esposta. Anche parlare di due «epoche», momenti o fasi è improprio, se questi termini vengono presi in un senso comunque temporale, come stati che si succedono. Nella seconda epoca non è che venga eliminato o dissolto un qualunque ordine della realtà; come si è detto or ora, si tratta solamente di un cambiamento di polarità e di una esperienza dell’essere in quanto (come è detto nel Tantra della Grande Liberazione) [29] è «senza forma pur possedendo ogni forma» — in quanto «appare, ad un tempo, con forme e senza forme (ruparupaprakasha)», come è parimenti detto nel Tantrasara. Nel segno della Shakti riportata al suo principio e nella realizzazione di questo principio «il mondo, il samsa­ra, resta, e diviene il luogo stesso della liberazione», secondo la formula del Kularnavatantra (moksha yate samsarah). A tale stregua, il tantrismo si incontra con quella forma del buddhismo mahayanico, la suprema, para­dossale verità del quale è l’identità e coestensività del nirvana col samsara, colta, secondo lo Zen, nell’esperienza del cosiddetto satori.

Aggiungiamo due riferimenti tratti dalla tradizione upanishadica, che forse potranno integrare quanto abbiamo esposto.

Come punto di riferimento qui vale l’arma, l’Io spirituale. Vengono considerate quattro sue possibili sedi o stati, riguardo alla manifestazione. Nel primo, che è quello della coscienza normale di veglia, vaishvanara, il mondo si presenta sotto le specie di una esteriorità. Nel secondo, esso viene percepito sotto le specie di shakti produttive — tajasa , questa espe­rienza rendendosi possibile però solo se l’Io riesce a spostarsi, mantenen­dosi cosciente, passando anzi ad una supercoscienza, nello spazio che nell’uomo comune corrisponde a quello riempito dalla caotica vita dei sogni. Nel terzo stato, prajna, il mondo di queste energie si rivela «come uno», ossia viene percepito in funzione della sua unità, quella che sul piano religioso viene raffigurata da Ishvara. Tale stato viene raggiunto quando l’Io si sposta in quell’ultima profondità che nell’uomo comune corrisponde al sonno vuoto senza sogni. La legge di causa ed effetto esiste solamente nei due primi ordini; nel terzo esistono soltanto i principi’ nella forma di pure cause. Viene infine considerato un quarto stato, turiya, chia­mato così impropriamente perché viene dopo gli altri tre soltanto dal punto di vista del sadhana e dello yoga; in sé, ontologicamente, esso riprende e trascende gli altri. Si è al livello della «iità» in cui, secondo il testo già citato, si consuma tutta la manifestazione. Dell’Atma nello stato turiya viene detto, nelle Upanishad, che esso «distrugge l’intero mondo manife­stato», «divorando» «lo stesso Ishvara come essere a sé», che esso sta «di là sia dal “guardar fuori” che dal “guardar dentro”», ossia dalle due «epo­che» di cui si è parlato [30].

Il secondo riferimento lo trarremo dalla Nrsintauttaratapanîyaupanishad. Atma, l’«unico» — vien detto — esiste nel primo stato come «contenu­to», ad, cioè immerso nella materia della sua esperienza e come materia di tale esperienza, il che, tantricamente, corrisponde alla forma-limite della funzione di mayashakti. Nel secondo stato esso esiste come anujatri, ossia come «colui che afferma» — non semplicemente desidera, ma afferma: «Affermatore di questo mondo è l’atma, perché ad esso dà il suo Io — affer­ma il suo Io [come Io del mondo], il mondo in sé essendo senza Io». Altra formulazione, per questo stato: egli «dice sì (om) al mondo intero», con il che «dà a tutto questo mondo senza sostanza una sostanza». La realtà esterna viene dunque ricondotta ad una proiezione o estroiezione della realtà del principio spirituale quale «affermatore», come colui che dice «sì» al mondo. Nel grado ulteriore, il terzo, l’esperienza è semplicemente anujna, ossia affermazione pura senza più soggetto, senza la personalità dell’affermatore; poi la stessa forza viene superata e subentra lo stato supremo, che ha solamente se stesso per riferimento e viene chiamato non-differenza = avikalpa. Qui 1′ atma «conosce e non conosce» (ossia non conosce secondo il conoscere che comporta una oggettivazione, un «altro», la conoscenza è qualcosa di «semplice», anubhuthi). Egli «è diverso dal divenire eppure non diverso dal divenire», è se stesso «in tutte le forme dell’essere da cui sembra essere diverso», donde questa veduta, identica alla «perfezione della conoscenza», alla prajnaparamita del buddhismo mahyanico: «Secondo verità, non vi è svanire e non vi è divenire, non vi è chi vincoli e non vi è chi agisca, non vi è chi abbisogni della liberazione e non vi è chi è liberato»[31].

A parte queste altezze metafisiche, riferendosi al mondo, il limite del processo discendente o estroverso è rappresentato dalla oggettività mate­riale dello stesso mondo, dalla «materia» fisica. In esso si condensa la forma estrema del «pensare l’altro». Sia la Chandogya-upanishad che il Gandharvatantra parlano del potere, che si potrebbe dire autoipnotico e magico ad un tempo, per cui il pensiero di una cosa la genera e esso si tra­sforma in essa. La coscienza che pensa «altro», una realtà distinta da essa, secondo la legge della brama, genera altro ed è altro; al limite della imme­desimazione totale si ha la materia come esperienza e come simbolo. Soltanto l’«ignoranza» derivante dal desiderio e dall’immedesimazione (da mayashakti in quanto kamarapinî) in atto nella fase estrovertita fa appari­re la «natura» nella sua apparente fattualità. In Occidente Meister Eckhart ebbe a scrivere che anche una pietra è Dio, solo che essa non sa di esserlo, e che è appunto questo suo non saper di essere Dio (o questo non saper di sé di Dio = avidya) a determinarla come una pietra [32]. Il concetto è lo stesso, per la fase della manifestazione nella quale la Shakti ha il soprav­vento: la realtà e la natura, non come realtà a sé, bensì come una precipita­zione magica cosmica di una idea, di uno stato. Esse non verrebbero perce­pite come tali dall’uomo se in lui non agisse la funzione corrispondente, a cui debbono tutto il loro essere, ossia mayashakti.

