ANANADA COOMARASWAMY (1877-1947)
Coomaraswamy: Uomo, Mito, e Storia
(di Whitall N. Perry)
Chi fu – ovvero che cosa rappresentò – Ananda Coomaraswamy? L’uomo qui non ci è molto d’aiuto, dal momento che egli, nella dichiarata intenzione di non essere ‘nulla’, scoraggiò la ‘curiosità’ biografica. Pur tuttavia proprio questa volontaria vaghezza ci offre una chiave di risposta. Hic Jacet Nemo, questo è l’epitaffio che avrebbe maggiormente desiderato e “Qui giace nessuno” è già un indizio alla risposta che andiamo cercando.
Naturalmente, Coomaraswamy fu, senza ombra di dubbio, un “qualcuno”, in modo davvero straordinario sia per quel che riguarda la tradizione familiare, che per il suo genio; tuttavia al di sopra e al di là di ciò v’era l’uomo spirituale, acutamente consapevole di tutto ciò che intendeva Plotino ne Il viaggio del Solo verso il Solo (ed è significativo, per le nostre finalità, che Coomaraswamy intendesse entrambe le `S’ con la maiuscola).
Più che alimentare la massa di tributi che sono stati dedicati al Dottore negli anni, ci proponiamo di esaminare un aspetto della sua persona che abbiamo avuto l’opportunità di apprezzare ne “L’uomo e la Testimonianza”, che apparve nel volume commemorativo di S. Durai Raja Singam, Ananda Coomaraswamy: Remembering and remernbering again and again.
Persino quelli che lo conobbero come studente hanno riferito di una natura che univa superiorità a distacco. Sul resoconto del suo corso al Collage di Wycliffe si legge: “È una spanna al di sopra dei suoi colleghi sia a livello letterario che nell’arte figurativa”; visto che all’Università di Londra Coomaraswamy rifuggiva dall’attività sociale, un suo collega ebbe a fare la seguente riflessione: “Forse poteva dire con Erasmo di essere meno solo quando era più solo: nunquam minus solum quam solis sum”.
Quando lo incontrai per la prima volta all’Accademia di Musica di Brooklyn nel febbraio del 1946, dove stava tenendo una conferenza dal titolo “La concezione dell’immortalità nel buddismo”, l’effetto fu quello di avere davanti una rara figura di straordinaria autorità venuto da un distante passato, la cui saggezza egli impersonava con una spietata visione dei punti deboli che sono alla base della civiltà moderna in cui era finito.
Nel volume di Singam abbiamo fatto riferimento a certe particolari somiglianze tra il Dottore e René Guénon che incontrammo in seguito lo stesso anno al Cairo, e come i due uomini in effetti personificavano polarità complementari di un’unica funzione. Il nostro primo incontro col metafisico francese fu una esperienza particolarmente sconcertante, dal momento che questa austera ma benevola figura era ancor più inafferrabile e lontana rispetto a quel che avevamo trovato nello stesso Coomaraswamy: il René Guénon, i cui scritti avevamo entusiasticamente assimilato, sembrava non essere affatto là.
Fu Coomaraswamy a proclamare senza posa la dottrina dei “due sé” ovvero “delle due facoltà dell’intelletto” (duo sunt in homine), e certamente sia lui che Guénon avevano le loro parti umane. Non soltanto l’erudizione del Dottore, su di un piano puramente umano, sconcertava per la sua completezza, supportata da stile letterario, ampiezza, profondità ed universalità, ma era anche un brillante critico, e un uomo di notevole generosità nei confronti degli studenti e di chiunque gli si rivolgeva, ad esempio per corrispondenza, per avere chiarimenti.
Mentre Guènon mancava d’ampiezza d’erudizione, mostrò invece un’innata conoscenza dei principi metafisici e cosmologici, e fu questa visione delle verità fondamentali che diede la definitiva polarizzazione alla competenza di Coomaraswamy. Da ciò derivò anche l’ingrato inconveniente di far risultare Guénon in un certo qual modo più limitato nell’erudizione; la sua certezza riguardo ai principi portò un falso senso di sicurezza dal punto di vista pratico, là dove un po’ di ricerca sarebbe stata sufficiente a proteggerlo dalle critiche degli orientalisti, che pur se ignari di qualsiasi verità metafisica e spirituale, riuscivano talvolta ad evidenziare qualche lacuna. È qui che l’erudizione di Coomaraswamy gli venne spesso in soccorso.
