Raimondo Lullo [XVI secolo]

Ramondo Lullo
Ramondo Lullo

Raimondo Lullo (cat. Ramon Llull; Palma di Maiorca, 1233 circa – Mediterraneo, 29 giugno 1316) è stato un filosofo, scrittore, teologo, logico, astrologo, mistico e missionario spagnolo di lingua e cultura catalana, tra i più celebri dell’Europa del tempo.

 

Biografia

Nel 1247 Raimondo è nominato paggio del re e in seguito siniscalco e maggiordomo dell’Infante.

Nel 1257 sposa Bianca Picany dalla quale ha due figli ma nel 1262 avviene la svolta nella sua vita.

Nella sua Vita coetanea Lullo narra la propria conversione: ha cinque visioni di Gesù e alla quinta si convince, benché peccatore, di aver ricevuto la chiamata da Dio.

Decide di farsi missionario e di convertire i musulmani e gli ebrei, i quali, già credendo nell’esistenza di un essere del quale non si può pensare altro di maggiore, come insegna Anselmo d’Aosta, devono necessariamente essere cristiani.

Ma, nonostante le visioni, continua a condurre la solita vita licenziosa finché, dopo aver ascoltato una predicazione su Francesco d’Assisi, si consiglia col domenicano Raimondo di Peñafort, che lo convince: nel 1263 vende tutti i suoi beni, lasciandone una parte alla moglie e ai figli, e consacra la propria esistenza alla penitenza. Acquista dunque un servo saraceno che gli insegni l’arabo, lingua utile alla conversione dei falsi credenti.

Dopo un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, studia filosofia, teologia, medicina, il latino, il provenzale e l’arabo; assimila parte della cultura dell’epoca: Aristotele, Platone, Agostino d’Ippona, Anselmo d’Aosta, Riccardo di San Vittore, i filosofi arabi. Compone una prima versione dell’Ars magna e il Libro della contemplazione in Dio.

Chiamato a Montpellier dal re Giacomo I, vi compone l’Arte dimostrativa; fonda a Maiorca, nel 1276, il collegio di Miramar (Deià) per preparare i futuri missionari mediante lo studio delle lingue e dalla sua Ars magna.

Comincia ora la sua carriera di missionario laico, percorrendo mezza Europa e specialmente le coste del Mediterraneo, sollecitando aiuti dai regnanti e dai papi ed esponendo la sua Ars magna nelle piazze e nelle università, in particolare a Parigi, dove riceve il titolo di maestro delle Arti, ma non di maestro di teologia perché sposato e privo degli ordini sacri. Vi scrisse vari libri e disputò contro gli averroisti.

Nel 1295 entra nel Terzo Ordine Regolare di San Francesco ad Assisi. Brevemente a Maiorca nel 1300, dove continua a scrivere e a disputare contro arabi ed ebrei, riprende i suoi viaggi che lo portano a Cipro, in Armenia, a Rodi, Malta, Napoli, Genova, Montpellier, Parigi, nel nord Africa. Qui viene incarcerato; rilasciato, riprende i viaggi: dopo un naufragio, va a Pisa e si ritira nel convento di san Domenico dal 1307 al 1308, continuando a scrivere. Una sua nuova permanenza a Parigi provoca una persecuzione contro gli averroisti, da lui considerati eretici perché mantengono separata la filosofia dalle verità di fede. Dedica al re di Francia Filippo il Bello l’Albero della filosofia d’amore.

Partecipa nel 1311 al Concilio di Vienne, dove chiede invano la ripresa delle crociate e di vietare l’insegnamento dell’Averroismo, e riprende a viaggiare: aggredito a Tunisi, viene sottratto a stento al linciaggio e imbarcato in gravissime condizioni in una nave genovese fino a Maiorca dove muore nel 1316.

In virtù della sua tragica morte fu beatificato come martire da papa Pio IX; la sua festa liturgica è il 29 giugno.

Opere

Il corpus lulliano comprende 243 opere riconosciute come autografe e 44 forse apocrife: fra queste ultime, tutte quelle di argomento alchemico. Scrisse in arabo, in latino e in catalano. Sono opere di filosofia, teologia, mistiche, pedagogiche, di medicina, di scienze naturali, di fisica, matematica, letterarie e poetiche. Tra le tante, Ars magna; De levitate et ponderositate elementorum; Vita coetanea; Ars amativa; Felix de les meravelles; il Libro dell’ordine di cavalleria; il Libro del pagano e dei tre savi; il Libro della contemplazione di Dio; Lo sconforto; Logica nova; Ars generalis.

L’opera letteraria e pedagogica

Tra le opere più note vi è il romanzo Blanquerna, scritto verso il 1284, ricco di idee, di vita e di spiritualità, dove espone anche i suoi piani di educazione dei cristiani e dei musulmani; una sezione dell’opera, un vero e proprio libro nel libro composto dall’eroe eponimo durante l’eremitaggio, è il Libre de amic i amat, composto di 365 metàfores morales in prosa in catalano, espone l’ascesi dell’uomo (amic) a Dio (amat), con influssi di poesia trovadorica e riferimenti al Cantico dei Cantici e alla mistica araba. L’opera ebbe una circolazione autonoma rispetto al romanzo (ed è spesso oggi pubblicato isolatamente); d’altronde lo stesso Lullo ne fece realizzare una traduzione latina. Il Plant de nostra dona Santa Maria e il Desconhort i cant de Ramon sono le sue migliori prove liriche: egli converte il catalano popolare in lingua letteraria tanto da porsi come il più notevole scrittore di questa lingua.

Scrisse anche il Felix de les maravelles, intorno al 1288, una sorta di racconto enciclopedico, dalle scienze naturali alla teologia; scrisse anche un manuale cavalleresco, il Del Ordre de Cavayleria. Attribuita a lui l’Opera Alchemica del “Fugax Vitae” di ricerca interiore della pietra dura alchemica filosofale (V.I.T.R.I.O.L.: visita interiora terra rettifficando invenium occultum lapidem).

La Dottrina puerile, forse composta nel 1273, è il primo manuale conosciuto di istruzione dei bambini scritto in una lingua romanza. La sua pedagogia ha lo scopo di provvedere ai mezzi per conseguire la salvezza spirituale e, insieme, la cristianizzazione degli infedeli. Formulò anche i principi di un insegnamento intuitivo e analogico, raccomandò che la lingua nativa si insegnasse prima della latina, e che fossero docenti stranieri a insegnare la loro lingua. Auspicò anche la creazione di una lingua universale.

La filosofia e la teologia

Statua dedicata a Raimondo Lullo nell’università di Barcellona

La sua filosofia è influenzata da Agostino d’Ippona e dalle correnti mistiche francescane; non distinguendo nettamente filosofia e teologia, costruisce una sapienza cristiana secondo i suoi prevalenti intenti apologetici, per cui si può parlare di un suo razionalismo apologetico. Conosce Aristotele attraverso il filosofo arabo al-Ghazālī da cui trasse un Compendio di logica, assimilandone la dottrina delle proposizioni e del sillogismo, ma la sua logica non è quella scolastica, formale o di seconda intenzione, distinta dalla teologia, bensì è un mezzo per ragionare sulle verità divine.

Il problema che Lullo cerca di risolvere deriva da Aristotele che distinse i principi comuni a ogni scienza dai principi propri di ciascuna. Si tratta, per Lullo, di trovare una scienza generale, tale che, nei principi di questa, siano contenuti i principi di tutte le scienze particolari.

