Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

Platone - Non dualità

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DALLA PARTE DELLA SAGGEZZA NON-DUALE

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

di Paolo Scroccaro

La metafisica della non-dualità, ossia la saggezza nel suo significato più profondo, è perlopiù ignorata, deformata o vista con supponenza dalla subcultura contemporanea ormai dilagante, che al massimo la considera un orpello museale. Con questo intervento, estraneo alla retorica tradizionalista, si tenta di restituirne per sommi tratti il senso più essenziale, mostrandone l’importanza per il nostro tempo.

Oblio della verità e violenza

L’età moderna e contemporanea sembra aver rinunciato alla filosofia come ricerca della saggezza, tramite un lungo percorso che si snoda attraverso le varie filosofie che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, quanto meno da Cartesio in poi.

Sarebbe interessante riflettere sulle modalità che via via, a partire dalla sfera teoretica-epistemologica, hanno permesso di mettere al bando l’intuizione intellettuale, e con essa l’apertura al Tutto incircoscrivibile, determinando così una serie di contraccolpi a livello materiale e spirituale, che nel loro intreccio costituiscono la civiltà occidentale moderna, ormai per altro estesa anche alle aree orientali, sempre più occidentalizzate.

Gli spazi un tempo vivificati e illuminati dalla saggezza aperta al Tutto, sono stati così occupati da forze invasive che sembrano alimentare la loro esistenza proprio in assenza di tale orientamento correttivo: tra queste, le più prepotenti sembrano essere le forze economiche del mercato e della pianificazione, l’esaltazione tecnocratica, la scienza dominante o “normale (nel senso di Thomas Kuhn), e le politiche ad esse asservite. Storia dei nostri giorni.

Molto spesso queste forze, quasi per sgravio di coscienza, tentano di giustificare il ripudio della Saggezza tradizionale, rileggendo la storia di essa come storia di violenza, di imposizione, di esclusione… anche se queste forze che denunciano possibili prepotenze altrui, in realtà hanno generato dispositivi e meccanismi di sopraffazione e di dominio, tra i più potenti ed efficaci in assoluto, grazie soprattutto alle superiori capacità operative dell’Apparato tecnico-scientifico dominante.

Si tratta di temi che abbiamo in parte già affrontato, prendendo a pretesto vari autori.

Limitiamoci ora al primo aspetto: la Saggezza tradizionale è intrinsecamente correlata a forme di violenza e sopraffazione?

Questa tesi ritorna spesso negli autori contemporanei: per farsene un’idea, basterà considerare certi testi, espressione della mentalità corrente, quali ad esempio La società aperta e i suoi nemici, di K. Popper, oppure, su un altro piano, Il regime della verità, di E. Pace.

K. Popper considera la metafisica platonica, con le sue pretese di verità, come un sistema chiuso, dogmatico, nemico del pluralismo …, ne discenderebbe una dottrina sociopolitica totalitaria, come quella che sarebbe delineata in Stato e ancor più in Leggi. Le critiche, apertamente o velatamente, riguardano tutte le filosofie che in una forma o nell’altra vorrebbero imitare il Platonismo.

Secondo un’opinione corrente, le pretese di possedere la Verità, avrebbero due espressioni privilegiate: la metafisica (sul modello di Platone), e la religione (sul modello del fondamentalismo).

Con quest’ultimo se la prende E. Pace, criticando il fondamentalismo islamico, evangelico etc., poiché l’integralismo religioso, in nome della Verità, pretenderebbe di imporre con la forza un regime autoritario, che di tale presunta Verità trascendente vorrebbe essere la proiezione nella storia.

Più in generale, le pretese della metafisica e del fondamentalismo (che in realtà sono molto diverse) vengono accusate di riduzionismo e di volontà liberticida, poiché tenderebbero a ridurre la ricchezza, la molteplicità del reale, ad un Principio unico, che nelle diverse correnti spirituali prenderebbe il nome di Dio, Assoluto, Fondamento, Bene … o più semplicemente Uno, termine che ricapitola tutti gli altri.

È diffusa l’espressione monismo, a volte in senso spregiativo, per riassumere il carattere essenziale di quelle visioni del mondo che sarebbero penalizzate da un’impostazione unilaterale, volta a ridurre ad un solo termine tutto ciò che è. In effetti, tale locuzione è comunque da prendere con le riserve del caso, per motivi facilmente intuibili[1] .

Perfino le accuse di Heidegger e Severino alla metafisica, anche quando non coincidono con quelle di cui sopra, risentono a vario titolo di tale pregiudizio antimetafisico, fatto che meriterebbe di esser approfondito a parte. Esaminiamo ora gli aspetti principali del problema posto, alla luce di una domanda di fondo: cosa c’entra la metafisica non-dualistica con il riduzionismo monistico?

Come intendere l’Uno?

Poniamo subito un criterio metodologico di onestà intellettuale, che non dovrebbe mai esser disatteso: quando si giudica una corrente spirituale, il punto di riferimento per una seria disamina deve essere cercato nelle sue manifestazioni più autentiche, e non in quelle più degenerate o comunque controverse che certo non possono mai mancare nella storia!

Non possiamo penetrare l’insegnamento di Gesù, di Muhammad, di Shankara, di Plotino o altri speculando sulle perversioni teoriche e pratiche dovute all’inquisitore medievale, al prete sprovveduto, al fanatico integralista, al millantato guru e così via …

La mediocrità intellettiva di troppi discepoli presunti tali o degli eruditi, non sarà di alcun aiuto ai fini della comprensione della dottrina. Nel caso della nozione di Uno (e di molte altre), vengono ripetute con sospetto fervore semplificazioni non sempre lecite, non sempre coerenti, che in gran parte sono state raccattate qua e là ignorando il criterio di onestà intellettuale sopra segnalato, per malafede o imperizia: esse non possono pretendere attenuanti, anche perché le fonti non mancano, e qui ci limiteremo a qualche esempio, di volta in volta.

Giova ripetere una volta di più un tratto basilare di qualsiasi metafisica non-duale: dicendo che il Principio, o l’Assoluto, o Dio, o il Fondamento, o Brahman … è Uno, si afferma qualcosa che si impone intuitivamente e logicamente per la sua trasparenza, incontrovertibilità e semplicità.

Anche se i vari termini manifestano sfaccettature di significato un po’ diverse, essi presentano altresì una linea di continuità. Come potrebbe il Principio, o l’Assoluto etc. esser duplice? Due assoluti si limiterebbero a vicenda, per cui non potrebbero esser tali, per la contraddizione che non lo consente.

Di qui una qualche preferenza accordata al termine Uno per indicare la Realtà Assoluta, accanto ad altre espressioni che, per altri seri motivi, sono da sempre utilizzate in metafisica e in certe religioni (soprattutto nelle rispettive interpretazioni esoteriche).

In questo contesto, può comparire anche l’espressione non-dualità, per mettere tra l’altro in risalto che il Principio è per forza esente da dualità, dato che essa comporterebbe anche limitazione, il che non può essere nel caso dell’Assoluto.

La dualità si addice invece agli enti, i quali sono necessariamente caratterizzati da qualche aspetto limitativo che li distingue dagli altri.

L’Uno, cioè l’infinito non-duale

Ovviamente il Reale-Assoluto, essendo Uno per definizione, nulla può avere fuori di sé, altrimenti sarebbe limitato da una realtà ulteriore: perciò si dice che l’Uno è Incondizionato, senza secondo, o se si preferisce Infinito. Essendo tale, è per forza di cose onnicomprensivo. In un certo senso, solo l’Uno, cioè l’Infinito, è[2] , nulla potendovi essere in aggiunta, ed essendo tutto da sempre (eternamente) già incluso nell’Infinito, che altrimenti non sarebbe tale…

Ciò non comporta la nientificazione degli enti finiti e molteplici, come talvolta si crede: semplicemente, gli enti tutti, senza alcuna eccezione possibile, sono reali non in quanto separati ma in quanto partecipano dell’Infinito, che può quindi essere immaginato come una Dimora Ospitale che, essendo Infinita, accoglie da sempre tutti gli enti senza preclusioni di sorta.

Se l’Infinito fosse inospitale ed escludesse qualche ente, in quanto tale questi dimorerebbe altrove, ma allora ciò che si considera l’Infinito non potrebbe esserlo, anche qui per la contraddizione che non lo consente.

Quanto detto è più che sufficiente per intuire che la metafisica dell’Uno, cioè dell’Infinito, cioè della Non-Dualità[3] , lungi dall’avere quel carattere riduttivistico che alcuni hanno ad essa abusivamente rimproverato, per superficialità o altro, permette invece un pluralismo integrale[4] , proprio perché è la Parola di quella Casa Ospitale, che da sempre è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente[5].

Gli abitatori dell’infinito

Gli enti, umani e non, sono da sempre chiamati a raccolta nell’universale dimora dell’Infinito: è questa consapevolezza che si richiede anche all’uomo, affinché il suo abitare non pretenda di diventare invadente nei confronti dell’altro Ente, richiedendo impossibili privilegi nell’economia del tutto.