Guénon era davvero ben documentato sulla sfera dell’occulto in tutte le sue ramificazioni: sembrava avere antenne che captavano in ogni direzione. Anche lui aveva una ottima penna per le controversie, ed era instancabile nella corrispondenza; per il resto era un devoto uomo di famiglia. Tuttavia il suo anonimato era tale che un ammiratore dei suoi scritti rimase senza parole quando scoprì dopo la sua morte che il rispettabile vicino di casa che aveva conosciuto per anni come lo Sceicco Abdel Wahed Yahya in realtà era non era altri che René Guénon.
“La cosa meno importante riguardo a Guénon è la personalità”, scrisse Coomaraswamy. “Il fatto è che aveva l’invisibilità che è propria al vero filosofo: la nostra prospettiva teologica può essere resa soltanto quando davvero diventiamo nessuno”. Per quel che riguardava se stesso, il Dottore insisteva: “Vorrei sottolineare che non sono affatto interessato a questioni biografiche che mi riguardino e che la pratica moderna di pubblicare dettagli delle vite e delle personalità di uomini ben conosciuti non sia altro che una volgare soddisfazione di curiosità illegittima… Tutto ciò non ha nulla a che fare con la ‘modestia’ ma è una questione di principio”; un principio che lo lasciò indifferente ai diritti d’autore dei suoi saggi, riguardo i quali ci disse una volta: “Sarei felice se i miei scritti siano davvero stati d’aiuto a quattro o cinque persone…”
Questo ‘principio’, come vedremo, andò assai lontano. Il piano individuale umano di entrambi questi uomini era virtualmente privo di valore, essendo per loro equiparabile al mondo dei fenomeni, dell’impermanente, e del cambiamento. Apparteneva al samsara, a questo ciclo interminabile di nascite e di morti, al mutamento, al flusso e alla non realtà.
Nel suo Mito dell’eterno ritorno, Mircea Eliade mostra come l’uomo antico vedeva la Realtà: un ricorrere senza fine di paradigmi archetipali dispiegati nel cosmo; la storia per l’umanità tradizionale era identificata come accidente, sofferenza, punizione per il peccato (ovvero la trasgressione alle norme archetipali), e in generale, come incongruità e insensatezza. Coomaraswamy fece un ulteriore passo; in teoria per lui la ‘storia’, in una certa misura, neppure esisteva.
Non c’è bisogno di leggere molte pagine delle sue opere per imbattersi subito nel leit-motif “non v’è ‘io’ che agisce o eredita” (Sarnyutta-Nikdya); “il nostro Ego in realtà non è altro che un nome che sta ad esprimere soltanto una sequenza di comportamenti osservati”; “le cose che non sono immutabili non sono affatto” (Sant’Agostino); “quel che consideriamo la nostra ‘consapevolezza’ non è altro che un processo”; “il regno dei cieli è solo per chi ottiene la morte completa” (Eckhart); “nessun uomo è salito in cielo, se non colui che è venuto dal cielo” (San Giovanni); “il fine ultimo dell’uomo è d’essere ‘libero come la Natura divina nella sua non-esistenza’ ” (Eckhart). Ebbene queste, come altre affermazioni simili, sono modi ellittici per esprimere la discontinuità tra l’Essenza Divina e i suoi accidenti creati. Tuttavia Schuon puntualizza che non v’è soltanto l’Essenza Trascendente, ma anche la Sostanza Immanente che passa di continuo attraverso i vari livelli della Realtà e i piani dell’Essere, altrimenti non potrebbe esservi alcuna manifestazione, né alcun mondo. Coomaraswamy in realtà lo sapeva bene, e ciò emerge dalla risposta che diede a una domanda che gli ponemmo sul perché della manifestazione dell’Assoluto: “Non che l’Uno sia due,” replicò citando Ermete, “ma che questi due sono uno”.