L’Ars generalis, 1308, redazione finale di una precedente Ars compendiosa inveniendi veritatem o Ars magna primitiva, del 1274, vuole dunque essere la scienza suprema, da cui dipendano tutte le altre; non è propriamente una logica ma un’arte di ricerca. Mentre per Aristotele i principi non si basano su dimostrazioni ma derivano dall’esperienza e dall’induzione, Lullo crede di risolvere ogni problema con precisione matematica: parte dal presupposto che ogni proposizione sia riducibile a termini e i termini complessi siano riducibili a più termini semplici o principi. Supposto di aver completato il numero di tutti i termini semplici possibili, combinandoli in tutti i modi possibili si otterranno tutte le proposizioni vere possibili: nasce così l’arte combinatoria, anche come forma di mnemotecnica, in quanto facilita la memorizzazione delle nozioni di base. Questa concezione potrebbe avere avuto influenza sui successivi sviluppi del calcolo computazionale e su questioni riguardanti l’intelligenza artificiale.

Occorre ora scoprire tutti i termini semplici e trovare la regola che li combini. Egli individua 9 predicati assoluti, che sono i nove attributi divini: bontà, grandezza, eternità, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità e gloria; 9 relazioni: differenza, concordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggioranza, minoranza ed eguaglianza; ma poi deve aggiungere 9 questioni, 9 soggetti, 9 virtù e 9 vizi.

Nel trattato Dell’ascesa e discesa dell’intelletto prova un nuovo metodo dialettico che prescinda dalle combinazioni dei termini. Con un movimento di ascesa l’intelletto raggiunge i principi primi, con il moto contrario acquisisce la conoscenza dei termini particolari.

L’Albero della scienza è un testo di enciclopedia delle scienze, un tentativo di unificare tutto il sapere in uno schema gerarchico. L’insieme delle scienze si collegano fra di loro configurando un albero ove la trama dei concetti raffigura la realtà del mondo e di Dio.

La metafisica lulliana è teologica, nel senso che si fonda sulla Rivelazione. Cerca di dare le prove dell’esistenza di Dio secondo la dottrina scolastica: Dio e le nove dignità divine sono la causa delle perfezioni create, cosicché tutte le creature mostrano gradualmente la loro somiglianza con Dio e dunque l’universo, secondo la tradizione agostiniana, è lo specchio del divino, il libro su cui s’impara a conoscere Dio, un sistema di segni che dimostrano la realtà divina. Dio è l’Idea eterna mentre le creature sono Idee nuove provenienti da Dio e dunque idee divine ma finite: la creazione non è pertanto avvenuta ab aeterno ma nel tempo.

L’opera alchemica

A Lullo furono attribuite numerose opere a carattere alchemico ma sono tutte apocrife; tra le più note è il Liber de segretis naturae seu de quinta essentia nel quale l’anonimo che si richiama a Lullo sostiene che mentre Dio può esercitare solo il bene, l’uomo può cadere nel male perché dispone solo del fuoco per purificare le cose terrene, ma con l’aiuto dei principi essenziali e con la fede può realizzare trasmutazioni naturali e raggiungere il bene. La scelta tra il bene ed il male appartiene al libero arbitrio, che è una conseguenza dell’ignoranza umana la quale è però voluta dalla stessa volontà divina ed è perciò anch’essa un bene.

Il lullismo

Alla sua morte restarono attivi i suoi seguaci in Francia, tra i quali Tommaso de Myésier che nel 1325 pubblica l’Electorium Remundi dove applica le dottrine del maestro alla cosmologia. Nel corso di tutto il secolo si attribuiscono a Lullo numerose opere di alchimia, astrologia e magia, con reazioni polemiche che portano la Sorbona a vietarne l’insegnamento nel 1390.

I due secoli successivi segnano l’apice del successo di Lullo studiato, fra gli altri, da Nicola Cusano, Pico della Mirandola, Charles de Bovelles, Bartolomeo Fallamonica e Giordano Bruno. La sua arte si presta bene all’esigenza, fortemente sentita nel Rinascimento, di una scienza enciclopedica: fra le tante opere emergono il De arte cyclognomica, 1569, di Cornelio Gemma, le Syntaxes artis mirabilis di Pedro Gregoire di Tolosa e l’Opus aureum, 1589, di Valerio de Valeriis.

L’interesse per l’arte combinatoria e la mnemotecnica, che ha radici risalenti a Cicerone, è affermata nell’Explanatio compendiosaque applicatio artis Raymundi Lulli, 1523, di Bernardo de Lavinheta e soprattutto nei De umbris idearum, Cantus Circaeus e Sigillus sigillorum di Giordano Bruno.

Il lullismo e la nascita della scienza moderna

« L’arte di Lullo serve a parlare senza giudizio di ciò che in realtà si ignora, anziché ad apprendere verità non conosciute o a trasmettere verità note »

(Cartesio, Oeuvres, VI, p. 17)

Nel pensiero di Cartesio, soprattutto per quanto riguarda la sua concezione del metodo filosofico, vi è presenza di intuizioni lulliane. L’arte di Lullo infatti serve a risolvere ogni problema, attraverso la scomposizione di ogni quesito in parti più piccole e successivamente la riduzione in lettere dell’alfabeto. Queste lettere fanno parte di ruote che saranno in grado di fornire infinite combinazioni. Se si osserva quanto descritto nella prima parte del discorso sul metodo non si potrà che riscontrare una contrapposizione di idee di questi due filosofi. Inoltre sembra che il nome di Lullo sia l’unico nome di filosofo citato in un testo, Il discorso sul metodo, in cui compaiono solo Cartesio e Dio.

Anche Leibniz è interessato agli studi sulla lingua e alla sua concezione della logica. Dall’analisi dei filosofi che teorizzano la nuova scienza risulta innegabile la connessione con alcune idee cardine del pensiero di Lullo, quale l’ideale enciclopedico, l’utilizzo della matematica (scartata dal profeta della scienza moderna, Francesco Bacone) e il calcolo computazionale. Da queste ricerche risulta chiaro quanto l’importanza del pensiero di Lullo non sia inscritta solamente nella mnemotecnica, ma attraverso anche riflessioni teoreticamente più importanti come la struttura della scienza della logica e del linguaggio.

 

Bibliografia

 

Opere tradotte

in italiano

  •     Trattato di astrologia, a cura di Giuseppe Bezza, Milano, Mimesis, 2004
  •     Arte breve, introduzione, traduzione e apparati di Marta M. M. Romano; presentazione di Alessandro Musco, Milano, Bompiani, 2002.
  •     Lull Ramon. Phantasticus: disputa del chierico Pietro con l’insensato Raimondo traduzione di Mario Polia; prefazione di p. Guglielmo Spirito; nota bio-bibliografica di Adolfo Moranti. Rimini, Il Cerchio, 1997
  •     Il trattato della Quinta Essenza – ovvero de’ segreti di natura, a cura di Enrico Cardile, Atanòr, Roma, 1997
  •     Libro dell’Amico e l’Amato, traduzione dal catalano di Adelaide Baracco, introduzione di Josep Perarnau, Città Nuova, Roma 1996
  •     Il lamento della Filosofia a cura di Luca Orbetello, Nardini Editore, Firenze 1991
  •     Il Libro del Gentile e dei tre Savi, Gribaudi, 1986 ISBN: 8871521196.
  •     Il Libro dell’Ordine della Cavalleria, Edizioni Arktos, Carmagnola, 1982

 

in francese

  •     Raymond Lulle, Le Livre des mille proverbes, Éditions de la Merci, Perpignano, Francia, 2008.

 

in inglese

  •     Selected Works of Ramon Llull (1232‑1316), edite e tradotte da Anthony Bonner, Princeton, N.J.: Princeton University Press 1985, (due volumi).

 

Studi

  •     Miquel Batllori, Il lullismo in Italia: tentativo di sintesi, Roma, Antonianum, 2004.
  •     Anthony Bonner, The Art and Logic of Ramon Llull. A User’s Guide, Leiden, Brill, 2007.
  •     Sara Muzzi, Per conoscere Raimondo Lullo, Assisi, Edizioni Porziuncola, 2006.
  •     Sara Muzzi, Raimondo Lullo. Opere e vita straordinaria di un grande pensatore medievale, Milano, Edizioni Terra Santa, 2016.
  •     Michela Pereira, The Alchemical Corpus Attributed to Raimond Lull, Warburg Institute Surveys and Texts, vol. 18, Londra, 1989.
  •     Paolo Rossi, Clavis Universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, il Mulino 1983.
  •     Lola Badia, Joan Santanach, Ramon Llull as a Vernacular Writer, London, Tamesis, 2016.