Antropocentrismo, Utilitarismo, Apparato tecnico-scientifico … sono alcune delle espressioni dell’arroganza umana, che vorrebbe imporre l’impossibile: vorrebbe cioè che la Dimora Ospitale dell’Infinito diventasse una Dimora Inospitale ad uso dell’uomo, e specialmente di certi uomini, quelli che, oggi, operano per conto dell’Apparato, essendone i funzionari.

In alternativa, ricorderemo che l’umiltà dell’abitatore ospitato e riconoscente trova invece una sublime esemplificazione nella metafisica dei Pellerossa, presso i quali è tradizionalmente molto vivo il sentimento dello “esser ospitati” nel mondo, il che spiega molto bene perché essi abbiano solo sfiorato la Terra, invece di calpestarla[6].

La natura dell’errore, cioè della violenza

Ecco la radice dell’errore, cioè di qualsiasi errore in quanto tale: l’inospitalità, l’arroganza. Essa si mostra quando un qualunque ente finito (si prenda il termine in un senso molto estensivo e variegato – anche un’ipotesi scientifica è un ente finito) pretende l’impossibile, cioè di farsi esso stesso Assoluto[7], volendo tenere solo o principalmente per sé la Dimora dell’Infinito, dimenticando che, nell’Infinito, qualsiasi ente è a casa propria, e non solo alcuni.

Da sempre, la metafisica, o se si preferisce la sophia perennis, è impegnata a denunciare la struttura fondamentale dell’errore, consistente nello scambiare il relativo con l’Assoluto, il finito con l’Infinito, l’Abitatore con la Dimora, la Parte con il Tutto…

Alcune immagini elaborate nelle scuole spirituali, o forse donate dagli dei (si sarebbe detto in altri tempi), per condurre gli umani erranti ed educarli all’Ospitalità, sono celebri e particolarmente suggestive: esse hanno contribuito ad orientare le civiltà del passato, in Occidente come in Oriente, conferendo ad esse misura e dignità, limitando la tracotanza della parte umana degli Abitatori dell’Infinito.

Occorre ammettere che nel mondo moderno e contemporaneo, tali insegnamenti vengono per lo più ignorati, se non derisi, e la supponenza della parte umana ha raggiunto livelli che un tempo erano impensabili: l’uomo dell’Apparato tecnico-scientifico e delle forze economiche dominanti pensa, anzi crede, di essere il padrone della Dimora dell’Infinito; crede che gli enti siano manipolabili a piacimento; crede di custodire la chiave che apre e chiude la porta della Dimora, facendovi entrare ed uscire gli enti, a comando; crede che tutto questo generi qualcosa di positivo, cui ha imposto dei nomi rassicuranti: Sviluppo, Progresso, P.N.L., Benessere, Felicità per il maggior numero …[8].

Molti di quei saperi che oggi portano il nome di Scienza in generale, ma che in realtà ne sono solo una componente (e non certo la migliore), sono espressione del sistema dominante, e in quanto tali sono finanziati, protetti, diffusi, imposti nelle scuole e nelle università, nella misura in cui sono funzionali ai progetti operativi della volontà di potenza che vuole padroneggiare la Dimora dell’Infinito; essi sono in contrasto con i saperi indipendenti, e non hanno più nulla in comune con i saperi di un tempo, per lo più espressione di quella saggezza non-duale, che insegnava a contemplare in silenzio l’Infinito e i suoi molteplici Abitatori; che ricordava che nella grande casa dell’Essere, c’è un posto per ogni Abitatore; che insegnava a mettere tra parentesi la presunzione umana[9], rammentando che l’uomo è solo uno degli Abitatori, e che non è lecito tentare di conculcare una prospettiva meramente umana.

Il carattere non-umano del contemplare.

Riassumendo: molti saperi che gli umani oggi valutano tali, sono in realtà interpretazioni funzionali ad una prospettiva parziale, per lo più antropocentrica, la quale, coscientemente o meno, opera come se il mondo esistesse in esclusiva per l’uomo stesso, e (ormai) per l’Apparato di cui è funzionario.

In tempi meno oscuri, si riteneva che il nome di Scienza dovesse spettare prima di tutto a quel conoscere disinteressato, esente da egoicità e utilitarismi, che come tale era quindi estraneo ad ogni forma di antropocentrismo e di attaccamento. Solo un conoscere purgato di tali elementi limitativi era degno del nome di Scienza, e Contemplazione era il termine utilizzato nella tradizione greco-latina per designare l’atto conoscitivo purificato, e quindi autentico, perché virtualmente capace di una prospettiva non meramente umana, perlopiù tramite una facoltà sovraindividuale designata nella stessa tradizione come nous o intelletto (il carattere “divino” del nous non indica nulla di misticoide e di misterioso, ma la qualità non meramente umana e non meramente individuale di tale facoltà).

La cultura moderna, invece, in nome di un acritico “hic homo intelligit“, deride noùs e contemplazione, di cui nulla sa (non promuovendone alcuna esperienza), ritenendo dogmaticamente che ogni posizione conoscitiva debba necessariamente esser solo umana, risultando ad essa impensabile il trascendimento dell’unico orizzonte alla sua portata. In questo modo, umanesimo, relativismo e tecnoscienza manipolatrice vengono assolutizzati; di conseguenza, la prospettiva unilaterale e ammorbante del mondo umano e dell’Apparato si arroga il diritto di predazione su tutto il resto, operando nel segno della violenza rispetto a tutti gli altri enti (e perfino all’interno del mondo umano).

Al contrario, l’intellezione almeno tendenzialmente pura e sovraindividuale[10] è il tentativo di guardare agli enti e all’Infinito non con l’occhio parziale e aggressivo di un particolare ente, che vede l’altro come asservito anticipatamente, ma con lo sguardo orientativamente imparziale e distaccato della sapienza non-umana, che cerca di vedere ogni cosa con equanimità rigorosa e per quanto può sub specie aeternitatis.

Più ci si avvicina a tale sguardo, più ci si allontana dalla prepotenza legata agli sguardi interessati, e subentra una dimensione pacificante.

Nel contemplare da tali altezze, non accessibili ai più, emerge la piccineria e la violenza più o meno mascherata dei criteri con cui gli umani solitamente valutano gli enti e gli eventi del mondo.

Il moralismo umanistico come violenza

Gli umani stimano bene o male gli eventi, valutandone il tornaconto o meno; anche le situazioni considerate più nobili spesso finiscono per tradire la presenza di un calcolo meschino e di una mentalità ristretta.

Schopenhauer e Nietzsche hanno avuto il merito di denunciare apertamente il carattere ipocrita e mistificatorio delle varie idee morali e dello stesso “principio di ragione”, che spesso cerca di fondare i sistemi morali che vanno per la maggiore.

Qualche esempio.

  • La morale razionale di Kant, che vieta di trattare l’uomo solo come mezzo, nello stesso tempo permette che tutti gli altri enti siano asserviti al mondo umano, giustificandone tutte le prevaricazioni in nome di una presunta superiorità della coscienza morale-razionale! In realtà, il tanto declamato rigorismo kantiano prevede una rigorosa e fastidiosa giustificazione delle prepotenze degli umani contro i non-umani. Da questo punto di vista, Kant ha fatto scuola: gli idealisti come Fichte e Hegel conservano questo aspetto sgradevole del Kantismo; la formula da essi preferita è quella della supremazia dello Spirito (leggasi mondo umano) sulla Natura, in nome del progresso della libertà del primo, della morale, dell’eticità, della ragione….
  • Il Marxismo (molto più di Marx) su questo punto, è stranamente allineato con i filosofi borghesi: l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive, prevede espressamente il crescente dominio sul mondo non-umano, il che è considerato acriticamente un fatto di per se stesso positivo, come tale apportatore di civiltà.

Si potrebbe rivisitare tutta la storia del pensiero moderno, per farne emergere la continuità di fondo, ben più forte delle eventuali differenze ideologico-politiche.

Solo le migliori correnti spirituali, espressioni della metafisica non dualistica, sono estranee a tali vedute anguste; in tempi abbastanza recenti, anche l’Ecologia Profonda ha dato dignitosi contributi, volti a ridimensionare l’invadente protagonismo degli umani, in una prospettiva radicalmente ecocentrica.

È auspicabile un possibile connubio, ormai, tra saggezza non-duale ed ecologia profonda, capace di aprire spazi di cultura, di civiltà, di modi di essere, non risucchiabili nella potenza dell’Apparato tecnico-scientifico e delle Forze Economiche che oggi condizionano e devastano il mondo.

Sistema chiuso e sistema aperto

Un pervicace luogo comune, diffuso negli ambienti antimetafisici, pretende che la metafisica sia essenzialmente un sistema di pensiero definito e chiuso, come tale responsabile di logiche oppressive ed autoritarie, che vietano qualsiasi apertura e qualsiasi pluralismo. La civiltà libera-democratica comporterebbe invece una società aperta, poiché basata sul rifiuto della metafisica, e sull’accettazione del razionalismo critico, della scienza, della democrazia … .