Di la dal limite della natura, sempre come oggettivazioni e simboli cosmici, i gradi del processo ascendente — gradi di risveglio e di «sapere», vidya (l’opposto di avidya) si riflettono nella gerarchia degli esseri che innalzandosi di là dall’oscura passione della materia e dal demonismo della natura inferiore, preumana, si destano in forme sempre più animate da una vita cosciente e libera; il limite corrispondente essendo lo stato in cui lo spirito è per se stesso non più nella forma di un oggetto o «altro» (ossia sotto le specie dell’ alterità), ma quale è in se stesso (atmasvarupi) e in cui la Shakti anziché essere principio vincolatore e magia di maya si manifesta come colei grazie alla quale anche tutto ciò che sembra imper­fetto e finito si palesa perfetto e assoluto [33], epperò come Tara, «colei che libera».

Dal punto di vista immanente, il fatto di trovarsi a sperimentare come natura e materia ciò che metafisicamente corrisponde ad una serie di stadi dell’unica realtà spirituale, deriva dal grado di avidya inerente alla propria esperienza che la definisce come esperienza di un particolare individuo. È l’azione di mayashakti in lui. Ma in ognuno risiede parimenti, in via di principio, il soggetto o signore di questa funzione, Shiva; egli è la stessa suprema potenza che si sperimenta in un determinato aspetto del suo giuo­co cosmico, ed è quale vuole essere [34]. Si è passivi di fronte a maya­shakti, si è incapaci di assumerla e riportarla al suo principio: solo per que­sto, in ogni forma e in qualsiasi punto non si ritrova, intatta e libera, la Shakti originaria, e il mondo non viene vissuto, secondo la formula già citata del Kularnavatantra e secondo la veduta di vetta del Mahayana, come liberazione.

Specificando, in ogni forma o essere dell’universo devesi riconoscere un particolare incontro, un particolare nodo dinamico di mayashakti e di shivashakti. La sintesi suprema è paragonabile ad una fiamma che ha con­sumato tutta la sua materia e ora è soltanto sé stessa, come pura energia o atto puro. Rispetto ad essa, ogni esistenza particolare è caratterizzata da una inadeguazione dei due principi’, da un differenziale di potenzialità. Materialità, incoscienza, condizionatezza, maya in senso vedantino corrispondono, nella metafisica tantrica, a questo differenziale, hanno in esso la loro radice. In ogni essere finito, le due forme primordiali di Parashakti, il maschile e il femminile, Shiva che è «conoscenza» e shakti che è «ignoran­za», ossia moto verso l’esterno e immedesimazione estroversa, stanno fra loro in un diverso rapporto e «dosamento». Da questo punto di vista è shakti ciò che in un essere vi è di potenza non ancora attuata nella forma di Shiva; Shiva, o shiva-shakti, è, invece, ciò che in esso vi è di unificato e di trans-formato, di ricongiunto con se stesso, di trasparente e luminoso. In particolare, alla prima corrisponde tutto ciò che è materia, corpo e mente, al secondo l’elemento atma — l’una e l’altra cosa presentandosi pertanto nel tantrismo solo come due modi di apparire di un unico principio, di un’unica realtà.

Solamente il fatto che nell’una o nell’altra condizione di esistenza l’unione di Shiva con Shakti non è perfetta e assoluta come al livello della sintesi suprema, solamente questo fatto fa sì che lo spirito viva ciò che, come shakti e maya-shakti, in fondo è un suo stesso potere, come qualcosa di diverso e in secondo luogo come fantasma di un mondo esterno. Esser dominato dalla shakti, anziché dominarla: tale è il significato della finitez­za degli esseri. La differenza fra Ishvara (corrispondenza indù del dio tei­stico) o Shiva e l’essere vivente finito, jiva, secondo i Tantra consiste in ciò, che, congiunti entrambi a maya (cioè a maya-shakti) ed essendo meta­fisicamente la stessa cosa, il primo la domina, il secondo ne è invece domi­nato [35].

Riassumendo quanto si è esposto in questo capitolo, nei Tantra è dichiarata l’intenzione di conciliare la verità trascendentale, corrispondente al monismo o dottrina della non-dualità upanishadica, con la verità propria all’esperienza concreta dualistica dell’essere vivente [36]. La conciliazione viene realizzata col concepire il Brahman nei termini di una unità in atto di Shiva e di Shakti, principi che qui prendono il posto del Purusha e della prakrti del Samkhya. Il concetto di shakti è ciò che fa da mediatore fra Io e non-Io, fra incondizionato e condizionato, fra spirito cosciente e natura, fra mente e corporeità, physis, fra volontà e realtà e che riporta questi principi apparentemente opposti ad una superiore unità trascendentale della quale viene proposta all’uomo la realizzazione. Mentre il Kularnava-tantra (I, 110) fa dire a Parashakti: «Vi è chi mi comprende dualisticamente (dvai­tavada), vi è chi mi comprende monisticamente (advaitavada), ma la mia realtà sta di là sia da dualismo che da monismo (dvaitadvaitavivarjita)», possono venire nuovamente citate le parole dell’autore dei Tantratattva: «Il concetto di potenza per chi si applica al sadhana è una guida molto più sicura che non la nebulosa idea di spirito (ama). È assai difficile che coloro che non credono nella Shakti possano intendere l'”Uno e senza un secondo” dell’insegnamento tradizionale (shrutí) sia nell’ordine fisico che in quello spirituale, non essendovi [per costoro] nessuna connessione valida fra i due ordini. Ma uno shàkta [= un seguace dello shaktismo] non ha da combattere con una tale difficoltà. Per cui nei Tantra viene detto: ” O Devi, la liberazio­ne senza la conoscenza della Shakti è una semplice burla!”» [37].

Tratto da Julius Evola: Lo Yoga della Potenza. Ed. Mediterranee


NOTE

[1] Cfr. Tantratattva, 1, 59, e riferimenti in A. Avalon, Shakti and Shakta, cit., p.

164

[2] In un inno della Mahakala-Samhita viene detto: «In verità, non sei né maschio né femmina né un essere neutro. Sei l’inconcepibile, non misurabile potere, l’essere di tutto ciò che è, sei libera da ogni dualità, il supremo Brahman, raggiungibi­le soltanto nella illuminazione» (A. Avalon, Shakti and Shakta, cit., p. 26)

[3] Mahanirvana-tantra, V, 1.

[4] Tantratattva, II, p. XVII, XXI, 355.

[5] A. e E. Avalon, introduzione a Hymns to the Goddess, London, 1913, p. 4 (tr. it. Inni alla Dea Madre, Edizioni Mediterranee, Roma, 1984)

[6] Inno a Jodabambika (Devibhagavata, XIX, V), in A. e E. Avalon, Hymns, cit.