 

Valentin Weigel [1533-1588]

[1533-1588]

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Figura centrale nella storia del pensiero tedesco, Valentin Weigel (1533-1588) è stato per lungo tempo ingiustamente sottostimato. Come il suo grande contemporaneo Michel de Montaigne, Weigel anticipò l’avvento di una cultura tollerante verso la conoscenza e la coscienza individuali. Al sorgere della riforma Tedesca, il dissidente pastore Luterano Weigel si pronunciò a favore dell’autonomia interiore e della personale ricerca individuale della salvezza e della conoscenza. I suoi scritti ricapitolano la tradizione del misticismo medioevale (Meister Eckhart, Tauler, la Teologia Germanica), la filosofia del Rinascimento (Cusano, Paracelso) e il dissenso del periodo della Riforma (Sebastian Franck). Nel lavoro di Weigel queste fonti disparate si fondono insieme in una lucida sintesi che diede luogo a proteste ed opposizioni contro l’intolleranza e l’oppressione.

Nel corso della sua vita, il pensiero di Weigel non riuscì ad avere particolare influenza o rilievo, ma le sue idee arrivarono molto lontano dal suo tempo; fu uno scrittore mistico che sviluppò il suo pensiero a partire da Paracelso e dalle idee alchemiche. Le sue idee influenzarono Jacob Boeheme, ed altri mistici protestanti tedeschi del diciassettesimo secolo. La maggior parte dei suoi scritti furono pubblicati dopo la sua morte, quando un ristretto gruppo di seguaci, detti Weigeliani, promosse le sue idee, e alcuni testi vennero fregiati del suo nome, sotto uno pseudonimo. Tra essi ricordiamo l’ “Astrology Theologised”, Astrologia teologizzata.

Nella sua opera Valentine Weigel, che, ricordiamo, crebbe immerso nella teologia protestante, enfatizza la profondità della vita interiore, in contrasto con i dogmi della Chiesa e con l’ attaccamento ad un credo eterno. Per lui e per i suoi seguaci, non è il Gesù che prega nei Vangeli ad avere valore, ma il Cristo che può nascere in ogni uomo, all’interno della sua più profonda natura, e che deve essere considerato guida ed esempio per ascendere dalle più elementari forme di percezione fino uno stato di conoscenza ideale. Weigel amministrò modestamente e serenamente le sue incombenze all’interno della Chiesa. E’ solo dai suoi scritti postumi, stampati nel corso del diciassettesimo secolo, che emergono  le significative idee che aveva sviluppato riguardo alla natura dell’uomo. Tra questi scritti possiamo menzionare “Der güldene Griff, Alle Ding ohne Irrthumb zu erkennen, vielen Hochgelährten unbekannt, und doch allen Menschen nothwendig zu wissen” (L’Arte aurea di conoscere tutto senza errori, sconosciuta a molti dei Sapienti, e ancora necessaria a tutti gli uomini”), Erkenne dich selber” (Conosci te stesso); “Vom Ort der Welt” ( Del luogo del mondo). Weigel era ansioso di arrivare ad un’idea chiara della sua relazione con gli insegnamenti della Chiesa. Questo lo portò ad investigare il fondamento di tutta la conoscenza. L’uomo può scegliere di conoscere qualcosa attraverso un dato credo, solo se arriva a capire in che modo riesce a conoscere. Weigel intende andare oltre la forma più elementare di conoscenza. Chiede a se stesso: “In che modo riesco a percepire l’esistenza di una cosa sensibile, quando essa si confronta con me?” Da questo punto di partenza egli sarà capace di ascendere nel processo logico-percettivo fino a dar conto della più alta forma di cognizione. Seguiamo i passaggi di questo processo:

Nellaconoscenza sensibile lo strumento (l’organo di senso) e la cosa, (la”controparte”), si confrontano vicendevolmente. “Nella percezione naturaleci devono essere due elementi: l’oggetto o controparte, che deve esserepercepito o osservato tramite lo strumento; e lo strumento o percettore,l’organo di senso che ci mette in relazione con l’oggetto, ad esempio gliocchi. Ora ci si chiede: la percezione fluisce dall’oggetto nell’occhio o èil giudizio, la percezione che fluisce dagli occhi all’oggetto?”( Trattoda Der guldene Griff… cap.9). Weigelsostiene che se la percezione fluisse dalla controparte (cioè dalla cosa) negliocchi, allora la stessa, completa percezione dovrebbe di necessità formarsi intutti gli occhi. Ma questo non è il caso; piuttosto ognuno vede secondo ipropri occhi. Solo gli occhi, e non la controparte, possono essere responsabilidel fatto che esistano molte differenti concezioni di una stessa cosa, possiamodire tante quanti sono i suoi osservatori. Per chiarire meglio il problema,Weigel compara l’atto di guardare e l’atto di leggere. Se il libro nonesiste, naturalmente non lo potrò leggere; ma potrebbe esistere ed io potreinon essere in grado di leggervi niente, se non conoscessi l’arte dellalettura. Così il libro esiste, ma non può darmi niente di se stesso da sésolo; qualunque cosa io riesca a trarre da lui, in realtà la traggo da mestesso. Questa è secondo Weigel la natura della percezione sensoriale. Ilcolore di un oggetto esiste come “controparte”, ma fuori da se stesso non puòdare niente all’occhio dell’osservatore. Il colore è nell’occhio come ilcontenuto del libro è nel lettore. Se il contenuto del libro fosse nel lettore,non ci sarebbe bisogno di leggerlo. Ma parimenti, nella lettura, il contenutonon sgorga dal libro, ma dal lettore.

Una dettagliata elaborazione di questo treno di pensieri è presente anche nella visione di Immanuel Kant. Weigel diceva a se stesso “Anche se la percezione fluisce dall’uomo, è comunque la natura della controparte che emerge, anche se per mezzo dell’uomo. Come è il contenuto del libro che io scopro leggendolo, così è il colore della controparte che io scopro tramite i miei occhi.” In questo modo Weigel aveva illustrato il suo concetto di percezione sensoriale. L’uomo non può rimanere passivo se vuole percepire le cose con i suoi sensi, ed essere soddisfatto di lasciarle agire su di sé; deve essere attivo, e portare la percezione fuori da se stesso. La controparte sveglia la percezione dello spirito.

E l’uomo ascende ad un livello di cognizione superiore quando lo spirito diventa l’ oggetto stesso della cognizione. Quindi la più alta cognizione non può provenire dall’esterno, ma può solo essere risvegliata dall’esterno, all’interno dell’uomo. Non ci sono rivelazioni esterne quindi, ma solo un risveglio interiore. E come la controparte esterna attende fino a che l’uomo si confronti con essa, in modo da esprimere la sua natura, così l’uomo deve attendere, quando vuole diventare la controparte di se stesso, fino a che la cognizione della natura si svegli in lui. Mentre nella percezione sensoriale l’uomo deve essere attivo nel confrontare la controparte alla sua natura, nella più alta cognizione deve rimanere passivo, perché ora è lui la controparte. Deve ricevere la sua natura da dentro se stesso. A causa di questo, la cognizione dello spirito apparirà come un’illuminazione dall’alto. In contrasto con la percezione sensoriale, Weigel chiama la più alta cognizione “luce della grazia”. Questa “luce della grazia” è in realtà nient’altro che l’ auto-cognizione dello spirito, la rinascita della conoscenza acquisita dall’uomo che giunge ad un più alto livello di capacità visiva.