Tra i liberaldemocratici, K. Popper (che pure ha notevoli meriti in campo epistemologico) è uno dei maggiori sostenitori di questa tesi, la cui diffusione è pari all’infondatezza, dato che lo stesso Popper ha mostrato di non conoscere i termini più indispensabili del problema e di travisare perfino certi concetti essenziali (v. la nozione di Bene in Platone).

Abbiamo già detto che la metafisica si rivolge principalmente all’Infinito il quale, per la sua stessa natura, sfugge ad ogni definizione concettuale, poiché ogni definizione è un tentativo di delimitare ciò che, in questo caso, è al di là di ogni delimitazione[11].

Ne discende che nessun sistema concettuale può pretendere di essere una descrizione assoluta dell’Assoluto (cioè un Sistema chiuso)[12]: al contrario, anche le descrizioni più profonde ed elaborate dovranno necessariamente esser considerate delle descrizioni approssimative, capaci di indicare solo qualche aspetto della Realtà.

Di conseguenza, qualsiasi formulazione metafisica potrà esser accettata, purché accompagnata dalla consapevolezza dei suoi limiti intrinseci, consentendo uno spazio illimitato per altre possibili letture dell’Infinito, mai esaustive: tutto questo, se proprio si vuol conservare il termine “sistema”, costituisce un Sistema Aperto, ed è questo atteggiamento di Inesauribile Apertura a qualificare la metafisica in quanto tale, come hanno ripetuto in modo assai ridondante i Neoplatonici.

Il sistema chiuso, invece, le è strutturalmente estraneo, contrariamente a quanto avventatamente sostenuto da Popper, da troppa manualistica filosofica e da vari inesperti in materia[13].

Il linguaggio simbolico e l’infinito

Riguardo al linguaggio in generale, si possono svolgere le stesse considerazioni, poiché nessun termine linguistico può esser veramente “comprensivo” dell’Infinito.

Qualsiasi sistema linguistico-concettuale è sempre in ritardo strutturale, dato l’inesauribile traboccamento della Realtà totale, e tale divario non è mai colmabile.

Con questo, non si intende rifiutare il linguaggio concettuale: semplicemente, si prende atto dei limiti intrinseci che qualsiasi operazione linguistico-concettuale porta inevitabilmente con sé.

La prudenza nei confronti del linguaggio non sfocia in un oscuro misticismo, in fantasie irrazionalistiche: al contrario, permette di salvaguardare anche tale linguaggio, a patto di conoscerne i limiti, evitando le assolutizzazioni fuori posto e controproducenti, come quelle realizzate da Cartesio o da Hegel.

Non esistono idee chiare e distinte, nel senso di Cartesio, sostanzialmente corrispondenti alle cose; il linguaggio matematico non è affatto più chiaro e preciso di altri, e soprattutto non corrisponde meglio di altri alla natura del reale, come pretende gran parte della cultura moderna, di derivazione cartesiana e galileiana.

L’hegelismo, che ha il merito di avere ben compreso i difetti del razionalismo cartesiano, ha creduto vanamente di compensarli inventandosi la ragion dialettica, capace di una concettualizzazione dinamica esente dalle rigidità del concetto “astratto”, ed in grado quindi di esporre compiutamente l’Assoluto nella sua totalità, senza ripiegare nelle parzialità della ragione non-dialettica.

Come si può notare da questi cenni cursori, sono principalmente le filosofie moderne, “razionali” e “critiche”, ad esser talvolta dogmatiche, stante la loro pretesa di elaborare un linguaggio concettuale in grado di definire il Reale e di rinchiuderlo nei confini delle formulazioni cartesiane, hegeliane o altro.

Al polo opposto, altre correnti moderne, rifiutando tali insane dogmatizzazioni, eludono il problema rifiutandosi a priori di parlarne dato che perfino gli enti risulterebbero insondabili data l’opacità del mondo in cui viviamo.

La cultura moderna-contemporanea risulta marchiata da questi estremismi, che sono tali per eccesso (il linguaggio circoscrive l’Assoluto, il Reale, l’Ente) o per difetto (l’Assoluto non esiste, e se esiste, comunque sfugge totalmente … non resta, eventualmente, che la fede!).

Questa mancanza di equilibrio è un altro preoccupante “segno dei tempi”; in alternativa, una soluzione misurata è ben presente nelle varie espressioni della Sophia Perennis, là dove si dice che il linguaggio, non potendo circoscrivere l’Infinito che travalica ogni confinamento, può però alludere ad esso o indicarne taluni aspetti, così da esser d’aiuto quale sostegno per una intuizione dell’Infinito stesso.

Il linguaggio così inteso, invece di voler catturare, misurare e rinchiudere (l’Infinito, gli Enti), si propone come supporto che aiuta la visione intuitiva di ciò che prima non si lasciava nemmeno scorgere. Tale linguaggio, stante la funzione di cui sopra, appare dunque “disvelante”, nel senso che, togliendo il velo, lascia vedere qualcosa dell’Infinito; oppure, il che è lo stesso, appare come “apertura”, poiché apre (sostiene, favorisce) ulteriori possibilità di visione, prima precluse.

Gli antichi chiamavano mitico-simbolico questo linguaggio tipico di arcaiche saggezze, per distinguerlo da altre forme linguistiche; rimanendo in Occidente, Pitagora, Platone e i loro discepoli ci hanno lasciato le più belle testimonianze di questa pratica simbolica del linguaggio: i “Numeri” di Pitagora ed i Miti di Platone sono appunto Simboli che stimolano e sorreggono il lampo dell’intuizione[14], la cui luce arriva così ad irraggiarsi in contrade prima inesplorate e misteriose, per lo spirito dormiente.

È la cultura moderna ad esaltare, in una forma o nell’altra, il linguaggio concettuale, quale linguaggio catturante-misurante, teso a dominare “scientificamente” gli enti; l’Apparato tecnico-scientifico oggi predominante ha perfezionato questo uso imprigionante del linguaggio, negando qualsiasi dignità ad altre possibilità linguistiche.

La saggezza non duale, da sempre, lascia parlare anche un altro linguaggio, che invece di confinare e chiudere, dischiude e disvela, incoraggiando l’apertura della visione intellettuale oltre le precedenti limitazioni.

Il “mito della caverna” di Platone conserva un’importanza perenne poiché esemplifica in modo eccellente le tappe principali percorse dalla coscienza nel corso della sua espansione (apertura) verso l’Infinito, tappe che costituiscono le stazioni principali di un processo di decondizionamento e di liberazione.

Oggi più che mai, urge il ritorno della saggezza non duale e con essa della parola disvelante e non catturante, capace di dischiudere nuovi spazi di libertà, in un mondo ostile alla pluralità, banalizzato dall’omologazione planetaria e asfissiato dalla clonazione frenetica ed unilaterale delle parole calcolanti-catturanti della peggiore tecnoscienza, che vorrebbe escludere tutte le altre: è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, ed è un fenomeno particolarmente inquietante.


[1] Il termine “monismo” si presta ad equivoci che è opportuno evitare, perché effettivamente può far pensare ad un sistema riduttivistico; per questo motivo, è di gran lunga preferibile l’espressione “non-dualità”, che appare maggiormente adatta allo scopo. R. Guénon ha fatto il punto con chiarezza: «Si può dire che il monismo è caratterizzato da questo, che, non ammettendo l’irriducibilità assoluta e volendo andare oltre l’opposizione apparente, crede di poterci riuscire riducendo uno dei due termini all’altro; se, in particolare, si tratta dell’opposizione spirito-materia, si avrà da una parte il monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materia a spirito, e dall’altra il monismo materialista, che pretende al contrario di ridurre lo spirito a materia […] gli accade quasi fatalmente […] di negare la opposizione […] in realtà le due opposte soluzioni moniste non sono che le due facce d’una doppia soluzione, in sé al tutto insufficiente. È a questo punto che un’altra soluzione deve intervenire. […] Designeremo questa dottrina coll’appellativo di non[1]dualismo, o meglio ancora come la dottrina della non-dualità, volendo tradurre nel modo più esatto possibile il termine sanscrito adwaita-vada.» (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pagg. 128-129).

[2] Proprio per questo T. Burckhardt scrive che «il metodo sufico consiste nell’arte di mantenere l’anima aperta all’influsso dell’Infinito» (Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Ed. Mediterranee, 1987, pag. 36). Aggiungeremo questa riflessione complementare di F. Schuon: «Una civiltà è integrale e sana in quanto poggia sulla religione invisibile o soggiacente, la religio perennis; questo significa che essa lo è in quanto le sue espressioni o le sue forme lasciano trasparire l’Aformale.» (Sguardi sui mondi antichi, Ed. Mediterranee, 1996, pag. 143).