[7] Tantrasara, in A. e E. Avalon, Hymns, cit., p. 178.

[8] Mahanirvana-tantra, IV, 34; cfr. IV, 14.

[9] Tantratattva, I, 194; cfr. II, 378, ove è detto, della Shakti, che «la sua sostan­za è fatta di volontà — icchamayi»

[10] Natananda, Commento al Kamakalavilasa, verso 1 (ed. A. Avalon, p. 2): Per il Signore gli atti della creazione sono semplicemente un giuoco, perché non sono necessitati (na prayojanam)». Cfr. Anandalahri, v. 35: «Mediante il tuo giuoco [della Shakti] manifesti la tua coscienza e la tua beatitudine nel corpo dell’universo».

[11] Tantratattva, I, 336; Kamakalavilasa, commento ai vv. 37-38, p. 58.

[12] Questo termine, che di solito viene tradotto con «sistema di filosofia», secondo la sua etimologia vuol dire propriamente: ciò che risulta da un dato punto di vista. Di massima, le principali «filosofie» indù non sono sistemi isolati e chiusi, ma presentazioni di un complesso dottrinale secondo una varietà di possibili punti di vista.

[13] Samkhyakarika, 42, 65; cfr. Maitrayant-upanishad, III, 2.

[14] Tantratattva, I, 206, 281, 295-296.

[15] Tantratattva, I, 225.

[16] Tantratattva, I, 227.

[17] Tantratattva, II, 170-171.

[18] Kaulavali-tantra, XI, 12

[19] Tantratattva, I, 281

[20] Yogaraja, 4.

[21] Tantratattva, 1, 312.

[22] Kamakalavilasa, v. 2. Il commentario aggiunge: «Il Signore supremo, guar­dando la sua stessa Shakti (svatmashaka) che è all’interno di lui stesso (svadhinabhuta) conosce la propria natura come “Io sono tutto” (paripurno’ ham)»

[23] Kamakalavilasa, commento ai vv. 3-4 (pp. 8-11); Prapancasara-tantra, N, 21; I, 86-95.

[24] Shrkakrasambhara-tantra, p. 7.

[25] Tantratattva, I, 312

[26] B.K. Majumdar, Introduzione ai Tantratattva, vol. II, pp. XXVII, CXIX.

[27] Kamakalavilasa, commento ai vv. 1 e 5

[28] Karpuradistotram, commento al v. 12

[29] IV, 34

[30] Su tutto ciò cfr. Mandukya-upanishad, I, i, 2-5; Il, 11; II, 13; Maitrayani­upanishad, VII, 11, 7-8

[31] Nrsintauttara-tapaniya-upanishad, 2, 8, 9 (testo in P. Deussen, Sechzig Upanishaden, Leipzig3, 1921)

[32] Meister Eckhart, Schifken und Predigten, ed. Buttner, vol. I, p. 135

[33] Tantratattva, I, 280

[34] Taníratattva, I, 293-294: «Il nostro Brahman è tutt’altra cosa di quello esclusivista dell’aryashatra [si vuol dire: della dottrina bràhmanica]. Esso è nel cielo come nell’inferno, nella virtù come nella colpa, nel desiderio come nella distruzione di esso, nel bene come nel male, nella creazione come nella dissoluzione. Esso è lo stesso dovunque: nel conscio, nell’inconscio e nel vario giuoco dei due. È esso che causa la schiavitù ed è esso, di nuovo, che dà la liberazione».

[35] Tantratattva, I, 173-174; Kularnava-taníra, IX, 42: «Lo jiva è Shiva e Shiva è lo jiva, la sola differenza è che l’uno è vincolato, l’altro non lo è».

[36] Tantratattva, I, 83, 85-87

[37] Tantratattva, p. XXVI

Giulio Cesare Andrea Evola, meglio conosciuto come Julius Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974), è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.

Sulla continuità nella Trasmigrazione

Il concetto di trasmigrazione, inerente al passaggio di un essere da uno stato di manifestazione ad un altro, è espresso, in forme diverse, da tutte le tradizioni ortodosse, e le apparenti differenze riguardanti le varie scritture non rappresentano in definitiva che modalità diverse di descrivere una stessa realtà.

La comprensione di tale fenomeno presuppone la conoscenza della teoria degli stati molteplici dell’essere, a cui questo è strettamente correlato, così come è stata descritta da René Guénon nella sua opera; in particolare esso non è da confondersi con l’idea di reincarnazione, ovvero il passaggio di un essere attraverso varie vite terrene, umane o non umane: questa idea, della quale Guénon ha dimostrato l’impossibilità metafisica, non la si ritrova in realtà in nessuna dottrina tradizionale autentica, né orientale né occidentale; compare a seguito di interpretazioni errate dei testi sacri, da parte di coloro che, limitando la realtà contingente al solo stato individuale umano, prendono alla lettera determinate espressioni simboliche, che invece si riferiscono all’intera manifestazione.

La trasmigrazione, così come viene descritta da René Guénon, pur essendo una realtà che trascende il piano umano, non è una dottrina metafisica, in quanto riguarda esclusivamente un essere contingente, condizionato; scopo ultimo dell’esistenza di tale essere non è il continuare a trasmigrare, seppur attraverso stati superiori, “spirituali”, ma il liberarsi definitivamente da questo ciclo di morti e rinascite, attraverso una reintegrazione nel Principio primo, che corrisponde ad una identificazione con il proprio Sé o Atma. Il passaggio attraverso esistenze diverse (il termine “successive” è da prendersi in senso simbolico, in quanto la dimensione temporale è inerente solo ad alcuni di questi stati) riguarda un essere non ancora liberato, quale ad esempio un uomo ordinario, che non ottiene la liberazione in vita, né al momento della morte, ed il cui destino sarà quello di manifestarsi in altri stati, individuali o sovraindividuali a seconda dei risultati effettivi raggiunti, ovvero di seguire quella particolare via che gli induisti chiamano pitri yana.
Nel caso di passaggio ad altri stati individuali, la trasmigrazione è vista come la prospettiva più temibile, e corrisponde alla cosiddetta “seconda morte”, in quanto l’essere potrebbe rinascere in un altro stato in una posizione non più “centrale”, come è quella dell’uomo nel nostro, e trovarsi dunque in una situazione di svantaggio rispetto a quella attuale; dal punto di vista della teologia cattolica questo percorso è assimilabile ad una discesa verso degli stati infernali.
Il passaggio a stati sovraindividuali, corrispondenti ai Cieli del Paradiso, il cui culmine è rappresentato dal Brahmaloka (qui si tratta del Brahma non supremo – Brahma saguna o Iswhara -, identificabile con l’Essere puro o il Dio delle religioni monoteiste), è sempre interpretabile come una trasmigrazione, che per l’essere umano ordinario, quello a cui si rivolge il punto di vista religioso, potrà avvenire solo alla fine del nostro ciclo cosmico o pralaya, fino al quale egli si troverà situato in un “prolungamento” dello stato individuale umano, in un “luogo” rappresentato nella cosmologia dantesca dalla montagna del Purgatorio. In questo caso la trasmigrazione può avere una valenza positiva, essendo il risultato dell’ottenimento di quella condizione particolare che il cristianesimo chiama “salvezza”; tale senso benefico riguarda tutti quegli esseri umani, e sono la maggioranza, che non possono aspirare, per le proprie limitazioni individuali, a stati più elevati. Per completezza, diremo che il passaggio diretto a stati sovraindividuali nel momento della morte, è previsto dalla dottrina cattolica, ma solo per esseri eccezionali come i santi.