Tommaso d’Aquino [1225-1274]

[1225-1274]


Tommaso d'Aquino
Tommaso d’Aquino

Tommaso d’Aquino nacque intorno al 1225 nel castello di Roccasecca presso l’abbazia di Monte Cassino (secondo alcuni nella città di Aquino), da famiglia antica e nobile (il padre Landolfo, di famiglia longobarda, era conte; la madre Teodora, di famiglia normanna di Napoli, contessa).

Nel 1236 venne presentato, come oblato, all’abbazia benedettina di Montecassino, dove iniziò gli studi.

Nel 1239 si allontanò dall’abbazia dopo che il luogo sacro era stato trasformato in fortezza militare da Federico II, durante la lotta contro il papa Gregorio IX.

Nel 1240 la famiglia lo mandò presso l’Università di Napoli per il completamento degli studi letterari e per l’inizio di quelli filosofici; per gli studi di grammatica e logica ha come maestro Martino di Dacia, per quelli delle scienze naturali e della metafisica, Pietro d’Irlanda.

Tra il 1242-43 abbracciò la vita religiosa ed entrò come novizio nell’Ordine di San Domenico, contro la volontà della sua famiglia.

Nel 1244 fallì il suo tentativo di raggiungere Parigi insieme con Giovanni Teutonico, Maestro dell’Ordine, proprio a causa delle minacce della famiglia che non condivideva la sua vocazione. Catturato dai fratelli presso Acquapendente in Toscana, venne rinchiuso nel castello di San Giovanni in Roccasecca dove rimase, come prigioniero, per un anno.

Nel 1245 fuggi per recarsi a Parigi, dove seguì i corsi di teologia di Alberto Magno, con il quale si recò a Colonia.

Nel 1248, di ritorno da Colonia, fu ordinato sacerdote.

Nel 1252 si recò nuovamente a Parigi dove iniziò la carriera accademica e scrisse un saggio in difesa degli Ordini mendicanti, contro i quali avevano lanciato i loro strali i professori della Sorbona, primo fra tutti Guglielmo di Sant’ Amore, canonico di Beauvais.

Tra il 1252-1254 fu baccelliere biblico dello Stato generale domenicano del convento di San Giacomo a Parigi.

Tra il 1254-1256 fu sentenziario.

Nel 1256 ebbe inizio il suo insegnamento ordinario presso lo Studio generale di Parigi che terrà fino al 1259, anno in cui figura come membro della Commissione per l’ordinamento degli studi dell’Ordine domenicano. Alla corte papale si incontra con Guglielmo di Moerbeke, valente grecista, il quale gli prepara un testo latino di Aristotele più aderente al greco, in modo che egli possa approfondire il pensiero autentico di quel filosofo.

Nel 1259 rientrò in Italia dove permarrà fino al 1268. Fu nominato teologo della Curia papale ed fu invitato dal papa Urbano IV (1261-1264) a comporre un “elogio” per solennizzare la festa del SS. Sacramento istituita dal Papa.

Nel 1269 ritornò a Parigi in qualità di Maestro di teologia e si dedicò all’insegnamento e alla predicazione.

Tra il 1272-1274 rientrò in Italia. Su pressante istanza di Carlo d’Angiò, il Capitolo Generale dell’Ordine lo inviò a Napoli in qualità di direttore della facoltà di teologia presso l’università di quella città (nel frattempo aveva insegnato ad Anagni e a Orvieto). Tommaso fu a Salerno dove tenne una serie di lezioni straordinarie come un corso di conferenze nella celebre Scuola medica che aveva sollecitato l’onore e il decoro del Santo.

Nel 1273 papa Gregorio X lo invitò a partecipare a un Concilio generale convocato a Lione, con lo scopo di appianare le controversie tra la Chiesa romana e i greci scismatici.

All’inizio del 1274, durante il viaggio verso Lione, si ammalò gravemente e venne portato all’abbazia cistercense di Fossanova di Priverno nella diocesi di Terracina, dove morì il 7 marzo dello stesso anno.

Dante avanza l’ipotesi che fu fatto morire per veleno dallo stesso Carlo d’Angiò: “Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fè di Curradino; e poi/ ripinse al ciel Tommaso, per ammenda… (Purg. 67-69)” – (Carlo I d’Angiò venne in Italia e per fare ammenda, fece di Corradino di Svevia una vittima; quindi, sempre per fare ammenda, rimandò in cielo Tommaso d’Aquino col veleno…).

Nel 1277 il vescovo di Parigi condannò 21 Proposizioni tratte dalle opere di Tommaso. per il loro accentuato razionalismo e naturalismo.

Nel 1323 San Tommaso fù canonizzato dal papa Giovanni XXII.

Durante il concistoro il Pontefice sostenne che non era stato necessario ricercare i miracoli che Tommaso aveva potuto operare in vita, ma che occorreva tener ben presente il modo con cui aveva risolto mirabilmente tante spinose questioni della Chiesa.

Nel 1567 papa Pio V dichiarò Tommaso dottore della Chiesa.

Nel 1888 Leone XIII dichiarò San Tommaso patrono delle scuole cattoliche.

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Robert Boyle [1626-1691]

[1626-1691]

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Robert Boyle entra di diritto nella rosa dei contendenti al titolo di “Padre della Chimica moderna”.

Fu il primo scienziato che svolse esperimenti controllati e pubblicò il suo lavoro con elaborati dettagli concernenti la procedura, le apparecchiature utilizzate e le osservazioni. Mise insieme quello che noi chiameremmo oggigiorno un “gruppo di ricerca”, sviluppò un elemento-chiave dell’attuale corredo del chimico – la pompa aspirante – ed ebbe un ruolo fondamentale nella costituzione della Royal Society. Oltre a ciò,  merita almeno parte dei tributi per la formulazione della famosa legge sui gas che porta il suo nome.

Boyle nacque a Lismore, in Waterford County, Irlanda, il 25 gennaio 1627. Era il settimo figlio maschio (e quattordicesimo nato) dei quindici figli di Richard Boyle, uno degli uomini più ricchi ed influenti delle Isole Britanniche. Come è facile immaginare, data una simile condizione sociale, le sue opportunità erano quasi illimitate. Ancora adolescente, scelse lo pseudonimo di Philaretus (amante della verità) : una vita di ricerca scientifica sembrava già il suo inevitabile destino Fu educato nella maniera più raffinata possibile per i suoi giorni, studiando prima ad Eton fino al novembre del 1638 ed in seguito viaggiando per l’Europa con un tutore e con il suo fratello maggiore Francis. Visitò Parigi, Lione, e Ginevra. Quivi arrivato, studiò francese, latino, retorica e religione con un tutore privato.

Nel 1641 iniziò a studiare italiano in vista di un nuovo viaggio. Nel settembre dello stesso anno Boyle ed il suo tutore arrivarono a Venezia, quindi dall’inizio del 1642 furono a Firenze. Galileo morì nella sua casa di Arcetri, poco distante da Firenze, proprio mentre Boyle si trovava lì. Fu molto impressionato dal personaggio Galileo e studiò con grande attenzione la sua opera. Se si può indicare un evento che formò la sua vita e lo diresse verso la scienza, possiamo dire fu questo. Naturalmente, il suo retroterra protestante contribuì ad accrescere la sua simpatia per la figura di Galileo, date le angherie che aveva dovuto subire dalla Chiesa Cattolica di Roma.

Boyle divenne un forte sostenitore della filosofia galieleiana; questa, unita alla nuova fisica di Bacone e Cartesio, alle nuove teorie riguardo l’aria e il vuoto, il movimento dei pianeti e la circolazione del sangue, influenzarono il suo pensiero più di quanto non fecero le dottrine alchemiche.