[3] «Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità assoluta, il non-dualismo differisce da esso profondamente perché non pretende affatto che uno dei due termini sia riducibile all’altro così semplicemente; esso li considera l’uno e l’altro simultaneamente nell’unità di un principio comune, di carattere più universale, nel quale essi sono entrambi contenuti non più come opposti, ma quali complementari […] il non-dualismo è così l’unico tipo di dottrina che sia consono all’universalità della metafisica». (R. Guénon, Introd. gener. allo studio … cit., pagg. 129-130).

[4] L’Infinito implica un pluralismo integrale, anche perché «ogni conoscenza, anche se relativa, è sempre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema» (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pag. 142). Inoltre, «è impossibile che vi sia una sola dottrina che renda conto dell’Assoluto e delle relazioni tra la contingenza e l’Assoluto» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, cit., pag. 138).

[5] Il simbolismo del Soffio, ben presente nella Sophia Perennis, si riferisce proprio al contenuto appena individuato. Seguendo l’esoterismo islamico, tutti gli enti essendo tali, sono infatti necessariamente sorretti dal Soffio di compassione (An-Nafas ar-rahmani), o sono espressioni di tale soffio onnipervadente. Non a caso, nel Corano Allah è detto anche «compassionevole». Il soffio infinito-compassionevole, essendo tale, non può che accogliere in sé tutti gli esseri senza eccezione. Non diversamente, in Brhadaranyaka Upanishad è detto che «il Soffio vitale è simile alla formica, alla mosca, all’elefante, al trimundio, a tutto l’universo […] sul Soffio infatti tutto l’universo si sostiene» (1.III, 22- 23). Ed inoltre, sempre in riferimento al Soffio universale: «Conosci quel filo che tien legati insieme questo mondo, il mondo di là e tutte le creature? […] Chi conosce questo filo e questo interno reggitore, costui conosce il Brahman, i mondi, gli dei, i Veda, le creature, costui conosce l’Atman, conosce ogni cosa […] Il soffio è il filo che tiene insieme legati questo mondo, quell’altro e tutte le creature» (3.VII, l-2). Guénon ha così commentato: «Questo raggio luminoso che lega tra loro tutti gli stati è anche simbolicamente rappresentato come il soffio in virtù del quale essi sussistono, il che, si osserverà, è strettamente conforme al significato etimologico dei termini designanti lo spirito (si tratti del latino spiritus o del greco pneuma); e così, come abbiamo spiegato in altre occasioni, egli è propriamente il sutratma; ciò equivale anche a dire che egli in realtà è Atma stesso» (Spirito e intelletto, in Melanges, I, Venezia 1978). Il simbolismo indù del sutratma compendia in modo essenziale i contenuti di cui sopra, dato che «Atma, come un filo (sutra), penetra e lega fra di loro tutti i mondi e nel contempo è anche il soffio che […] li sostiene e li fa sussistere» (R. Guénon, Simboli della scienza sacra, LXI). Lo stesso dicasi per il simbolismo del sarva-prana, cioè del soffio totale, che ha la stessa funzione rispetto alla molteplicità degli enti e degli stati di Esistenza. Questa la sintesi di Shankara a proposito del sutratma: «forma un legame tra i vari corpi sottili, e li permea e passa tra tutti loro come un filo su cui è infilato un filare di gemme. È anche conosciuto come Prana poiché in forma di respiro vitale anima e sostiene tutta la vita.» (La quintessenza del vedanta, 389).

[6] La suggestiva immagine è di S. H. Nasr, Uomo e natura, Rusconi ed.

[7] «I bisogni vitali e quindi il diritto alla vita rimangono i medesimi in ogni dove, si tratti d’uomini o d’insetti. Uno degli errori più perniciosi è ritenere che la collettività umana da un lato e il benessere della stessa dall’altro rappresentino un valore assoluto e pertanto un fine in sè.» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, pag. 4).

[8] «Questi due idoli (scienza e progresso) son serviti tanto per mortificare quelle minoranze dissidenti che malgrado tutto sono esistite negli ultimi secoli […] e che vorrebbero sottrarsi all’agitazione moderna, alla pazzia della velocità […] ; tanto -il che è molto più significativo- per costringere la maggioranza dell’umanità, grazie ad una presunta superiorità ed in barba a qualsiasi principio egualitario, e con la forza brutale delle armi, ad asservirsi allo spirito dì conquista e agli interessi economici occidentali. Quel che la razionalità dominante in Europa e in America non tollera assolutamente è che degli uomini preferiscano lavorare di meno (com’è tipico in qualsiasi civiltà tradizionale e in generale presso i popoli antichi) e contentarsi di poco per vivere, secondo una misura che gli deriva dall’intuizione dell’essenziale. Siffatta intolleranza deriva direttamente dalla centralità della quantità e dalla negazione del non-sensibile in quanto irreale, con le note conseguenze dell’agitazione ossessiva e della produzione materiale come unico valore, all’estremo opposto della contemplazione.» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno in R. Guenon, Pontecorboli Ed., 1996, pagg. 186-187).

[9] Tutte le scuole spirituali tradizionali, non a caso, hanno come comune denominatore il trascendimento o per lo meno il ridimensionamento di quell’accidente denominato ego, il che è stato espresso secondo formulazioni talvolta abbastanza diverse, e però convergenti nel significato di fondo. Il trattato breve di Ibn Arabi, intitolato Il libro dell’estinzione nella contemplazione, è dedicato proprio alla negazione della egoicità, e più in generale di tutto ciò che risulta contingente, poiché «la visione di Lui non ha realmente luogo se non attraverso il venir meno di te stesso» (SE, 1996, pag. 34). Drg drsya viveka è un testo classico dell’Advaita Vedanta, per lo più attribuito a Shankara. Tratta della Discriminazione (viveka) tra drg (osservatore, Sè, …) e drsya (spettacolo, osservato, non-Sè, …), tra cui rientra anche l’ego come componente di ciò che non è propriamente Sé. Perciò anche l’ego appartiene a ciò che è meramente “illusorio-relativo” rispetto all’assolutezza onnipervadente dell’Infinito (Sé, Atman, Brahman nirguna, …). Per apprezzare una volta di più la portata veramente universale, quindi non egoica e non-antropocentrica del Vedanta, possiamo meditare sul Sutra 21, in cui le qualità più universali dell’Infinito vengono attribuite anche ai mondi non-umani, dato che «il Puro Essere (Sat), la Pura Coscienza (Cit) e la Pura Beatitudine (Ananda) sono comuni […] all’etere, all’aria, al fuoco, all’acqua, alla terra […] agli dei, agli animali». Una riflessione consimile si può esercitare a proposito del Platonismo, dato il carattere impersonale del Nous. In aggìunta, ci limiteremo a segnalare che Plotino attribuiva lo stato contemplativo anche agli esseri non-umani (v. Enneadi, III, B, I). Ricorderemo anche che secondo Avicenna e molti altri medievali, l’atto conoscitivo superiore non ha mai natura meramente individuale, ma dipende dall’Intelletto Agente che ha natura sovraindividuale (v. Libro delle direttive, parte II, gruppo VII).

[10] «L’intelletto trascendente, per cogliere direttamente i principi universali, deve esso stesso essere d’ordine universale; non è quindi una facoltà individuale. […] La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma ciò che sta oltre la ragione è veramente non-umano e proprio per questo rende possibile la conoscenza metafìsica, che, bisogna ripeterlo ancora, non è affatto una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a tale conoscenza, ma è in quanto questo essere, che è umano in uno dei suoi stati, è in pari tempo altra cosa […] se l’individuo costituisse un sistema chiuso, al modo della monade di Leibnitz, non vi sarebbe metafisica possibile.» (R. Guénon, La metafisica orientale, ora in Studi sull’ induismo, Basaia, 1983, pag.117). A proposito dell’ostilità della modernità per la contemplazione e l’intuizione intellettuale, merita di esser richiamata questa osservazione di J. Pieper: «La radice filosofica moderna di questo disprezzo del contemplare nella quiete, e di questo culto del lavoro, sta nella negazione dell’attività intuitiva dell’intelletto umano, la cui origine è kantiana» (La verità delle cose, Massimo ed., pag. 17).

[11] Proprio per questo Shankara, parlando di Brahman, sentenzia che è «di natura infinita, non soggetto a modificazioni, incomprensibile per mezzo del ragionamento […] trascende ogni definizione verbale» (La quintessenza del vedanta, 761); ed anche: «rimane quella sola e pura Realtà, che è al di là delle categorie mentali» (Aparokshanubhuti-Autorealizzazione, 136).

[12] Ha scritto bene G. Reale: «la metafisica riguarda la problematica dell’assoluto, ma non è, e non può essere, conoscenza assoluta dell’assoluto, poiché rimane dinamicamente sempre aperta. Ma è proprio di questa conoscenza e di questa problematica dell’intero che l’uomo non può fare a meno nel processo conoscitivo in generale.» (Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Cortina ed., 1995, pag. 47).