Tuttavia in pratica egli espose una ulteriore dicotomia tra l’individualità temporale e il Sé Immortale: “Un’immortalità di ‘tale uomo, così com’è’, è inconcepibile… Per quanto strana e ripugnante possa sembrare la negazione della realtà dell’individualità…, la verità è che né l’intero né una qualunque parte della composita personalità psicofisica è il mio Sé… In tutta la Bibbia, la parola ‘anima’ (nefes, psiche, anima) fa riferimento a quella vita psicofisica, animale che torna alla polvere quando lo spirito torna a Dio che lo elargì’, quando `abbandoniamo lo Spirito [Santo]”. Se ciò fosse preso alla lettera, allora la traslazione corporale di Enoch, come anche di Elia, Cristo e la Vergine Maria in Cielo non sarebbe concepibile, per non parlare del dogma della ‘resurrezione del corpo’. Schuon ha evidenziato ciò che potrebbe sembrare ovvio, ovvero che le anime in paradiso non perdono le loro identità: mentre Budda, Krishna e Cristo sono tutte manifestazioni dello stesso unico Logos, essi tuttavia in divinis non perdono le loro distinte identità storiche quali Budda, Krishna e Cristo. L’uomo, dopo tutto, secondo la scrittura fu creato ad immagine divina. E ancora una volta Coomaraswamy, grazie ad un brano del suo Induismo e Buddismo, dà qui prova di comprendere tale prospettiva, quando dice che coloro che si salveranno si trovano in uno stato di “distinzione senza differenza” (bhedabheda), ovvero quel che intende Eckhart con “fusione, e non confusione”. L’Assoluto non è soltanto unico, è anche infinito.
Ma ritorniamo alla storia: Coomaraswamy era così impegnato a dimostrare la preminente realtà delle verità mitologiche al di sopra dei fatti meramente storici che fu indotto a scrivere nel suo The Rg Veda as Land-Nama-Bok: “Ora, per quel che ne so, non è stato mai formulato da alcuno studioso, per quanto possa interessare storicamente, che il viaggio di Manu, come anche quello di Noé, rappresenti la memoria leggendaria di una migrazione storica”; quando in verità se nessuno studioso ha proposto ciò, che non è poi il caso in questione, è perché ciò ch’è ovvio non ha alcun bisogno d’essere proposto! O ancora: “Che l’Esodo sia un mito della creazione, piuttosto che un evento storico, è naturalmente il punto di vista cabalistico,” — quando in realtà per la Cabala una interpretazione in nessun modo esclude l’altra, e ciò è persino confermato da Coomaraswamy stesso, là dove altrove descrive meravigliosamente il Mito come “la penultima verità, la cui intera esperienza è il riflesso temporale” (il corsivo è nostro).
Dal momento che sono stati menzionati il Budda, Krishna e Cristo, è interessante vedere cosa asserisce il Dottore riguardo alla loro storicità. La vita del primo, dice in Gotama, il Budda, “può essere considerata come storica o semplicemente come mito in cui la natura e gli atti delle divinità vediche Agni e Indra sono stati ravvivati più o meno plausibilmente… Lo scrittore è incline ad una interpretazione mitica”. Il riferimento al secondo viene in Induismo e buddismo dove egli parla dei “Krishna e Arjuna pseudo-storici”, che “vanno identificati coi mitici Agni e Indra”. Infine, in una lettera datata 10 luglio 1942, scrive ad un professore di Harvard: “Non sono convinto né della storicità di Budda né di quella di Cristo”. Quando facemmo notare questo punto della lettera a Rama Coomaraswamy egli replicò: “Mio padre era davvero troppo intelligente per non credere nel Gesù storico, e probabilmente intendeva questo punto della lettera come una reazione per aver combattuto tutta la sua vita contro la diffusa tendenza ad umanizzare ogni cosa sacra e minimizzare la mitologia a poco più d’una superstizione di popolazioni primitive”. Ad esempio, nel saggio ispirato da Guénon intitolato Sapienza orientale e cultura occidentale, il Dottore scrisse: “Per l’induista gli eventi del Rig Veda sono al di fuori del tempo e dello spazio, e il Gioco (Lila) di Krishna ‘non è un evento storico’; e fondare il cristianesimo su supposti ‘fatti’ storici, sembra essere il suo maggiore punto debole.”