Il punto di vista metafisico trascende queste considerazioni; l’identificazione con l’Essere o Iswhara pone fine alla trasmigrazione, essendo una condizione al di là del divenire; e tutto ciò che si trova oltre l’Essere, il Non-Essere totalmente incondizionato o Brahma nirguna, che costituisce in proprio l’oggetto della metafisica, non può a maggior ragione essere soggetto ad alcun mutamento. Di conseguenza non è possibile affermare, senza cadere in un errore dottrinale, che sia il Sé a trasmigrare.

Ritornando alla condizione che è attualmente la nostra, possiamo domandarci quale sia la parte del composto umano ad essere soggetta alla trasmigrazione. Guénon sottolinea nella sua opera la continuità esistente tra i vari stati dell’essere, indicando che nelle incessanti modificazioni a cui è soggetto l’individuo che soggiace al samsara, è stabilito un collegamento che non viene mai a rompersi finché l’essere non è liberato. Questo è evidente durante la vita umana, dove la stessa individualità permane attraverso la continua modifica degli elementi corporei che ne costituiscono l’involucro più esterno, ed anche di quegli elementi sottili più collegati allo stato corporeo. Una comparabile continuità si deve poter osservare, per analogia, nel passaggio da uno stato all’altro, ma ad un grado diverso rispetto a quella esistente nell’ambito di uno stesso stato, poiché in quest’ultimo caso si assiste alla dissoluzione permanente di alcune modalità; ad esempio al termine del nostro stato attuale, a quello della modalità corporea e di parte di quella sottile, per cui l’individuo non può più dirsi propriamente umano.

Per una migliore comprensione di questo argomento, ci siamo rivolti ad alcuni testi tratti dalle Upanishad, cercando di interpretarli alla luce dell’opera di René Guénon. Volendo affrontare la lettura di questi testi, un importante aspetto da tenere in considerazione è che il linguaggio simbolico non è mai sistematico: uno stesso simbolo può assumere significati diversi a seconda del contesto in cui viene utilizzato, a volte anche comprendendo punti di vista opposti all’interno di questa pluralità.
Il testo seguente della Brhadaranyaka Upanishad tratta della natura di Hiranyagarbha, spiegando l’apparente contraddizione delle Scritture che a volte lo presentano come trasmigrante e altre come immutabile; la spiegazione fornirà un altro spunto di riflessione su ciò che stiamo trattando.

“Obiezione: «Riguardo a ciò vi sono opinioni contrastanti. Alcuni sostengono che Hiranyagarbha è proprio il Supremo [Sé-Brahma], altri che Esso è l’essere trasmigrante [jiva]».

Risposta: «Concezioni diverse (in relazione a vari punti o aspetti della dottrina) sono pienamente ammissibili. Infatti si possono a ragione ammettere differenti concezioni, le quali sono diversificate in funzione della qualificazione delle sovrapposizioni […] La natura di essere trasmigrante non appartiene realmente [a Prajapati-Hiranyagarbha], ma è dovuta alle sovrapposizioni […] Invero Egli è di per sé al di là del divenire trasmigratorio. Così Hiranyagarbha ha al tempo stesso natura sia di unità sia di molteplicità. E la stessa cosa è per tutti gli esseri viventi, poiché la Shruti afferma: “Tu sei Quello“. Invero le affermazioni pronunciate sia dalla Shruti che dalla Smriti, fatte in relazione all’estrema purezza delle sue sovrapposizioni, descrivono generalmente Hiranyagarbha proprio in quanto è il Supremo [Sé-Brahma], mentre solo in minima parte ne presentano una natura trasmigratoria. Invece, per quanto concerne i jiva, generalmente viene presentata la loro natura trasmigratoria, a causa dell’impurità che accompagna le loro sovrapposizioni [quali corpo, sensi ecc.], mentre qualsiasi ente, allorché si è completamente affrancato dalle diverse sovrapposizioni, viene descritto sia dalla Shruti sia dalla Smriti proprio come il Supremo [Sé-Brahma]»” (Commento di Shankaracharya alla Brhadaranyaka Upanishad, 1.4.6).

Dal Commento si evince chiaramente che la natura trasmigratoria non può mai riferirsi al Sé. Essa può competere ad Hiranyagarbha in quanto possiede già delle sovrapposizioni, ovvero delle qualificazioni che lo identificano ad un particolare aspetto di Prajapati; d’altronde queste sono di «estrema purezza», poiché Hiranyagarbha, «insieme sintetico di vita» o germe della manifestazione sottile, appartiene all’ambito della manifestazione informale. Per questo motivo esso è spesso assimilato a Prajapati stesso e presentato al di là del divenire trasmigratorio. La natura trasmigratoria è invece una caratterista dell’anima vivente, a motivo dei suoi involucri di natura sottile e corporea, e proprio in quanto essa è ancora identificata con tali involucri; l’anima che ha ottenuto la liberazione, identificandosi con il Principio, non è più soggetta agli indefiniti cicli di morte e rinascita.