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Paracelso [1493-1541]

[1493-1541]


Paracelso
Paracelso

Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim (detto Philippus Aureolus Theophrastus Paracelsus) nacque il 14 novembre del 1493 a Einsiedeln, un villaggio vicino alla città di Zurigo, in Svizzera. Suo padre, Guglielmo Bombast di Hohenheim, era un medico discendente dell’antica e celebre famiglia Bombast detta di Hohenheim dalla sua antica residenza, conosciuta come Hohenheim, un castello presso il villaggio di Plinningen, nelle vicinanze di Stoccarda, nel Wurttemberg. Il nonno di Paracelso, Giorgio Bombast di Hohenheim, era Gran Maestro dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni.

Guglielmo si stabili, come medico, presso Maria-Einsiedeln e, nel 1492, sposò la direttrice dell’ospedale appartenente all’abbazia del luogo. Il risultato del loro matrimonio fu Paracelso, loro unico figlio.

Dopo la prematura morte della moglie, nel 1502 Guglielmo si trasferì a Villaco in Carinzia, portando con sé Paracelso; ivi rimase per trentadue anni ad esercitare la sua professione di medico.

Che Paracelso sia stato evirato nell’infanzia in conseguenza di un incidente o da un soldato ubriaco, come narra la leggenda, o se non sia stato evirato affatto, non è stato accertato. È comunque certo che la barba non gli crebbe sul volto, e che il suo cranio, ancora esistente, ha piuttosto la conformazione di quello di una donna che di quello di un maschio.

Nella prima giovinezza, Paracelso ricevette un’istruzione scientifica da suo padre, che gli insegnò i rudimenti dell’Alchimia, della chirurgia e della medicina. In seguito continuò gli studi sotto la guida dei monaci del convento di Sant’Andrea (nella valle di Savon) e sotto l’egida dei dotti vescovi Eberhardt Baumgartner, Mathias Scheydt di Rottgach e Mathias Schacht di Freisingen.

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Pico della Mirandola [1463-1494]

[1463-1494]

Giovanni Pico della Mirandola (1463 – 1494), che pur chiudeva la sua brevissima ed intensissima esistenza (moriva a soli trentun anni di età) con la stesura delle “Disputationes in Astrologiam“, cioè con una violenta presa di posizione, quasi una ritrattazione, nei confronti dell’astrologia, nella considerazione della magia come efficace e quasi indispensabile strumento di penetrazione e comprensione della natura e con essa della onnipotenza divina e insieme della centralità e originalità dell’uomo, ebbe indubbiamente comunanza di idee e consonanza di sentimenti con Marsilio Ficino. Di ciò sono documento illuminante il “De hominis dignitate“, le “Conclusiones“, l’ “Apologia“. Partiamo dalla decima Conclusione Magica, che come tutte le altre 899 Giovanni Pico, spavaldamente e solennemente si impegnava a discutere pubblicamente. In essa, infatti, rileviamo, appunto chiaramente espressa, la totale adesione alla filosofia ficiniana della “magia naturalis”: “Quod magus homo facit per artem, facit natura naturaliter faciendo hominem“, afferma, dunque, Pico che ciò che l’uomo – mago fa mediante la via dell’arte, la natura fa “naturalmente” facendo l’uomo. Magia è ricreare “artificialmente” (=magicamente) lo stesso processo creativo della natura. Perciò questa magia, essendo così “parte pratica della scienza della natura“, è lecita e non proibita. Essa, infatti, nulla ha a che spartire con quella “in uso presso i Moderni“, inconsistente priva di fondamento e verità, in quanto dovuta alle potenze delle tenebre, nemici della “verità prima“, che “la Chiesa giustamente condanna“. In questa esplicita dichiarazione di rifiuto della falsa magia, che fa quasi da premessa all’esternazione delle “idee sue proprie” sulla magia e sulla cabala attraverso ben 26 “Conclusiones magicae” e 72 “cabalisticae“, è facile scorgere che Giovanni Pico, che pure a differenza del Ficino procederà nella esposizione senza tentennamenti e senza cercare paraventi e nascondimenti dietro questo o quell’altro autore più o meno antico più o meno autorevole, ha inteso mettere le mani avanti per mettersi al riparo da possibili fraintendimenti e dalle prevedibili reazioni di certi ambienti culturali ed ecclesiastici. E perciò, come a ribadire che la magia di cui è fautore non solo è lecita dal punto di vista della ragione e della morale, ma si muove entro la retta dottrina, nella sesta conclusione magica dirà che “non c’è opera mirabile, sia magica o cabalistica o di qualsiasi altro genere che non debba in primissimo luogo riferirsi a Dio glorioso e benedetto“. A questo punto Pico può manifestare senza remore le “conclusioni” a cui studio e riflessione lo hanno portato, baldanzosamente proponendole sotto forma di “tesi” alla discussione con i dotti di tutta Italia. Ed eccolo, subito dopo aver definito nella quarta conclusione la magia parte la più nobile della scienza della natura, proclamare nella quinta, con tutto il suo giovanile entusiasmo, che “né in cielo né in terra c’è virtù potenziale e separata che la magia non possa attualizzare e unificare“. In questa affermazione dell’alto valore della magia, che con scienza e arte, si volge a estrinsecare e unificare le occulte potenzialità della natura e, appropriandosene, a produrre effetti straordinari, stupefacenti, all’occhio del profano, impossibili, c’è tutto l’orgoglio dell’uomo rinascimentale di sentirsi, di essere egli stesso, proprio in virtù del suo particolare ingenium di operare mirabilia, magnum miraculum, inoppugnabile attestazione dell’onnipotenza di Dio, “la cui grazia generosamente fa quotidianamente piovere sopra gli uomini contemplativi di buona volontà acque sovracelesti di mirabili virtù“. E’ questo, ci pare, il senso dell’ “Oratio de hominis dignitate“, scritta per essere pronunziata a Roma al momento della presentazione e discussione delle 900 Tesi: l’interpretazione originale e coraggiosa delle istanze umanistiche fatte proprie dal ventitreenne Pico, che, nel mentre illustra, spiega ragioni significati procedimenti di elaborazione, si fa carico di annunciare il grande progetto, che era nelle aspirazioni del Ficino e negli auspici di tanti nobili spiriti di quel tempo, di una concordia generale sui temi scottanti della possibilità di accordare le nuove tendenze della cultura con la tradizione, la libertà dell’individuo con l’autorità della Chiesa, i valori della civiltà pagana con quelli del cristianesimo. Nello specifico del nostro discorso, accordo tra le teorie e le pratiche magiche, cui non pochi spiriti speculativi e contemplativi si volgono a soddisfazione del bisogno di conoscenza e verità, dell’ansia religiosa di glorificazione dell’opera meravigliosa della Creazione, con i dettami della Scrittura e il Magistero della Chiesa; tra la prisca sapienza e del santo teurgo Mercurio Trismegisto, l’egiziano, la cui filosofia magica e religiosa Pico a suo modo aforisticamente accoglie in 10 specifiche Conclusioni, e del mitico poeta e cantore Orfeo, “dei cui inni nulla c’è di più efficace per le operazioni di magia, sempre che si applichino la dovuta musica, le giuste disposizioni d’animo e tutte le altre condizioni che i sapienti conoscono“, con la dottrina del Vecchio e del Nuovo Testamento. Su questa scia il Pico, tutto preso a decantare eccellenza e bontà della magia, arriva a dire “temerariamente” che “non c’è scienza che più della magia e della cabala ci faccia certi della divinità di Cristo“. Qui vediamo introdursi, non come variabile, bensì come costante e fondante, nel sistema pichiano un elemento nuovo: la Cabala. Ecco, infatti, che già nella quindicesima Conclusione magica si dice che “assolutamente inefficace è l’operazione magica quando non abbia annessa, implicitamente o esplicitamente, l’opera della Cabala“. La magia naturalis del Ficino, accolta dal Pico, diventa magia cabalistica. Questo connubio più complesso tra magia e cabala, al Pico dovette sembrare più consono all’ auspicato progetto di pax, stante che alla conciliazione o armonizzazione non si tendeva più con un rapporto diretto tra paganesimo e cristianesimo, tra Ermete e Cristo, ora che interveniva, a intermediare, l’ebraismo, una religione che col Vecchio Testamento aveva le stesse radici di quella cristiana. Dunque Ermete – Mosè – Cristo. Allora, se la magia naturalis del Ficino poggiante su caratteri e figure (immagini) era astrologica talismanica e visiva, quella del Pico, poggiante su numeri e nomi (lettere) diviene magico – simbolica. Così Pico “sentenzia”, sempre nelle Conclusioni magiche: “Dai principi più riposti della filosofia bisogna ammettere che nell’opera magica caratteri e figure possono più di quanto qualsiasi qualità materiale” (Conclusione n.24); “Come i caratteri sono propri dell’opera magica, così i numeri sono propri dell’opera cabalistica e tra gli uni e gli altri si inserisce come medio l’uso delle lettere” (Conclusione n.25). E’ questo il passaggio, in un raffronto fino a qui di equivalenza, da semplice magia naturalis a magia cabalistica. Per sé prese, però, dichiara Pico, la Cabala è superiore alla magia: “Come per l’influsso del primo agente, se esso influsso è speciale e immediato, avviene qualcosa che non è attingibile per la mediazione delle cause, così per l’opera della Cabala, se è Cabala pura e immediata, avviene qualcosa a cui nessuna magia può pervenire” (Conclusione n. 26). Nella struttura delle “Conclusiones“, quasi a significare un percorso, troviamo 47 “Tesi secondo la dottrina dei sapienti della Cabala” a fronte di 10 “Tesi secondo la dottrina di Mercurio Trismegisto“, 72 “Tesi sulla Cabala secondo opinione propria” a fronte di 26 “Tesi sulla magia secondo opinione propria“. E l’ultima delle 72 Conclusioni cabalistiche, che poi è l’ultima di tutte le Conclusiones, così conclude: “Come la vera astrologia ci insegna a leggere nel libro di Dio, così la Cabala ci insegna a leggere nel libro della Legge“. La grande novità del Pico, così, è nell’avere scoperto, evidenziandone l’enorme portata etica e religiosa, la sacralità della Cabala ebraica averla intesa come uniforme allo spirito della dottrina cristiana, averla a pieno titolo introdotta nell’alveo della cultura filosofico – religiosa europea. Il Pico, però, poiché vive e pienamente interpreta il comune sentire rinascimentale dell’uomo – mago, mentre eleva ad altissima dignità la Cabala, considerata superamento e perfezionamento della magia, nobilita la magia stessa in quanto espressione pratica della scienza astrologica nella lettura del Gran libro dell’universo ed essa stessa operatrice di “cose divine”. In piena Controriforma, Giordano Bruno di Nola (1548-1600), forse la massima voce della coscienza critica rinascimentale, spinto da una forte e sentita esigenza di rinnovamento religioso, oltre che morale e politico, non esitò a dichiarare toto corde le sue simpatie per la tradizione ermetica, ripresa e promossa da Ficino nel Quattrocento, e persino, sulle orme di Agrippa, a fare libera e aperta professione di occultismo, se non praticando, impegnandosi a fondo in una teorizzazione della magia, come essenza costitutiva dell’essere umano e del suo rapporto con l’Assoluto. Considerare questo ardente riformatore, per tanti versi anticipatore di valori moderni, da quest’angolazione non deve significare misconoscimento e sottovalutazione dei suoi grandi meriti storico – culturali e delle sue ardite conquiste concettuali. Si vuole, infatti, correttamente, sottolineare come anche in un robusto pensatore quale egli fu la nozione d’irrazionale, in quanto propria dell’essere più interno e genuino dell’uomo abbia giocato un ruolo non secondario nel suo modo di sentire e meditare, oltre che di vivere e operare. Così guardando all’opera di Bruno, rivediamo lo sforzo costante, in uno con quello del ribadire (senza però l’intento ficiniano di cristianizzarla) la grande validità della tradizione ermetica pagana, di riaffermare l’importanza di quell’arte magica che fu propria di quei popoli antichissimi e in particolar modo della antichissima civiltà egiziana, con i suoi riti e culti religiosi, con la sua cabala, che precedette quella ebraica. Ermete Trismegisto, infatti, ripete Bruno, è più antico di Mosè. Al riguardo leggiamo, per esempio, nel De magia (“Opera latine conscripta” – J. Bruni Nolani, a cura di Tocco e Vitelli, Firenze 1849, III, pp.411 – 412): “Tali erano presso gli Egizi le lettere più convenientemente definite, che si chiamano geroglifici o caratteri sacri. Per le singole cose da designare essi avevano determinate immagini desunte dalle cose della natura o da parti di esse. Scritture e voci di tal genere gli Egizi usavano per stabilire colloqui con gli dei allo scopo di effettuare cose mirabili. E così oggi i maghi, a somiglianza di quelli, costruite immagini, descritti caratteri e cerimonie, che consistono in certi gesti e culti, mediante cenni determinati esplicano i loro voti“. Bruno, perciò, propendendo verso la magia, si richiamò sì al caposcuola dell’ermetismo magico rinascimentale, cioè al Ficino, del quale in più luoghi del De magia sembra ripetere concetti e teorie (influssi astrali, efficacia delle immagini e del canto etc.) quali si leggono nel De vita coelitus comparanda, ma guardò con grande ammirazione e riverenza, spesso pedissequamente seguendolo, soprattutto al vero fondatore dell’occultismo rinascimentale, cioè ad Agrippa.