Nel numero speciale di Études Traditionnelles, dedicato a René Guénon, che apparve nel 1951, l’anno della sua morte, Schuon contribuì con un articolo chiamato ‘L’Oeuvre’ (‘L’opera’), dove scrisse: “Se sul piano dottrinale il lavoro guenoniano possiede un sigillo di unicità, è bene puntualizzare che ciò non è dovuto a una natura più o meno profetica – una supposizione che è da escludere, e che lo stesso Guénon aveva già rigettato anzitempo – ma ad una eccezionale congiuntura ciclica il cui aspetto temporale è questa ‘fine del mondo’ in cui viviamo, e il cui aspetto spaziale è – per lo stesso motivo – la convergenza forzata delle civiltà.”
Ora le caratteristiche della società degli ultimi giorni sono l’individualismo, il libertinaggio, il narcisismo, il relativismo, e in generale, “il divorzio da qualsiasi principio”, per usare le stesse parole di Coomaraswamy. Egli e Guénon ebbero insieme il ruolo provvidenziale di ravvedere il mondo ancora una volta, “in un modo che può sì essere ignorato, ma non rifiutato” come afferma il primo, riguardo ai principi fondamentali, e restaurare il senso dell’Assoluto. E questo fecero con un rigore senza compromessi, meticoloso nella sua precisione, tale da sconcertare le menti non abituate a pensare in termini di certezza. L’esposizione metafisica di Guénon è così cristallina e geometrica, così matematicamente astratta e vuota di qualsiasi elemento umano, che una volta Schuon usò, per descrivere il fenomeno, l’immagine di “un occhio senza corpo”, ovvero il principio distaccato da qualsiasi sostanza psichica – per rafforzare la metafora appena citata.
Tuttavia, parlando in termini alchemici, la lettura di questi due autori (per non menzionare Schuon, che in sé rappresenta ancora un’altra dimensione, la sfera psichica pienamente integrata con tutto il resto) può operare proprio quella correzione terapeutica necessaria alle menti corrotte dall’anarchia intellettuale della “nostra generazione sentimentale” (Coomaraswamy); e sebbene questi scritti possano generare pretese metafisiche e orgoglio spirituale in individui non qualificati, tuttavia al lettore serio e recettivo possono aprire una prospettiva sul sacro che va al di là d’ogni altra cosa, reintegrandolo nella vera gerarchia di valori.
Dal momento che è stata fatta menzione della profezia, pur rischiando di cadere in fraintendimenti, ci avventureremo in alcune osservazioni sulla questione. Se è vero che viviamo in un’epoca in cui i profeti non girano più sulla terra, tutte le principali religioni ci dicono nondimeno che certe fondamentali funzioni profetiche a loro connesse debbano di nuovo manifestarsi alla fine del tempo, e senz’altro ciò può verificarsi a vari gradi e modalità. Inoltre, una funzione profetica come quella di Melchisedek o di Elia che è al di là del tempo sarà, per definizione, sempre presente – anche se non prenderà necessariamente la forma umana di un profeta. Non vediamo altro modo soddisfacente di risolvere quelle innegabili ambiguità, marginalmente connesse altrimenti alla testimonianza eccezionale dei due uomini in questione, tranne che proporre che entrambi, pur non di sostanza profetica, nondimeno funsero da elementi veicolari di un messaggio profetico, quali portavoce di ciò che Leo Schaya definì la funzione Eliatica. ‘Portavoce’ è il termine corretto, dal momento che il loro fu un ruolo attivo, e l’intensità della loro forza intellettiva non ha nulla a che fare con quella passività psichica che va semplicemente sotto il nome di medianismo.