[13] Contro la valutazione popperiana, vi sono motivi per sostenere che è proprio il modello di razionalità scientifica oggi preponderante (la “scienza normale” nel senso di T. Kuhn) a delineare un sistema chiuso. «Ma in che cosa consiste la razionalità scientifica? Il Moderno si presenta innanzitutto come spirito di negazione. La forma della negazione è il sistema, che nel porsi come concezione chiusa e totalizzante, nega le illimitate possibilità di concezione inerenti una metafisica tradizionale e riduce il reale ai suoi schemi ermeneutici, vale a dire delinea un immagine del mondo quale appare necessariamente dati certi presupposti […] per poi gabellare quell’immagine come il modo vero e oggettivo in cui stanno le cose. […] Kant e Comte incarnano per Guénon più di altri lo spirito di negazione di cui sopra» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno, pag.154). Abbiamo già rimarcato che la mancanza di Universalità e di pluralismo appartiene al sistema chiuso, il quale è tale perché vorrebbe nientificare tutto ciò che non rientra nei confini da esso stesso predisegnati. In questo senso, le cosiddette filosofie critiche moderne, nonostante le loro pretese e, talvolta, le buone intenzioni, stanno dalla parte del sistema chiuso, in quanto volontà di negare, di volta in volta, quanto non è riducibile alla ragion matematica (Galilei, Cartesio, Hobbes …), all’intelletto discorsivo e alla ragion pura (Kant), alla ragion dialettica (Hegel), al mero empirismo fattuale (Positivismo, Neopositivismo). Il tratto comune e veramente inquietante è la negazione dell’intuizione intellettuale e della contemplazione, con la conseguente atrofizzazione dell’intelligenza, per cui Schuon può scrivere: «Con Voltaire, Rousseau e Kant, la carenza d’intelligenza borghese (o vaishya come direbbero gli indù) diventa dottrina e si insedia definitivamente nel pensiero europeo, dando origine […] allo scientismo, all’industria e alla cultura quantitativa. L’ipertrofia mentale dell’uomo colto supplisce ormai all’assenza penetrativa intellettuale; il senso dell’assoluto e del principiale è sommerso da un empirismo mediocre. […] Alcuni ci rimprovereranno forse di mancare di riguardo, ma vorremmo proprio sapere dove sono i riguardi dei filosofi che stroncano senza vergogna interi millenni di sapienza» (Le stazioni della saggezza, Mediterranee , pag.20).

[14] Ovviamente, anche i Simboli comportano qualche imperfezione rispetto ai contenuti cui alludono; ciò nonostante costituiscono, come si è detto, dei sostegni indispensabili e potenti per avvicinarsi alle verità che essi in qualche modo esprimono. Schuon ha formulato con insuperabile concisione questo duplice aspetto del simbolo, dato che « visto dall’alto, il simbolo è oscurità, ma visto dal basso è luce» (Le stazioni della saggezza, pag. 31).

Laureato in Filosofia delle scienze, fondatore dell’Associazione Eco-Filosofica, animatore del sito filosofiatv.org, scrittore e divulgatore sul tema della decrescita. I suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente. Autore del libro: ◾Decrescita – Idee per una civiltà post-sviluppista [di Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel], Sismondi Editore, dicembre 2009

Il Discepolo e l’Io

Il giovane spinto dalla propria vocazione a iscriversi alla facoltà di medicina non lo fa perché ha una colica e spera con questo atto di eliminarla. I suoi moventi sono più intelligenti e più alti e la sua visione più ampia, anche se, per il momento, solo nel superconscio.

Possiamo dire che chi frequenta medicina per vocazione por­ta a scuola il futuro medico in lui, e non il piccolo se stesso maga­ri sofferente di coliche e pieno di problemi e istanze propri della sua giovane età.

Se un operaio avverte la necessità di una alta specializzazione cercherà di conseguirla. Mettiamo che si tratti di una specializza­zione propria dei dirigenti del suo settore. Quell’operaio, con enorme sacrificio — come di solito accade — andrà là dove la può ottenere, ma non porterà con sé i suoi piccoli problemi di piccolo operaio. A chi gli insegnerà il rapporto energia-lavoro-politica come interazione multinazionale, egli non farà certo domande sul modo di comportarsi col capoturno che non ha simpatia per lui e gli infligge multe ingiuste. È suo interesse conoscere quei problemi nuovi per i quali si sente portato, quelli appunto dei dirigenti in un contesto internazionale o mondiale. Egli ha i suoi problemi personali che possono essere anche gra­vissimi. Ma ciò che gli interessa è specializzarsi, elevarsi, per risolvere da un livello superiore i problemi di intere categorie. Occupandosi attivamente dei problemi del mondo più ampio nel quale vuole entrare, egli vede in una prospettiva diversa, e perfino dimentica, i suoi problemi personali.

Anche qui vediamo allora che chi frequenta quel corso di alta specializzazione non è l’operaio vessato da un meschino capo­turno, ma il futuro dirigente che potrà domani, fra altre cose, essere in grado di migliorare il rapporto capoturno-operaio in generale, in ogni tipo di azienda.

Una semplice donna di casa, provveduto ormai a figli e nipo­ti, si trova con disponibilità di tempo sufficiente a qualche mode­sta possibilità. Decide di appagare finalmente un suo profondo interesse, poniamo, per l’archeologia, rimasto sempre inappagato.

La donna, che ha dovuto attendere l’età matura per occuparsi finalmente di ciò che veramente la interessa, non si aspetterà certo che il suo docente la conforti per il dolore della sua vedo­vanza, o per disamore dei figli, né andrà a piangere sulla sua spalla perché la nuora non la capisce. A lui chiederà la conoscenza nel campo archeologico. Non è una vedova, è madre una suocera piangente che si iscrive all’università, è l’archeologa che fa coraggiosamente quanto occorre per svelarsi in quella donna.

Abbiamo fatto tre esempi non straordinari, diversi fra loro, e pure con un unico denominatore: la sete di conoscenza. E più o meno con una caratteristica comune: il distacco dalla propria condizione contingente per ottenere l’accesso a una condizione superiore.

In nessuno dei tre casi è il piccolo io di oggi che fa, ma è la nuova entità di domani che fa fare, che preme per venire in luce. Non abbiamo uno studentino, un operaio, una donna di casa, ma abbiamo in realtà un medico, un dirigente, un’archeologa, che cominciano a togliere dall’entità compiuta di domani le sovra­strutture che oggi la imprigionano.

Si tratta di individui ancora immersi nel mondo delle forme e dei nomi. Individui che possono essere ancora molto lontani da un risveglio spirituale, che nemmeno conoscono ancora l’esisten­za di un Sentiero. E pure da questi esempi possiamo e dobbiamo ricavare un ammaestramento.

Iniziando la nostra vita spirituale dobbiamo individuare quel­lo stesso schema e seguirlo coscientemente. Lo studente, l’operaio, la donna, possono non averne coscienza: a noi non è permesso. Noi dobbiamo conoscere ciò che facciamo, sapere qual è in noi l’Entità di domani che preme per venire in luce, e su quell’Entità tenere fisso lo sguardo senza permettere al piccolo io di oggi di mettervisi davanti. Individuare il campo dell’io e mantenerlo ben distinto dal campo del Sé.

La nota fondamentale che i tre esempi hanno in comune è il profondo, vitale interesse per la nuova attività.

Per quelli di noi in cui questo interesse vitale manca, o non è vitale, o che sono spinti solo da curiosità, da ricerca della sen­sazione, da nuove dimensioni ove far spaziare l’io, il discorso potrebbe anche fermarsi qui. Non vi può essere progresso là dove non vi è sete di progresso, volontà di progresso, necessità impre­scindibile di progresso, sulla base della conoscenza. Quanto all’io, vedremo in seguito come non sia possibile la sua ammissione in questo recinto.

Se l’interesse vitale c’è, allora è possibile cercare di capire le regole alle quali occorre uniformarsi e, avendole capite, impegnarsi ad applicarle. Questo non significa assumere qualcosa nei confronti di qualcuno, ma mettersi al lavoro, e ora vedremo come.

Quando c’è un interesse vitale, una necessità vitale di cono­scenza — si tratti di qualunque tipo di yoga o di metafisica realizzativa — non siamo noi, i noi di oggi, a volervisi accostare. Non è l’ingegnere, l’impiegato, il professore, la sarta, non è l’uomo o la donna in noi che vuol apprendere, conoscere, fare; ma è il Realizzato di domani che preme in noi per essere svelato. Svelato, lo sappiamo, significa liberato dai veli, dalle coperture, dalle sovra­strutture che lo ricoprono, e l’Insegnamento ci conduce passo pas­so in questa effettiva, reale opera di svelamento.

Quindi, chi cerca l’Insegnamento non sono io, piccolo sé pie­no di complessi, di incompiutezze, di disarmonia: è il Discepolo in me, che lo cerca. Allora occorre aver ben chiaro questo: alle lezio­ni, alle conversazioni, all’ashram, ai vari Centri, allo studio co­munque avvenga, ci porto soltanto il Discepolo, l’io lo lascio a casa e lo metto fuori della porta, almeno momentaneamente.