Nella Brhadaranyaka Upanishad è detto che solo in quanto il sé possiede ancora delle sovrapposizioni, inerenti al corpo sottile ed all’intelletto, dopo essersi ritirato “nel proprio cuore” ed aver riassorbito le proprie funzioni, può dipartire dirigendosi verso altri mondi: «proprio attraverso l’apice del cuore, il sé consustanziato di conoscenza che ha il veicolo sottile come sovrapposizione limitante, se ne allontana, cioè si distacca […] l’esistenza relativa, consistente in tutte le forme di attività quali nascita e morte, andare e venire ecc. è nel Sé attraverso tali sovrapposizioni limitanti […] quando quello, il sé consustanziato di conoscenza, si diparte, dirigendosi verso l’altro mondo, il prana lo segue, come un primo ministro segue il re […] questo sé […] diviene pervaso dalla conoscenza distintiva in dipendenza della propria azione, per cui non è indipendente […] la conoscenza e l’azione lo seguono, cioè [seguono] il sé [individuato] che si sta trasferendo verso il mondo successivo […]».(Shankaracharya , Brhadaranyaka Upanishad 4.4 1-2).

In particolare nell’Upanishad è ben evidenziata la concatenazione causale: desiderio-volontà-azione-frutto, che vede nel desiderio la prima causa del divenire ciclico. Per contro è detto: «invece colui che non nutre desiderio non trasmigra in nessun luogo […] in che modo i desideri vengono appagati? Soltanto divenendo il Sé l’oggetto stesso del desiderio, mentre per lui non vi è nessun altro ente distinto che possa costituire oggetto di desiderio. Per questi esiste soltanto il Sé, senza interno e senza esterno, intero, unità assoluta di pura conoscenza, perfettamente omogeneo, mentre non vi è alcun altro ente distinto, né in alto, né in mezzo, né in basso, che possa diventare oggetto di desiderio […] pertanto, essendo assente il desiderio, colui che non nutre desiderio non rinasce e, quindi, consegue la liberazione». (Shankaracharya , Brhadaranyaka Upanishad 4.4 6). Da questo possiamo dedurre che ottenuta l’identificazione con il Sé incondizionato non vi può essere rinascita nella manifestazione.

Il principio dottrinale sottostante alla questione è che tutti gli stati condizionati sono soggetti a trasmigrazione, proprio in quanto condizionati; infatti tali condizioni sono esattamente quelle del samsara, mentre l’unico stato a non essere soggetto a trasmigrazione è l’Incondizionato. L’essere che passa attraverso la “seconda morte” da uno stato di prolungamento dell’individualità umana -dove esiste in forma sottile- ad un altro stato, possiederà per tale ragione gli “involucri” corrispondenti alle condizioni particolari dello stato in cui verrà a trovarsi, questo essendo determinato dalle attuali condizioni della sua coscienza individuale, con la quale tale essere tenderà ad identificarsi a causa del velo di ignoranza da cui è ottenebrato. Proprio lo spessore di questo velo andrà a determinare le condizioni più o meno favorevoli della futura nascita per quella individualità.

Concludendo, è necessario distinguere il Sé imperituro (Atma) dal sé incarnato o sé individuale (Jivatma); e solo a quest’ultimo può essere riferita la trasmigrazione. Sono i «due uccelli, compagni inseparabilmente uniti, che stanno su uno stesso albero; l’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda senza mangiare» citati da Guénon ne L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, di cui dice che «il primo è jivatma, impegnato nel campo dell’azione e delle sue conseguenze [e la trasmigrazione è una conseguenza dell’azione, N.d.R.]; il secondo è l’Atma incondizionato, cioè pura Conoscenza; se sono inseparabilmente uniti, è perché il primo non è distinto dal secondo che in modo illusorio» – e proprio a questa illusione si riferiscono secondo noi alcuni brani, quali ad esempio il commento di Shankaracharya al versetto della Brhadaranyaka Upanishad 4.4.5 dove è detto: «in verità questo sé è il Brahman». Tale commento riporta che «in verità questo sé che trasmigra è proprio il Brahman supremo, il quale è al di là della fame e della sete». Ma cosa significa essere “al di là della fame e della sete”, se non essere al di là del desiderio? Le parole di Shankaracharya non sono dunque in contraddizione con gli scritti precedenti, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale; qui si sta esprimendo il punto di vista metafisico, nel quale non esiste nessun essere individuale e nessuna trasmigrazione, perché in verità niente è al di fuori, e nulla è mai uscito, dalla Possibilità universale.

Ananda Coomaraswamy: Uomo, Mito, e Storia

  1. René Guénon
  2. Ananda Coomaraswamy: Uomo, Mito, e Storia

ANANADA COOMARASWAMY (1877-1947)

Coomaraswamy: Uomo, Mito, e Storia

(di Whitall N. Perry)

Chi fu – ovvero che cosa rappresentò – Ananda Coomaraswamy? L’uomo qui non ci è molto d’aiuto, dal momento che egli, nella dichiarata intenzione di non essere ‘nulla’, scoraggiò la ‘curiosità’ biografica. Pur tuttavia proprio questa volontaria vaghezza ci offre una chiave di risposta. Hic Jacet Nemo, questo è l’epitaffio che avrebbe maggiormente desiderato e “Qui giace nessuno” è già un indizio alla risposta che andiamo cercando.

Naturalmente, Coomaraswamy fu, senza ombra di dubbio, un “qualcuno”, in modo davvero straordinario sia per quel che riguarda la tradizione familiare, che per il suo genio; tuttavia al di sopra e al di là di ciò v’era l’uomo spirituale, acutamente consapevole di tutto ciò che intendeva Plotino ne Il viaggio del Solo verso il Solo (ed è significativo, per le nostre finalità, che Coomaraswamy intendesse entrambe le `S’ con la maiuscola).

Più che alimentare la massa di tributi che sono stati dedicati al Dottore negli anni, ci proponiamo di esaminare un aspetto della sua persona che abbiamo avuto l’opportunità di apprezzare ne “L’uomo e la Testimonianza”, che apparve nel volume commemorativo di S. Durai Raja Singam, Ananda Coomaraswamy: Remembering and remernbering again and again.

Persino quelli che lo conobbero come studente hanno riferito di una natura che univa superiorità a distacco. Sul resoconto del suo corso al Collage di Wycliffe si legge: “È una spanna al di sopra dei suoi colleghi sia a livello letterario che nell’arte figurativa”; visto che all’Università di Londra Coomaraswamy rifuggiva dall’attività sociale, un suo collega ebbe a fare la seguente riflessione: “Forse poteva dire con Erasmo di essere meno solo quando era più solo: nunquam minus solum quam solis sum”.