Nicolas Flamel [1330-1418]

[1330-1418]


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E’ questo uno dei personaggi più frequentemente collegati alla magia e all’alchimia medioevali.

Nato in Francia nel 1330, fu scrivano a Parigi, e grazie al suo lavoro ebbe accesso a testi e documenti rari dell’epoca, e acquistò familiarità -caso raro per un laico dell’epoca- con la pittura, la poesia, la chimica, la matematica e l’architettura.

Si dedicò ad uno studio attento e sistematico della cabala, dell’alchimia e dei testi ermetici.  Nel 1360 s’imbatté in un libro di alchimia destinato a cambiare per sempre la sua vita. Il titolo dell’opera era “The book of Abrahm the Jew” e si supponeva provenisse, probabilmente rubato, da fonti ebraiche. Sulla prima pagina, riferisce Flamel, era scritto “Abramo l’ebreo, principe, sacerdote, levita, astrologo e filosofo, alla nazione degli ebrei, per l’ira di Dio dispersi fra i galli, augura salute” [1]. Ogni sette pagine, ve n’era una che conteneva solo illustrazioni, e molte altre tavole, intessute di simbolismo ermetico e alchemico, inframmezzavano il testo. Si dice che l’originale di questo libro sia conservato nella biblioteca dell’Arsenale di Parigi; comunque sia, riproduzioni dell’opera sono state assiduamente e religiosamente studiate da intere generazioni di aspiranti alchimisti, anche se, per quanto è dato sapere, invano.

Flamel non fu in grado di leggere il libro, perché non era scritto né in latino, né in francese. Esso conteneva alcune criptiche incisioni che sembravano ripercorrere il processo della trasmutazione alchemica. Sicuro che fosse scritto in ebraico, si convinse che solo chi conosceva la cabala potesse interpretarlo. Dopo vent’anni passati con fatica su questo testo così indecifrabile ed enigmatico, ma allo stesso tempo considerato fondamentale per riuscire a penetrare i misteri delle scienze alchemiche, partì alla volta della Spagna, terra che aveva dato rifugio a molti dottori ebrei fuggiti dalla persecuzione. Durante il suo lungo viaggio, che toccò tra l’altro Santiago de Compostela, conobbe a Lèon un ebreo convertito, Maestro Canches, che lo introdusse ai segreti del libro. Al suo ritorno a Parigi, Flamel iniziò ad applicare quello che aveva imparato, e secondo le testimonianze del suo tempo, a mezzogiorno del 17 gennaio 1382, effettuò la prima serie di trasmutazioni alchemiche. [2]

L’attendibilità del racconto di Flamel è ovviamente una questione aperta. Rimane il fatto che poco tempo dopo egli entrò nelle grazie di una donna, la quale in seguito acquistò la fama di “esperta in scienze chimiche”: Bianca Navarra, figlia del re di Navarra e poi moglie di Filippo VI di Francia.