Prima di accedere all’Insegnamento, noi non sappiamo chi siamo né dove siamo. Oggi siamo dolore per qualcuno o per qualcosa, domani siamo avversione o dolore per quello stesso oggetto, ieri eravamo solo un grande mal di denti o di qualche altra nostra parte. Siamo, volta a volta, insoddisfazione, allegria, attesa, dolore, dubbio, paura. Ma Io, IO scintilla divina, quale di queste cose sono? Ed è possibile che IO sia soltanto, una volta dopo l’altra, ognuna di queste cose?

Posso arrivare a capire che non è possibile, forse, ma più in là non so andare. Non so tirarmene fuori. Intanto soffro. Sento che IO significa ben altro… ma dove è IO? Come faccio a conoscer­mi, a trovarmi? E chi è che deve conoscermi, trovarmi? Se sono io, allora devo conoscere e trovare… chi? Che cosa sono, dove sono, chi sono, IO?

Queste domande possono rimanere senza risposta per un tempo più o meno lungo anche per chi si è già accostato allo Yoga, a qualunque tipo di Yoga, se non ha l’atteggiamento giusto. Anzi, la situazione sembra addirittura complicarsi perché domande nuo­ve si aggiungono alle vecchie, sorgono dubbi, si è trascinati in opposte direzioni e presi dall’insoddisfazione.

L’insoddisfazione è inevitabile quando ci accostiamo all’Inse­gnamento con un errore di prospettiva, cercando solo il piccolo rimedio ai propri mali, o un orecchio compiacente e comprensivo in cui riversare i nostri guai privati, o magari una specie di spec­chio magico a cui affidare la nostra immagine per vedercela ri­mandare circonfusa di quell’aureola che siamo convinti di ave­re… solo che non riusciamo a vederla. Dal punto di vista metafisi­co realizzativo, la situazione non è diversa quando all’egoismo individuale sostituiamo un egoismo più ampio, alle lamentele personali si sostituiscono quelle per l’ingiustizia sociale, ad esem­pio, o per la violenza dilagante, cose sulle quali il nostro piccolo io ama pontificare, sdegnarsi, discutere, ascoltandosi, parlare compiaciuto.

Tutto ciò non è da condannare. Tutti siamo o siamo stati così. È solo da sostituire con una nuova prospettiva.

Per quanto dall’Insegnamento siano escluse le nozioni, pure vi sono alcune nozioni che inizialmente è bene apprendere e com­prendere. Lo Yoga è Unità e pure occorre incominciare con una divisione — che in seguito è destinata a scomparire. È la divi­sione fra l’io (l’io empirico, il sentimento dell’io o ahamkara) e il Sé. È una divisione da praticare realmente e rigorosamente, se si vuol vedere la strada su cui si cammina.

I nostri problemi, le nostre sofferenze, i nostri mali, appar­tengono tutti indistintamente all’io. Il Sé non ha nessun problema, nessuna sofferenza, nessuna malattia.

Non parliamo ovviamente dei nostri vizi. Ma anche le nostre virtù, allo stato energetico attuale, sono tutte dell’io. Il Sé non ha virtù, in questo senso.

La nostra sete di ricerca, di conoscenza, di pace, di compiu­tezza, e di qualsiasi altro stato, è sempre indistintamente tutta dell’io. Il Sé non ha sete e non ha fame. È compiutezza. È pace. È conoscenza.

Con questo metro — dalla misura che può sembrare forse un po’ abbondante, ma non lo è — è possibile fare una prima indi­spensabile discriminazione, che a questo punto è ancora sempli­cemente intellettiva, ma è già tanto che ci si arrivi, anche solo in­tellettualmente. Possiamo usarla, per intanto, come rimedio di emergenza, una specie di pronto soccorso spirituale. Oppure come una specie di carta stradale, tanto per sapere dove ci tro­viamo. Se il dubbio ci afferra, se brancoliamo nell’ignoranza e siamo momentaneamente incapaci di comprendere un dato, se l’io ci sopraffà, rapportiamoci per un momento a questa discri­minazione integrale, quanto basta per cambiare la nostra pro­spettiva del momento e permetterci di attendere serenamente, senza essere divorati da debbi, ansie e paure, il momento in cui potremo comprendere dove.

Si può dire che tra il sentimento dell’io (ahamkara) e il Sé c’è un anello di congiunzione: il Discepolo,

Il Discepolo è un tempo, uno stato, un lavoro. Il Discepolo è il Sé ancora velato da tutte le sue coperture.

È il Discepolo in noi che cerca l’Insegnamento.

È l’io distintivo quello che si oppone, e cerca tutte le scuse per ostacolarlo. Quando si dice scuse, si intende ogni genere di cose, l’io è capace di tutto, finche di rendersi malato o di apparire santo, per impedire al Discepolo l’apprendimento.

Le armi più subdole e più frequentemente usate dall’io sono quelle mentali. L’io vuol discutere, ho critica, l’io protesta, l’io è intelligente e non approva ciò che ascolta perché ha un’opinione diversa, l’io sa dì sapere molte cose e si mette in prima fila per farlo sapere agli altri, per ribattere, per contrapporsi.

Questo noi non dobbiamo permettere, e cerchiamo di capire bene perché.

Tra l’io e il Discepolo in noi c’è un gradino mancante — come del resto ce n’è uno tra il Discepolo e il Sé.

Al piano dell’Insegnamento l’io non ha accesso. Vi può accede­re soltanto il Discepolo, perché l’Insegnamento è offerto e va com­preso in termini di Energie, e non di parole o di formule.

L’io quindi deve rimanere in disparte, non immischiarsi nelle cose dell’Insegnamento. Il Discepolo apprenderà dall’Istruttore, assimilerà l’Insegnamento energeticamente, e provvederà a tra­smettere all’io quelle direttive, quei consigli, quella guida che l’io dovrà seguire.

Di solito questo non può avvenire, in principio, con la neces­saria efficacia e col giusto ritmo, per quanto volendo si potrebbe fare benissimo. Se, tornato a casa, aggredito dai problemi e dalle istanze e dalle proteste dell’io, ho la capacità e la forza di con­tinuare ad essere il Discepolo, di continuare a far risuonare in me l’Insegnamento avuto, di mantenermi aperto verso l’alto, con calma fiducia, automaticamente i problemi dell’io si risolvono. Pur mancando il gradino, il Discepolo, in queste condizioni, ha il modo di comunicare con l’io.

Se non c’è subito questo giusto atteggiamento, ci sarà un tempo più o meno lungo di interregno, diciamo, una specie dì « terra di nessuno » — in apparenza — in cui non si riesce ancora a far discendere fino all’io, fino alla mente concreta, ciò che il Discepolo ha appreso.

Occorre aver fiducia e stabilire uno stato di vera calma. La difficoltà è solo dell’io, ricordiamolo, e proviene sempre da un nostro errato atteggiamento interiore.

Una grave difficoltà che può sorgere all’inizio, quando non è chiaro il significato di individualità, è lo sgomento che ci assale quando veniamo informati che la dobbiamo uccidere. Possiamo trovarci ad affrontare momenti difficili e penosi: io devo uccide­re la mia individualità? Devo uccidere la mia mente? La mia intelligenza, il mio intelletto, il bene più prezioso dell’uomo? Devo forse ridurmi allo stato di deficiente mentale?

Non comprendiamo, perché non siamo andati oltre la lettera delle parole, e d’altra parte sentiamo la nota della verità in quel comandamento, e questo ci fa paura. Siamo spaventati, ma convin­ti. Avviene cosi che talvolta, dopo tormentose alternative, cadiamo in una passiva rassegnazione e, sentendoci agnelli condotti al sa­crificio, dilaniati da sentimenti contrastanti, acconsentiamo —senza nemmeno saper bene a che cosa. Incomincia così un lungo periodo di lotte estenuanti su molti fronti, compreso quello del­l’insegnamento a cui — inconsciamente — resistiamo con tutte le nostre forze.

È bene cercare di evitare questo drammatico errore, che deriva solo da mancanza di giusta comprensione. Ricorriamo per­ciò a una rappresentazione immaginativa della nostra situazione interiore.

L’individualità è stato detto, è la regione, diciamo così, dalla quale Dio si è ritirato per permettere all’uomo-io di esserne il re. In virtù di tale mandato, l’uomo doveva governarsi fino al gior­no in cui il vero Governatore avesse ripreso le redini: ed è questo in sostanza che avviene quando ci accostiamo al Sentiero.

Per tutto il tempo in cui il governo gli è rimasto affidato, l’uomo ha fatto in questa regione ciò che ha potuto, e più spesso ciò che ha voluto.

Dentro di lui era rimasto sempre il Governatore, ma inattivo. Solo un filo sottile Lo legava all’uomo, e tramite quel filo l’uomo attingeva da Lui l’energia divina per la sua vita e le sue imprese.