Quando lo incontrai per la prima volta all’Accademia di Musica di Brooklyn nel febbraio del 1946, dove stava tenendo una conferenza dal titolo “La concezione dell’immortalità nel buddismo”, l’effetto fu quello di avere davanti una rara figura di straordinaria autorità venuto da un distante passato, la cui saggezza egli impersonava con una spietata visione dei punti deboli che sono alla base della civiltà moderna in cui era finito.

Nel volume di Singam abbiamo fatto riferimento a certe particolari somiglianze tra il Dottore e René Guénon che incontrammo in seguito lo stesso anno al Cairo, e come i due uomini in effetti personificavano polarità complementari di un’unica funzione. Il nostro primo incontro col metafisico francese fu una esperienza particolarmente sconcertante, dal momento che questa austera ma benevola figura era ancor più inafferrabile e lontana rispetto a quel che avevamo trovato nello stesso Coomaraswamy: il René Guénon, i cui scritti avevamo entusiasticamente assimilato, sembrava non essere affatto là.

Fu Coomaraswamy a proclamare senza posa la dottrina dei “due sé” ovvero “delle due facoltà dell’intelletto” (duo sunt in homine), e certamente sia lui che Guénon avevano le loro parti umane. Non soltanto l’erudizione del Dottore, su di un piano puramente umano, sconcertava per la sua completezza, supportata da stile letterario, ampiezza, profondità ed universalità, ma era anche un brillante critico, e un uomo di notevole generosità nei confronti degli studenti e di chiunque gli si rivolgeva, ad esempio per corrispondenza, per avere chiarimenti.

Mentre Guènon mancava d’ampiezza d’erudizione, mostrò invece un’innata conoscenza dei principi metafisici e cosmologici, e fu questa visione delle verità fondamentali che diede la definitiva polarizzazione alla competenza di Coomaraswamy. Da ciò derivò anche l’ingrato inconveniente di far risultare Guénon in un certo qual modo più limitato nell’erudizione; la sua certezza riguardo ai principi portò un falso senso di sicurezza dal punto di vista pratico, là dove un po’ di ricerca sarebbe stata sufficiente a proteggerlo dalle critiche degli orientalisti, che pur se ignari di qualsiasi verità metafisica e spirituale, riuscivano talvolta ad evidenziare qualche lacuna. È qui che l’erudizione di Coomaraswamy gli venne spesso in soccorso.

Guénon era davvero ben documentato sulla sfera dell’occulto in tutte le sue ramificazioni: sembrava avere antenne che captavano in ogni direzione. Anche lui aveva una ottima penna per le controversie, ed era instancabile nella corrispondenza; per il resto era un devoto uomo di famiglia. Tuttavia il suo anonimato era tale che un ammiratore dei suoi scritti rimase senza parole quando scoprì dopo la sua morte che il rispettabile vicino di casa che aveva conosciuto per anni come lo Sceicco Abdel Wahed Yahya in realtà era non era altri che René Guénon.

La cosa meno importante riguardo a Guénon è la personalità”, scrisse Coomaraswamy. “Il fatto è che aveva l’invisibilità che è propria al vero filosofo: la nostra prospettiva teologica può essere resa soltanto quando davvero diventiamo nessuno”. Per quel che riguardava se stesso, il Dottore insisteva: “Vorrei sottolineare che non sono affatto interessato a questioni biografiche che mi riguardino e che la pratica moderna di pubblicare dettagli delle vite e delle personalità di uomini ben conosciuti non sia altro che una volgare soddisfazione di curiosità illegittima… Tutto ciò non ha nulla a che fare con la ‘modestia’ ma è una questione di principio”; un principio che lo lasciò indifferente ai diritti d’autore dei suoi saggi, riguardo i quali ci disse una volta: “Sarei felice se i miei scritti siano davvero stati d’aiuto a quattro o cinque persone…

Questo ‘principio’, come vedremo, andò assai lontano. Il piano individuale umano di entrambi questi uomini era virtualmente privo di valore, essendo per loro equiparabile al mondo dei fenomeni, dell’impermanente, e del cambiamento. Apparteneva al samsara, a questo ciclo interminabile di nascite e di morti, al mutamento, al flusso e alla non realtà.

Nel suo Mito dell’eterno ritorno, Mircea Eliade mostra come l’uomo antico vedeva la Realtà: un ricorrere senza fine di paradigmi archetipali dispiegati nel cosmo; la storia per l’umanità tradizionale era identificata come accidente, sofferenza, punizione per il peccato (ovvero la trasgressione alle norme archetipali), e in generale, come incongruità e insensatezza. Coomaraswamy fece un ulteriore passo; in teoria per lui la ‘storia’, in una certa misura, neppure esisteva.

Non c’è bisogno di leggere molte pagine delle sue opere per imbattersi subito nel leit-motif “non v’è ‘io’ che agisce o eredita” (Sarnyutta-Nikdya); “il nostro Ego in realtà non è altro che un nome che sta ad esprimere soltanto una sequenza di comportamenti osservati”; “le cose che non sono immutabili non sono affatto” (Sant’Agostino); “quel che consideriamo la nostra ‘consapevolezza’ non è altro che un processo”; “il regno dei cieli è solo per chi ottiene la morte completa” (Eckhart); “nessun uomo è salito in cielo, se non colui che è venuto dal cielo” (San Giovanni); “il fine ultimo dell’uomo è d’essere ‘libero come la Natura divina nella sua non-esistenza’ ” (Eckhart). Ebbene queste, come altre affermazioni simili, sono modi ellittici per esprimere la discontinuità tra l’Essenza Divina e i suoi accidenti creati. Tuttavia Schuon puntualizza che non v’è soltanto l’Essenza Trascendente, ma anche la Sostanza Immanente che passa di continuo attraverso i vari livelli della Realtà e i piani dell’Essere, altrimenti non potrebbe esservi alcuna manifestazione, né alcun mondo. Coomaraswamy in realtà lo sapeva bene, e ciò emerge dalla risposta che diede a una domanda che gli ponemmo sul perché della manifestazione dell’Assoluto: “Non che l’Uno sia due,” replicò citando Ermete, “ma che questi due sono uno”.