Allo stesso tempo, il fatto che essi erano particolarmente ‘ossessionati’ dal fatto di poter dire qualcosa di proprio è in linea con la definizione di profeta data da Filostrato, come “colui che non dice nulla di proprio”. Devono essersi accorti di aver ricevuto una chiamata che era sproporzionata a quelli che consideravano i limiti delle loro possibilità umane, il che spiegherebbe la loro reticenza a parlare di sé stessi, come anche la loro insistenza sulla discontinuità tra il piano ‘meramente’ umano e la Verità Soprannaturale. Un qualcosa che si avvicinava ad una scissione nelle loro due nature, o sé, potrebbe essere presa in considerazione del modo in cui relativizzavano persino il concetto di salvezza umana, quella dell’anima individuale: “Il Paradiso non è che una prigione”, avrebbe detto Guénon citando un adagio sufi che colpisce più per la sua iperbole semitica che e non per la proprietà spirituale. Se fossero stati dei profeti completamente integrati, ciò non solo sarebbe stato sproporzionato, se consideriamo la funzione per cui essi erano venuti al mondo, ma avrebbe anche impedito loro di immergersi negli ambienti accademici e del mondo dell’occulto che avevano conosciuto dall’interno e dall’esterno per poter essere poi coloro che ne avrebbero dato lucida testimonianza. E se fossero stati soltanto dei geni di metafisica e di mitologia, allora come si farebbe a riconciliare l’una con l’altra dimensione? Il che non riguarda soltanto il nostro secolo, soprattutto quando Coomaraswamy insisteva a dire, sulla scia di San Paolo, che “Dio non ha mai e in nessun luogo lasciato se stesso senza testimoni”, sino a che – come concorda con San Luca – in un mondo che non vuole persuadersi, “uno risorse dai morti”.
Varie considerazioni emerse in questo studio ci riportano a mente per analogia di due testimoni “vestiti di sacchi” come vengono descritti nell’apocalisse (Cap. XI), che vengono tradizionalmente associati a Enoch ed Elia. L’abito di sacco fa riferimento all’impoverimento dei ricettacoli umani nel loro velo di anonimato, questo anonimato che colpì Schuon al punto da fargli scrivere nell’articolo già citato: “L’uomo sembrava inconsapevole del suo genio, proprio come di converso, il genio sembrava ignorare l’uomo”.
E se qualcuno oserà nuocere loro, uscirà fuoco dalla loro bocca e divorerà ogni nemico: e se qualcuno oserà nuocere loro, egli in quel modo sarà ucciso.
Questo potere che fu dato ad Elia (II. Re, I. 10) qui potrebbe essere considerato implicitamente come giudizio necessariamente applicabile a tutti coloro che entrano nel novero di testimoni, il che riguarda quasi ogni aspetto della religione, della storia, del pensiero, e dell’ordine sociale nelle sue varie forme.
San Giovanni, nella sua visione, vede i due perseguitati dalla “bestia che sale dalla profonda fossa”, e profanati ignominiosamente dopo la morte “da gente e parenti, da lingue e nazioni”.
E coloro che abitano la terra si rallegreranno di loro e faranno festa, e si scambiano regali; poiché questi due profeti hanno dato il tormento a coloro che dimorano sulla terra.
A parte i tributi, Coomaraswamy e Guénon furono causa di enorme imbarazzo per moltissimi uomini di erudizione moderna e di aberrazione religiosa che videro scalzata la pietra angolare delle loro costruzioni dalla voce fredda della verità che proveniva da questi due.
E dopo tre giorni e mezzo lo Spirito di vita proveniente da Dio entrò in loro, … ed essi ascesero in cielo.
Donna Luisa Coomaraswamy ci ha scritto che suo marito dopo morto assomigliava “a un rishi in marmo” (Hic Jacet Nemo). Avendo partecipato al funerale di Guénon, possiamo attestare che anche lui aveva lo stesso aspetto. In realtà fu soltanto con la sua morte che finalmente riuscimmo a vedere la persona integrale, il René Guénon che avevamo cercato invano tutti gli anni in cui lo abbiamo conosciuto quand’era vivo.
Sarebbe pretenzioso e irrilevante spingere oltre le analogie. Ne “L’Uomo e il Testimone” abbiamo insistito sulla indispensabile “natura di precursore ovvero ‘araldica’ della sua missione”. A chiudere questo studio basti l’affermazione che la loro testimonianza, lungi dal cadere su un terreno arido, sta già portando quei preziosi frutti che rafforzano la propria fede, così come viene auspicato alla fine de La crisi del mondo moderno di Guénon: Vincit omnia Veritas.
Tratto da: Gli esegeti della Tradizione, a cura di Edoardo Ciampi – Collana “Tradizione e traduzione”, edizioni Terre Sommerse
- Ananda Coomaraswamy: Uomo, Mito, e Storia - 26/11/2017