In conseguenza delle sue trasmutazioni alchemiche Flamel divenne immensamente ricco e alla fine della sua vita possedeva più di trenta case con terreno nella sola città di Parigi. Eppure sembra fosse un uomo modesto, che non approfittò mai del proprio potere e usò le sue ricchezze per opere di bene. Nel 1413 aveva già fondato e sovvenzionato 14 ospedali, 7 chiese e tre cappelle a Parigi e altrettanto fece a Boulogne. Grazie al suo altruismo, forse più che al suo successo, Flamel divenne una figura leggendaria e apprezzata dalla posterità. Ancora nel XVIII secolo era stimato da un uomo come Sir Isaac Newton, che faticosamente lesse la sua opera, la annotò minuziosamente e la copiò addirittura a mano, nel tentativo di “portare a termine a gloria di Dio le conoscenze di Hermes”.

E’ significativo che ad eccezione di Nicolas Flamel tutti i più eminenti adepti della magia medioevale e dell’ermetismo fossero ecclesiastici o uomini protetti da ecclesiastici. In altre parole, il controllo esercitato dalla Chiesa sul sapere restava intatto e praticamente totale. Con Flamel, ultimo dei Magi medioevali, la situazione si avviava a cambiare, ben presto in modo radicalmente.

Tra le sue opere ricordiamo “Il Compendio of Filosofia” (1414), mirabile compendio delle sue conoscenze; e le “Figure geroglifiche” all’interno del quale riprodusse e commentò le 13 illustrazioni allegoriche del “Libro di Abramo l’Ebreo”. In questa sequenza di immagini il simbolo del serpente appare in varie forme. E’ raffigurato il caduceo di Hermes con i serpenti avvolti, e i serpenti appaiono ancora in un’altra immagine come energie viventi sulla terra. In questa serie di figure emblematiche, una in particolare sorprende per recare insieme due potenti simboli, la croce ed il serpente. L’immagine del serpente crocifisso è una forte dichiarazione simbolica del collegamento tra ermetismo e Cristianità.



[1] Flamel, His exposition of Hieroglyphical Figures

Michael Sendivogius [1566-1636]

[1566-1636]

Michael Sendivogius

Dopo Giordano Bruno la guida della fratellanza Rosa+Croce fu assunta da Michael Sendivogius. Michael Sendivogius, (1566 – 1636) fu un alchimista polacco, nonché filosofo e medico. vedi ritratto Fu un pioniere della chimica, precursore nella distillazione e scoperta di vari acidi, di metalli e di altri residui chimici, vedi immagine dipinto laboratorio di Dendivogius. Scrisse come l’aria non fosse una singola sostanza e contenesse una essenza vitale che alla fine giunse ad ottenere riscaldando il salnitro e chiamò “essenza di vita”: solo 170 anni dopo Scheele e di Priestley avrebbero chiamato tale sostanza, ossigeno. Questa sostanza, “il salnitro centrale”, ha avuto una posizione centrale nello schema dell’universo teorizzato dal Sendivogius. Fu imprigionato parecchie volte da vari principi tedeschi che lo torturarono per conoscere i suoi segreti. Nel 1590 Sendivogius si trovò a Praga, presso la famosa corte di Rodolfo II. Nel 1600 divenne famoso in Polonia presso la corte del re Zygmunt III Waza, egli stesso un entusiasta di alchimia.

Peraltro le sue conoscenze internazionali suggerirono al re di utilizzarlo anche come diplomatico. I suoi libri, il più famoso dei quali era “Nuova Luce dell’Alchimia”, originale in latino pubblicato nel 1605, sono stati scritti in linguaggio alchemico, un codice segreto comprensibile solo dai confratelli. Oltre ad un’esposizione relativamente chiara della teoria del Sendivogius sull’esistenza di un alimento di vita nell’aria (l’ossigeno), i suoi libri esposero varie teorie scientifiche e filosofiche studiate e riprese da Isaac Newton nel diciottesimo secolo. Durante i suoi anni più tardi, Sendivogius passò più tempo in Boemia ed in Moravia (ora nella Repubblica Ceca), dove gli furono assegnate delle terre dall’imperatore di Habsburg. Vicino alla conclusione della sua vita, Sendivogius si trasferì a Praga, alla corte di Rodolfo II, dove conquistò ulteriore fama come progettista di miniere metallifere e di fonderie. Tuttavia i trenta anni di guerra dal 1618 al 1648 avevano provocato la fine dell’età d’oro dell’alchimia: il denaro serviva più per il finanziamento della guerra, piuttosto che per gli esperimenti chimici e Sendivogius morì, ignorato da tutti, nel 1622.

Michael Maier [1568-1622]

[1568-1622]

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Michael Maier, dottore di filosofia e medicina, alchimista, mistico e probabilmente membro della confraternita  dei Rosacroce, nacque a Rensburg, Holstein (Germania) nel 1568.

Circa le sue origini, le fonti non sempre sono concordi. Alcuni ritengono fosse figlio di Joahnn Maier, un ufficiale del duca di Holstein. Altre fonti invece riportano che suo padre fosse un tale Petrus Maier, un orafo a servizio di Heinrich Rantzaus, governatore danese dello Schleswig Holstein. Un parente di sua madre, un medico ben conosciuto a Gdansk e Koenisberg, di nome Severine Goeble, finanziò i suoi studi.  Nel 1587 Michael Maier frequentò l’Università di Rostock, nel 1589 quella di Nuremberg, dal 1589 al 1591 fu a Padova con il figlio di Goebel [1], nel 1592 all’Università di Francoforte ove conseguì la Laurea in Lettere; nel 1596 all’Università di Bologna e nel 1596 all’Università di Basel, dove conseguì la Laurea in Medicina e Chimica. Non è dato sapere dove conseguì la Laurea in Filosofia.

Terminati gli studi, continuò i suoi viaggi per l’Europa, mantenendosi grazie all’esercizio della professione medica e della chirurgia (arte quest’ ultima che sembra praticasse già dal 1590, ben 6 anni prima di conseguire un’ abilitazione accademica), oltre che dell’insegnamento. Pare che prima del 1600 fosse presso la corte di Rodolfo II, e scrivano nella Cancelleria Germanica. Nel 1601 cominciò la pratica medica presso il Whit Lion Inn a Gdansk, e nel 1608 tornò a Praga.

Secondo alcune fonti il periodo tra il 1611 e il 1614 fu caratterizzato da frequenti viaggi, il primo in Sassonia, poi in Inghilterra e Amsterdam. Secondo altre fonti invece dal 1611 al 1614 sarebbe riuscito ad introdursi presso la corte di James I d’Inghilterra.

Nel 1612 divenne medico ordinario al servizio di Rodolfo, ma la sua carica sembrerebbe essere stata onoraria, in quanto il suo nome non appare nei libri contabili del palazzo. Il suo stemma di famiglia fu reso nobile da Rodolfo, che lo nominò Hofpafalzgraf (Conte Palatino). Un incarico questo che assommava alla qualifica di ufficiale imperiale, la funzione di supervisione sulle Università, con la prerogativa di poter conferire dottorati e titoli post-accademici.

Verso la fine della sua vita tentò di entrare nella cerchia dei protetti del principe Danese Federico III, ma non vi riuscì. Gli dedicò comunque alcuni dei suoi lavori.

Alcune prove supporterebbero l’idea che Maier fosse in qualche modo entrato a far parte della Corte reale mentre si trovava in Inghilterra. Sono state infatti trovate copie di “Arcana Arcanissima” (opera del 1614 circa) con dediche manoscritte a Sir William Paddy, medico di James I, e a Sir Thomas Smith, primo Governatore della Compagnia delle Indie e tesoriere della Compagnia della Virginia.