Tuttavia in pratica egli espose una ulteriore dicotomia tra l’individualità temporale e il Sé Immortale: “Un’immortalità di ‘tale uomo, così com’è’, è inconcepibile… Per quanto strana e ripugnante possa sembrare la negazione della realtà dell’individualità…, la verità è che né l’intero né una qualunque parte della composita personalità psicofisica è il mio Sé… In tutta la Bibbia, la parola ‘anima’ (nefes, psiche, anima) fa riferimento a quella vita psicofisica, animale che torna alla polvere quando lo spirito torna a Dio che lo elargì’, quando `abbandoniamo lo Spirito [Santo]”. Se ciò fosse preso alla lettera, allora la traslazione corporale di Enoch, come anche di Elia, Cristo e la Vergine Maria in Cielo non sarebbe concepibile, per non parlare del dogma della ‘resurrezione del corpo’. Schuon ha evidenziato ciò che potrebbe sembrare ovvio, ovvero che le anime in paradiso non perdono le loro identità: mentre Budda, Krishna e Cristo sono tutte manifestazioni dello stesso unico Logos, essi tuttavia in divinis non perdono le loro distinte identità storiche quali Budda, Krishna e Cristo. L’uomo, dopo tutto, secondo la scrittura fu creato ad immagine divina. E ancora una volta Coomaraswamy, grazie ad un brano del suo Induismo e Buddismo, dà qui prova di comprendere tale prospettiva, quando dice che coloro che si salveranno si trovano in uno stato di “distinzione senza differenza” (bhedabheda), ovvero quel che intende Eckhart con “fusione, e non confusione”. L’Assoluto non è soltanto unico, è anche infinito.

Ma ritorniamo alla storia: Coomaraswamy era così impegnato a dimostrare la preminente realtà delle verità mitologiche al di sopra dei fatti meramente storici che fu indotto a scrivere nel suo The Rg Veda as Land-Nama-Bok: “Ora, per quel che ne so, non è stato mai formulato da alcuno studioso, per quanto possa interessare storicamente, che il viaggio di Manu, come anche quello di Noé, rappresenti la memoria leggendaria di una migrazione storica”; quando in verità se nessuno studioso ha proposto ciò, che non è poi il caso in questione, è perché ciò ch’è ovvio non ha alcun bisogno d’essere proposto! O ancora: “Che l’Esodo sia un mito della creazione, piuttosto che un evento storico, è naturalmente il punto di vista cabalistico,” — quando in realtà per la Cabala una interpretazione in nessun modo esclude l’altra, e ciò è persino confermato da Coomaraswamy stesso, là dove altrove descrive meravigliosamente il Mito come “la penultima verità, la cui intera esperienza è il riflesso temporale” (il corsivo è nostro).

Dal momento che sono stati menzionati il Budda, Krishna e Cristo, è interessante vedere cosa asserisce il Dottore riguardo alla loro storicità. La vita del primo, dice in Gotama, il Budda, “può essere considerata come storica o semplicemente come mito in cui la natura e gli atti delle divinità vediche Agni e Indra sono stati ravvivati più o meno plausibilmente… Lo scrittore è incline ad una interpretazione mitica”. Il riferimento al secondo viene in Induismo e buddismo dove egli parla dei “Krishna e Arjuna pseudo-storici”, che “vanno identificati coi mitici Agni e Indra”. Infine, in una lettera datata 10 luglio 1942, scrive ad un professore di Harvard: “Non sono convinto né della storicità di Budda né di quella di Cristo”. Quando facemmo notare questo punto della lettera a Rama Coomaraswamy egli replicò: “Mio padre era davvero troppo intelligente per non credere nel Gesù storico, e probabilmente intendeva questo punto della lettera come una reazione per aver combattuto tutta la sua vita contro la diffusa tendenza ad umanizzare ogni cosa sacra e minimizzare la mitologia a poco più d’una superstizione di popolazioni primitive”. Ad esempio, nel saggio ispirato da Guénon intitolato Sapienza orientale e cultura occidentale, il Dottore scrisse: “Per l’induista gli eventi del Rig Veda sono al di fuori del tempo e dello spazio, e il Gioco (Lila) di Krishna ‘non è un evento storico’; e fondare il cristianesimo su supposti ‘fatti’ storici, sembra essere il suo maggiore punto debole.”

Nel numero speciale di Études Traditionnelles, dedicato a René Guénon, che apparve nel 1951, l’anno della sua morte, Schuon contribuì con un articolo chiamato ‘L’Oeuvre’ (‘L’opera’), dove scrisse: “Se sul piano dottrinale il lavoro guenoniano possiede un sigillo di unicità, è bene puntualizzare che ciò non è dovuto a una natura più o meno profetica – una supposizione che è da escludere, e che lo stesso Guénon aveva già rigettato anzitempo – ma ad una eccezionale congiuntura ciclica il cui aspetto temporale è questa ‘fine del mondo’ in cui viviamo, e il cui aspetto spaziale è – per lo stesso motivo – la convergenza forzata delle civiltà.”

Ora le caratteristiche della società degli ultimi giorni sono l’individualismo, il libertinaggio, il narcisismo, il relativismo, e in generale, “il divorzio da qualsiasi principio”, per usare le stesse parole di Coomaraswamy. Egli e Guénon ebbero insieme il ruolo provvidenziale di ravvedere il mondo ancora una volta, “in un modo che può sì essere ignorato, ma non rifiutato” come afferma il primo, riguardo ai principi fondamentali, e restaurare il senso dell’Assoluto. E questo fecero con un rigore senza compromessi, meticoloso nella sua precisione, tale da sconcertare le menti non abituate a pensare in termini di certezza. L’esposizione metafisica di Guénon è così cristallina e geometrica, così matematicamente astratta e vuota di qualsiasi elemento umano, che una volta Schuon usò, per descrivere il fenomeno, l’immagine di “un occhio senza corpo”, ovvero il principio distaccato da qualsiasi sostanza psichica – per rafforzare la metafora appena citata.

Tuttavia, parlando in termini alchemici, la lettura di questi due autori (per non menzionare Schuon, che in sé rappresenta ancora un’altra dimensione, la sfera psichica pienamente integrata con tutto il resto) può operare proprio quella correzione terapeutica necessaria alle menti corrotte dall’anarchia intellettuale della “nostra generazione sentimentale” (Coomaraswamy); e sebbene questi scritti possano generare pretese metafisiche e orgoglio spirituale in individui non qualificati, tuttavia al lettore serio e recettivo possono aprire una prospettiva sul sacro che va al di là d’ogni altra cosa, reintegrandolo nella vera gerarchia di valori.