L’uomo è stato grande nei secoli, sia nel bene che nel male. Facendo il male, ha portato quell’energia divina a vibrazioni molto basse e dense, ricoprendo con sempre nuove coperture il Dor­mente.

Facendo il bene, ha cercato di usare meglio quell’Energia, ma il Sé era già pesantemente velato, e all’uomo è stato facile dimenticarsene del tutto: si è convinto di essere lui la divinità, di essere lui il buono, il giusto, il valoroso, il sapiente. Ha continuato ad attingere a quell’Energia, ma ormai pieno di sé si è convinto di esserne lui la fonte, il creatore, il produttore. Ha nutrito, incensato, ingigantito il proprio io al punto che esso è diventato la copertura maggiore, la sovrapposizione più pesante di Quello.

Sia collettivamente che individualmente, ci siamo creati una individualità artificiale, parassita, basata sull’io che si pone davanti a Quello e, ignorandolo, dice: io ho lavorato, io ho com­battuto, io ho scoperto, io ho guarito, io ho creato.

Accostarsi al Sentiero significa accingersi a percorrere a ritroso il cammino fatto nell’errore, togliendo man mano ogni copertura che nel passato abbiamo apposto al Sé – o Atman. Ridimensionando quella individualità parassita e usurpatrice.

Retroce­dendo sempre, sempre togliendo sovrastrutture come si tolgono le incrostazioni di terra da un prezioso oggetto di scavo, sempre svelando, fino a riacquistare la nostra dimensione di luce.

L’opera di smantellamento, di eliminazione delle sovrastrutture, va fatta appunto sulla individualità parassita.

Quando pensiamo: io sono buono, io sono giusto, io sono intelligente, io sono generoso, siamo nella individualità.

Quando pensiamo o diciamo: io voglio farmi una posizio­ne, io voglio essere ricco, io voglio essere rispettato, io non voglio sottomettermi, io non accetto consigli, io sono in grado di dare consigli, io voglio questo, io non voglio quello, siamo nell’individualità.

Quando cerchiamo di raggiungere uno scopo, di compiere bei gesti, di ottenere un successo o l’approvazione altrui; quan­do abbiamo delle reazioni umane di fronte a un’accusa, a una ingiustizia, a un’offesa; quando ci ribelliamo al male, quando desideriamo il bene e la pace, per strano che possa sembrare a prima vista, siamo nella individualità. Non serve continuare perché si può dire, in sintesi, che, qualunque cosa facciamo (o non facciamo), siamo nell’individualità, per il semplice fatto che è compiuta (o non compiuta) dall’io, quindi con un impie­go errato di quella Energia al cui libero fluire opponiamo le barriere dell’io.

Naturalmente, non è che dobbiamo rinunciare a tutte que­ste cose. Anche se per il momento può sembrare un paradosso, occorre dire che anzi dobbiamo proprio pervenire a poterle compiere tutte, se ciò serve al Sé, ma da padroni, non da vit­time delle circostanze e degli eventi. Dobbiamo cioè pervenire a quello stato in cui non siamo più vincolati dalle azioni, indifferentemente, nostre né altrui; in cui possiamo agire o non agire, rimanendo in un perfetto equilibrio vibratorio.

Molte volte tutto questo non è compreso, agli inizi. Anche il termine « uccidere » può essere erroneamente interpretato, causando perplessità. Ma esso significa soltanto prendere co­scienza della realtà. Mettersi dal punto di vista del Sé. Acqui­stare la giusta prospettiva, compiendo il necessario lavoro sul­l’aspetto coscienza.

Abbiamo allora un io empirico, che si è creduto Dio per tan­to tempo; e un Sé.

Abbiamo una individualità parassitaria, che significa uso sbagliato delle Energie superiori, e si applica al particolare, e una coscienza universale. Uscendo dall’individualità, non si rimane senza « personalità » come talvolta si teme, sbagliando anche nel termine; ma semplicemente, man mano che usciamo dal partico­lare, ci trasferiamo nell’universale. Quando l’opera sarà compiu­ta, non vi sarà più alcuna divisione tra il Sé e il suo strumento.

Abbiamo ancora una mente concreta, analitica (manas) e una mente sintetica, intuitiva (buddhi), alla quale, con la nozione, ci fermeremo perché, quando il Discepolo arriva a questo punto, non ha più bisogno di questo tipo di spiegazioni, in quanto domi­na ormai il suo campo d’azione, sa per esperienza diretta, conosce.

Nessuno può accostarsi allo yoga o alla metafisica con intento realizzativo se già non è desto in lui il Discepolo.

Tra il Discepolo che si rivela e l’io, generalmente, non c’è co­munione, ma c’è contrapposizione, conflitto. Il Discepolo attira e sollecita in una direzione, l’io resiste e trascina nella direzione opposta.

Ognuno di noi deve cercare di conciliare per proprio conto proprio queste due posizioni. Non, beninteso, con compromessi, né con repressioni; ma operando la prima discriminazione effettiva: quello che vuol procedere è il Discepolo in me; questo che si oppone, è l’io.

E poi, intervenendo attivamente con una decisione: quello che voglio seguire, è il Discepolo; quindi l’io devo tenerlo, alme­no per il tempo dell’insegnamento o dello studio, fuori da tutto questo.

E subito dopo, stabilendo un programma, il Discepolo avrà l’Insegnamento che gli aspetta, e un po’ alla volta imparerà a educare, guidare, trasformare l’io.

Se solo comprendessimo chiaramente questo atteggiamento, se lo potessimo comprendere e accettare anche razionalmente, come accettiamo il processo implicito in una equazione o in una formula, non ci sarebbe nessun dramma, nessun conflitto, nes­suna « uccisione ». Ma solo un progressivo e sereno adattamento dinamico e creativo ai nuovi orizzonti che l’Insegnamento può aprirci uno dopo l’altro, in veloce successione.

Se sappiamo compiere questi primi atti chiarificatori nella nostra coscienza, il Discepolo sarà libero. Non avrà, appeso al collo, l’io che lo intralcia e lo soffoca. Egli dovrà apprendere molte cose, compiere molto lavoro, ma con strumenti ben diversi da quelli fisici dell’io.

Le parole saranno per il Discepolo il primo trabocchetto da superare. Nell’Insegnamento le parole sono soltanto prete­sti, supporti per il trasporto di energie. Non hanno più il signi­ficato che conosciamo, ma hanno significati di sintesi e contenuto di Energie che dovremo cominciare a conoscere. Parole e frasi ci sembreranno spesso ovvie, o senza senso, o paradossa­li. Dovremo allora fare molta attenzione, perché ciò significa soltanto che c’è in esse un significato nascosto da comprendere ed effettivi passaggi di coscienza da compiere.

La mente dell’io, la mente distintiva, non ha i mezzi per farlo. Se ci sorprendiamo a tentarlo, ricordiamoci subito che è l’io che si sta intromettendo là dove non deve, e affrettiamoci a rimandarlo al suo posto: così possiamo risparmiarci molto conflitto.

Comprendere quel senso nascosto, effettuare quei passaggi di coscienza, è compito del Discepolo. Dovremo solo attendere con calma fiducia che egli sia completamente desto, atti­vo, e disponibile.

La mente usata dall’uomo è soltanto quella parte (manas) che è rivolta verso l’io, anche quando si tratta di persone di straordinaria cultura e intelligenza. Buddhi (quella parte della mente rivolta verso il reale, l’assoluto), che dovrà essere per un certo tempo la residenza del Discepolo, è attiva sul suo pia­no, ma non è in comunicazione con manas. Possiamo conside­rare che, partendo dal punto massimo di manas, dalla sua vet­ta più alta, comincia un tratto di sostanza mentale atrofizzata, dopo il quale si apre Buddhi. È questo il secondo gradino man­cante nell’organizzazione interiore dell’uomo ai suoi primi passi sul Sentiero.

Il Discepolo dovrà conquistarsi l’obbedienza e anche la collaborazione del suo piccolo io per cominciare a riattivare dal basso quel tratto atrofizzato. È il ponte tra il particolare e l’universale.

Per compiere questo lavoro, è indispensabile il giusto atteggiamento coscienziale. Ciò che ancora non si comprende suscita inevitabilmente delle reazioni, e critiche, interpretazioni anali­tiche, separativismo, orgoglio, lo impediscono totalmente.

È logico e naturale che vi siano dubbi, incertezze e incom­prensione dell’io, poiché l’io non può fare altro che questo. Se noi lasciamo traboccare queste incompiutezze nel tempo dello Insegnamento, automaticamente ne rimaniamo tagliati fuori, e solo per opera nostra,

Occorre riuscire, almeno per quel tempo, a « deporre » il proprio io carico di problemi esattamente come si può deporre un indumento, per poter essere disponibili all’Insegnamento. L’importante è farlo, anche se in principio può sembrare di non esserne capaci. Farlo sempre, abitualmente. Tendere con la coscienza a questo risultato.