Maier morì a Magdeburg nel 1622.

La sua opera certamente piùsignificativa è il libro di emblemi Atalanta fugiens, pubblicato per laprima volta, in Latino, nel 1617. Opera sotto ogni profilo affascinante,incorpora 50 emblemi corredati di epigrammi e discorsi, ma amplia il normaleconcetto di libro di emblemi comprendendo in sé 50 brani musicali, fughe o canoni. In questo senso può essere a buondiritto considerato uno dei primi esempi di multimedialità.

Johann Valentin Andreae [1587-1654]

[1587-1654]

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Johann Valentin Andreae nacque a Herrenberg, il 17 agosto del 1586.

Suo nonno fu Jakob Andreae, chiamato il Lutero del Württemberg per il suo impegno nella negoziazione, nel 1577, dell’unione delle città protestanti. Rettore dell’Università di Tubinga, Jakob riuscì ad eliminare con un taglio netto le contraddizioni, reali o apparenti, rilevate tra la dottrina di Lutero e quella di Melantone, garantendo in questo modo un’indiscussa egemonia al luteranesimo tedesco.

Il padre di Jhoann Valentin, Jhoann Andreae, era un modesto pastore, meno sensibile ai problemi legati alla riforma, e più attento all’osservazione del mondo naturale, dei segreti rapporti tra micro- e macro cosmo. Si dedicò a studi alchemici e all’occultismo e fu da lui che Jhoann Valentin trasse le sue inclinazioni per l’arte chimica, l’astrologia e tutti gli aspetti dell’esoterismo.

Alla morte del padre, nel 1601, il quindicenne Jhoann Valentin si trasferì con sua madre ed i suoi sei fratelli a Tubinga, dove riuscì a sistemarsi grazie all’aiuto di amici e parenti. La sua curiosità era istintiva e divorava i libri più vari della biblioteca del suo amico Christoph Besold, di nove anni maggiore di lui. La sua preparazione fu completata da lezioni private ricevute da Balthasar Plessinger, di cui sposerà la sorella. La teologia era la disciplina che l’attraeva di meno, e mostrava una viva passione per la letteratura. In giovane età si cimentò, infatti, nella composizione di piccoli drammi sull’imitazione di quelli inglesi, e si dice che nello stesso periodo scrisse anche “Il matrimonio chimico di Christien Rosenkreutz” che a voler dar fede a queste ricostruzioni, dovrebbe dunque essere datato attorno al 1604.

Si dedicò allo studio di astronomia, ottica, filosofia e matematica. Per quest’ultima seguì gli insegnamenti di Maestlin, maestro di Keplero, che conoscerà in seguito personalmente e da cui sarà molto stimato. Nel 1605, con un’applicazione infaticabile agli studi, ottenne il titolo di magister e potè così contribuire al sostentamento della famiglia insegnando nei villaggi vicini.

Ma di lì a poco si verificò un evento che cambierà la sua vita. Il rettore dell’Università, Mathias Enslin, fautore dell’assolutismo monarchico, era in aperta lotta con la borghesia cittadina, e con le grandi famiglie di teologi, che sostenevano l’ideologia luterana e delle quali anche gli Andreae erano rappresentanti. Jhoann Valentin fu così allontanato dal chiericato e dalla facoltà, essendo stata (seppur ingiustamente) messa in dubbio la sua moralità. Si recò quindi a Strasburgo, ove conobbe il matematico e poligrafo Bernegger, autore di interessanti scritti sull’Alsazia, ma all’epoca ancora studente. Nell’anno seguente tornò a Tubinga, ove si avvicinò al mondo del lavoro artigiano, imparò a suonare la chitarra ed il liuto, e ove conobbe Tobias Hess e Abraham Hölzel. Questi erano parte di un movimento d’illuminati la cui attività principale si concretava nella diffusione di testi mistici per le varie facoltà universitarie. Era questo un modo silenzioso per protestare contro l’aridità del luteranesimo ufficiale, ma fu fraintesa e arrivò alle orecchie del nuovo rettore, Johann Friedrich. Si aprirono una vera e propria inchiesta ed un processo d’opinione che coinvolse anche Andreae ed il suo amico Besold. Si trovò in questo modo un pretesto per estrometterlo definitivamente dal chiericato, e la condanna formale gli fu risparmiata solo per l’intervento diretto del principe Federico di Württenberg.

La vicenda gli costò però la possibilità di entrare all’Università come aveva sempre sognato.

Allora decise di abbandonare definitivamente la teologia. Accettò un posto di precettore in Baviera ed entrò in contatto con i gesuiti della città di Dilligen. Fu questa un’altra delle vicende che contribuirono alla sua crisi di coscienza. Estraneo al cristianesimo di matrice romana, la cui corruzione gli appariva evidente e oltraggiosa, era alla ricerca di una religione che fosse evangelica, pura e radicale. Dopo aver viaggiato in Francia, Italia e Spagna, visitò le città di Losanna e di Ginevra nel 1611, ove ebbe contatti con gli ambienti calvinisti. Si trovò in sintonia con una tale impostazione di pensiero e ritenne che il calvinismo potesse essere la giusta via per l’imitazione di Cristo, a differenza del luteranesimo tedesco, chiuso nel dogmatismo e nell’aridità pragmatica. Proprio a Ginevra, Jhoann individuerà lo scopo della sua vita: “iuvare re christiana“, sostenere il cristianesimo.

Dalla Svizzera si recò in Francia, e risedette a Parigi per un certo periodo. Poi, avendo imparato un po’ di italiano tra un viaggio e l’altro, varcò le Alpi per appurare la veridicità di quanto si raccontava circa la dissolutezza e la religione del clero romano. Ciò che vide lo disgustò al punto, che decise di abbandonare definitivamente il cattolicesimo e di rinforzare il suo coinvolgimento nella religione d’ispirazione luterana.

Tornò a Tubinga e nel 1614 fu nominato diacono a Vaihingen, una piccola città del Württenberg. Sembrava aver raggiunto finalmente una certa stabilità, quando ebbe diffusione il manifesto del movimento rosacrociano che gli fu attribuito. Come abbiamo già visto, Andreae non rinnegò “Il Matrimonio chimico” ma nella sua Autobiografia volle ridimensionarne la portata attribuendolo alla sua penna d’adolescente. Sappiamo del resto che non avrebbe mai ammesso pubblicamente il suo reale coinvolgimento nel movimento dei Rosacroce.

Nel contempo si impegnò, forse per confondere le acque, in un nuovo movimento di carattere innovatore, una sorta di “città cristiana”, Christianopolis infatti era il suo nome, come una Nuova Gerusalemme libera da qualsiasi influenza clericale, ma posta diretta sotto la protezione di Dio.

Nel 1620 fu posto a capo dell’abbazia di Calw, al centro della guerra che divampava, e che fu interessata da un grande rogo, in cui Andreae perse molti dei suoi manoscritti, tra cui un “Teofilo” che andava ultimando. Essendo il suo progetto di una nuova città cristiana troppo ambizioso e obbiettivamente irrealizzabile, fondò un’associazione di soccorso per aiutare lavoratori, studenti, malati e poveri. In linea, possiamo aggiungere, con lo Statuto dei Rosacroce.

In seguito, essendo migliorata la situazione politica e militare, nel 1628 promosse un nuovo manifesto dal titolo “Christo specimen“, ma non ebbe alcun risultato e comprese che era tempo di passare la mano. Dalla lettura di questi manifesti, è possibile individuare lo scopo reale e prioritario della Confraternita dei Rosacroce.

Morì il 24 giugno del 1654, poco dopo la sua nomina a capo dell’abbazia di Adelberg. In questo periodo, prostrato nel corpo e nello spirito, scrisse la sua biografia, rimasta incompiuta.

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