Dal momento che è stata fatta menzione della profezia, pur rischiando di cadere in fraintendimenti, ci avventureremo in alcune osservazioni sulla questione. Se è vero che viviamo in un’epoca in cui i profeti non girano più sulla terra, tutte le principali religioni ci dicono nondimeno che certe fondamentali funzioni profetiche a loro connesse debbano di nuovo manifestarsi alla fine del tempo, e senz’altro ciò può verificarsi a vari gradi e modalità. Inoltre, una funzione profetica come quella di Melchisedek o di Elia che è al di là del tempo sarà, per definizione, sempre presente – anche se non prenderà necessariamente la forma umana di un profeta. Non vediamo altro modo soddisfacente di risolvere quelle innegabili ambiguità, marginalmente connesse altrimenti alla testimonianza eccezionale dei due uomini in questione, tranne che proporre che entrambi, pur non di sostanza profetica, nondimeno funsero da elementi veicolari di un messaggio profetico, quali portavoce di ciò che Leo Schaya definì la funzione Eliatica. ‘Portavoce’ è il termine corretto, dal momento che il loro fu un ruolo attivo, e l’intensità della loro forza intellettiva non ha nulla a che fare con quella passività psichica che va semplicemente sotto il nome di medianismo.

Allo stesso tempo, il fatto che essi erano particolarmente ‘ossessionati’ dal fatto di poter dire qualcosa di proprio è in linea con la definizione di profeta data da Filostrato, come “colui che non dice nulla di proprio”. Devono essersi accorti di aver ricevuto una chiamata che era sproporzionata a quelli che consideravano i limiti delle loro possibilità umane, il che spiegherebbe la loro reticenza a parlare di sé stessi, come anche la loro insistenza sulla discontinuità tra il piano ‘meramente’ umano e la Verità Soprannaturale. Un qualcosa che si avvicinava ad una scissione nelle loro due nature, o sé, potrebbe essere presa in considerazione del modo in cui relativizzavano persino il concetto di salvezza umana, quella dell’anima individuale: “Il Paradiso non è che una prigione”, avrebbe detto Guénon citando un adagio sufi che colpisce più per la sua iperbole semitica che e non per la proprietà spirituale. Se fossero stati dei profeti completamente integrati, ciò non solo sarebbe stato sproporzionato, se consideriamo la funzione per cui essi erano venuti al mondo, ma avrebbe anche impedito loro di immergersi negli ambienti accademici e del mondo dell’occulto che avevano conosciuto dall’interno e dall’esterno per poter essere poi coloro che ne avrebbero dato lucida testimonianza. E se fossero stati soltanto dei geni di metafisica e di mitologia, allora come si farebbe a riconciliare l’una con l’altra dimensione? Il che non riguarda soltanto il nostro secolo, soprattutto quando Coomaraswamy insisteva a dire, sulla scia di San Paolo, che “Dio non ha mai e in nessun luogo lasciato se stesso senza testimoni”, sino a che – come concorda con San Luca – in un mondo che non vuole persuadersi, “uno risorse dai morti”.

Varie considerazioni emerse in questo studio ci riportano a mente per analogia di due testimoni “vestiti di sacchi” come vengono descritti nell’apocalisse (Cap. XI), che vengono tradizionalmente associati a Enoch ed Elia. L’abito di sacco fa riferimento all’impoverimento dei ricettacoli umani nel loro velo di anonimato, questo anonimato che colpì Schuon al punto da fargli scrivere nell’articolo già citato: “L’uomo sembrava inconsapevole del suo genio, proprio come di converso, il genio sembrava ignorare l’uomo”.

E se qualcuno oserà nuocere loro, uscirà fuoco dalla loro bocca e divorerà ogni nemico: e se qualcuno oserà nuocere loro, egli in quel modo sarà ucciso.

Questo potere che fu dato ad Elia (II. Re, I. 10) qui potrebbe essere considerato implicitamente come giudizio necessariamente applicabile a tutti coloro che entrano nel novero di testimoni, il che riguarda quasi ogni aspetto della religione, della storia, del pensiero, e dell’ordine sociale nelle sue varie forme.

San Giovanni, nella sua visione, vede i due perseguitati dalla “bestia che sale dalla profonda fossa”, e profanati ignominiosamente dopo la morte “da gente e parenti, da lingue e nazioni”.

E coloro che abitano la terra si rallegreranno di loro e faranno festa, e si scambiano regali; poiché questi due profeti hanno dato il tormento a coloro che dimorano sulla terra.

A parte i tributi, Coomaraswamy e Guénon furono causa di enorme imbarazzo per moltissimi uomini di erudizione moderna e di aberrazione religiosa che videro scalzata la pietra angolare delle loro costruzioni dalla voce fredda della verità che proveniva da questi due.

E dopo tre giorni e mezzo lo Spirito di vita proveniente da Dio entrò in loro, … ed essi ascesero in cielo.

Donna Luisa Coomaraswamy ci ha scritto che suo marito dopo morto assomigliava “a un rishi in marmo” (Hic Jacet Nemo). Avendo partecipato al funerale di Guénon, possiamo attestare che anche lui aveva lo stesso aspetto. In realtà fu soltanto con la sua morte che finalmente riuscimmo a vedere la persona integrale, il René Guénon che avevamo cercato invano tutti gli anni in cui lo abbiamo conosciuto quand’era vivo.

Sarebbe pretenzioso e irrilevante spingere oltre le analogie. Ne “L’Uomo e il Testimone” abbiamo insistito sulla indispensabile “natura di precursore ovvero ‘araldica’ della sua missione”. A chiudere questo studio basti l’affermazione che la loro testimonianza, lungi dal cadere su un terreno arido, sta già portando quei preziosi frutti che rafforzano la propria fede, così come viene auspicato alla fine de La crisi del mondo moderno di Guénon: Vincit omnia Veritas.


Tratto da: Gli esegeti della Tradizione, a cura di Edoardo Ciampi – Collana “Tradizione e traduzione”, edizioni Terre Sommerse


Whitall Nicholson Perry (January 19, 1920 – November 18, 2005) was born in Belmont, Massachusetts (near Boston), on January 19, 1920. A quest for wisdom led him, as a young man, to travel out to the Far East. In Bali, in 1939, he found the echoes of a still authentic traditional world that sparked a lifelong encounter with ancient traditions, which he approached through the metaphysical perspectives of Platonism and Vedanta. He spent several decades abroad, living first in Giza, Egypt, where he met and frequented the French metaphysician René Guénon, and later in Lausanne, Switzerland where he became a close associate of the German metaphysician and mystic, Frithjof Schuon. In 1980, he moved to Bloomington, Indiana where he resided for the last 25 years of his life. He died on November 18, 2005. See: https://en.wikipedia.org/wiki/Whitall_Perry

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