E portare con noi l’Insegnamento avuto. Per la strada, a casa, lavorando, studiando, in qualunque situazione, aver pre­sente che ci è stato trasmesso qualche cosa, e attendere. Man­tenere un silenzio interno, senza disperdere le energie. Riportar­si interiormente a quella condizione di ricettività. Automatica­mente, un po’ alla volta o all’improvviso, non ha importanza, il canale si apre.

Vedremo allora che qualcosa scenderà nella nostra mente. Accogliamone la discesa in consapevole silenzio, e avremo sem­pre più abbondante l’Insegnamento vero, tanto più abbondante quanto maggiore sarà il silenzio che sapremo ottenere dall’io.

Shankara e il Vedanta

LE RADICI DEL PENSIERO FILOSOFICO
Michel Hulin

SANKARA E IL VEDANTA

Sommario:
1. Le Upanishad
2. Chi era Sankara
3. Sankara come commentatore e teologo
4. Il pensiero filosofico di Sankara
5. Il principio pensante e non pensante:cit e acit
6. I continuatori di Sankara

DOMANDA: Lei ci ha parlato dei darsana. Vuole adesso, tornando al Vedanta, parlarci di Sankara ?

Per parlare di Sankara è necessario innanzi tutto riportarsi molto indietro nella storia della filosofia indiana, perché egli non si presenta come un rivoluzionario, come un pensatore che pretende a un ricominciamento, facendo “tabula rasa”del passato. Egli è inserito, al contrario, in una lunga tradizione, tradizione che è in primo luogo quella delle “Upanishad”, di cui è il commentatore più celebre. Dunque mi sembra opportuno soffermarci sulle “Upanishad”.

Le “Upanishad” sono un insieme di testi, gli uni in prosa, gli altri in versi, i più antichi dei quali risalgono all’inizio del I millennio a.C. Il termine “Upanishad” è di per se stesso rivelatore. E’ rimasto a lungo oscuro per la filologia occidentale, ma si è finito per trovare l’accordo su un’interpretazione che posso riassumere brevemente così: le “Upanishad” sarebbero la scienza esoterica delle corrispondenze di ogni specie, che reggerebbero i diversi livelli della manifestazione. Più in particolare le “Upanishad” si presenterebbero come la scienza dei parallelismi, delle omologie, che si possono stabilire tra il corpo o più esattamente tra la persona umana, il sacrificio e il cosmo. Soprattutto nelle “Upanishad” più antiche un gran numero di passi ci mostrano che una certa realtà della persona corrisponde a una certa parte del sacrificio, corrisponde a una certa struttura del cosmo, nel senso, per esempio, in cui si può dire che il respiro dell’uomo corrisponde alle correnti cosmiche che fanno muovere gli astri, i pianeti o che l’occhio dell’uomo, con la luce che vi brilla, è omologo al sole, eccetera.

Come è stato possibile, a partire da queste premesse, delineare una metafisica? Perché dopo aver fatto corrispondere gli elementi costitutivi della persona, del sacrificio e del cosmo ci si è chiesti se non ci fosse un’origine comune di quelle corrispondenze, si è cercato in particolar modo, riguardo alla persona umana, se l’intimo principio della sua unità non dovesse essere, a sua volta, comparato a un altro elemento sottostante a tutti i fenomeni esterni, all’unità che sottostà ai fenomeni esterni.

Così si sono enucleate due nozioni assolutamente fondamentali, da una parte quella dell’atman, del “sé”, di ciò che dall’interno unifica la persona, costituisce l’origine unica dei suoi atti, dei suoi pensieri, dei suoi comportamenti in generale. Dall’altra, prolungando la speculazione dei “Brahmana”, sul sacrificio in particolare, la nozione di qualcosa che sarebbe come il fondamento nascosto dei fenomeni, il fondamento nascosto dell’organizzazione dei fenomeni in un cosmo unico, e si è chiamato brahman questa entità.

La mossa decisiva delle “Upanishad” è consistita, dopo aver messo in parallelo, l’atman e il brahman, nel superare la tappa seguente, cioè nel porre con una arditezza straordinaria il principio della loro unità. Da quel momento prendeva senso l’idea che la persona umana non fosse semplicemente un’entità minima, perduta nel divenire universale, ma che possedesse una dignità ontologica, perfettamente identica a quella dell’assoluto. Quindi le “Upanishad”, almeno nelle parti più speculative dei testi, sono piene di una specie di ebrezza mistica, dell’allegrezza in cui si esprime la meraviglia di scoprire che, in un certo modo, l’interno contiene già l’esterno, che la persona umana è in un certo senso uguale alla totalità del cosmo.

 Questa scoperta si è espressa prima in un linguaggio figurato, non ancora concettuale. Per fare un solo esempio, quando vogliono far comprendere che cosa è in realtà l’atman i pensatori delle “Upanishad” dicono, da una parte che risiede nel cuore, modo approssimativo per indicare che si trova al centro della persona, e dall’altra che è più piccolo del cuore stesso, più piccolo della centesima parte di un chicco di miglio. In altre parole, ci si sforza di orientare l’immaginazione verso la rappresentazione dell’infinitamente piccolo e poi, al contrario, si incoraggia l’immaginazione a slanciarsi nella direzione opposta, dicendo: questo atman, situato nello spazio del cuore, è al tempo stesso più grande del corpo, più grande della terra, più grande dello spazio tra la terra e il sole, più grande dello spazio tra il sole e gli astri più lontani. Questa specie di coincidenza dei contrari è il modo proprio dell’immaginazione di pervenire alla nozione di una entità che trascende lo spazio e trascende il tempo.

Si può aggiungere ancora che le “Upanishad” non costituiscono, beninteso, sotto questo aspetto, un inizio assoluto. Molti indizi ci inducono a pensare che un passato, una tradizione già antica di raccoglimento, di esercizi d’ascesi, di “yoga” ante litteram, ha trovato espressione in questi testi. Ciò che fino ad allora era stato oggetto di pratiche più o meno empiriche e selvagge ha trovato, ha cominciato a trovare la sua giustificazione. L’identità dell'”atman” e del “brahman” è apparsa come la chiave dei fenomeni di estasi, cercata fin qui a tentoni senza comprendere le loro autentiche condizioni di possibilità.

Un’ultima nozione vorrei ricordare, quella di karman e il correlativo samsara o “trasmigrazione delle anime”. In effetti è nelle “Upanishad” antiche che quelle due nozioni cardinali del pensiero indiano classico appaiono la prima volta, per una ragione che non ha nulla di contigente. Infatti dal momento che i pensatori delle “Upanishad” avevano messo in luce l’essenziale eternità dell'”atman”, la sua intemporalità, si trovavano a dover conciliare quella intemporalità di principio con i dati immediati dell’esperienza comune e cioè l’estrema limitazione della durata della vita umana. Hanno allora immaginato che l’anima, non avendo né inizio né fine, fosse affetta da una fondamentale ignoranza, anche essa senza inizio, senza età, che la spinge a incarnarsi, la fa trasmigrare indefinitamente di corpo in corpo e la fa compiere atti che ricevono nelle successive esistenze la loro retribuzione.

Questo in sintesi il capitale di nozioni che le “Upanishad” hanno trasmesso alle età ulteriori. Ma si deve sottolineare il fatto che si tratta essenzialmente di stimoli vigorosi, profondi, alla riflessione filosofica, ma non si può ancora, a questo stadio, parlare di filosofia propriamente detta, perché la sistematicità, la logicità, la ricerca di un accordo tra interlocutori in una controversia, che sono i presupposti della discussione e della ricerca filosofica, qui non si trovano ancora riuniti. E’ per questo che nelle età successive si faranno dei commenti alle “Upanishad” con cui si tenterà di dare a quei testi, di proiettare su quei testi, forse, la coerenza, la sistematicità che non possedevano ancora. Al primo posto tra quei commentatori, non il primo in senso cronologico, ma colui che per primo ha lasciato la sua impronta nel tempo, troviamo il maestro Sankara, Sankaracaria.

DOMANDA: Ci può parlare di Sankara in particolare?

Sankara è vissuto probabilmente da qualche parte dell’India nel corso dell’VIII secolo della nostra era. Non sappiamo con certezza, né la data di nascita, né la data di morte. Sappiamo che discendeva da una famiglia di brahmani dell’India del Sud-Ovest, una regione che corrisponde a quella che oggi si chiama Mysore. Sappiamo anche dai racconti biografici, ma anche lievemente agiografici, che ci ha lasciato la tradizione, che ha abbandonato assai presto la sua famiglia ed è divenuto un “sanyasin”, un “rinunciante”, secondo una tradizione indiana già antica al suo tempo, e da quel momento la sua vita è diventata tutt’uno con la sua istruzione spirituale presso un maestro, cui sono seguite diverse peregrinazioni attraverso l’India.

La sua attività è stata da un lato un’attività di predicazione, di discussione con i sostenitori di altre dottrine, ma mentre costruiva la sua opera filosofica, i suoi commenti, si preoccupava al tempo stesso, dovunque passava di riformare l’induismo, di correggere certi abusi, certe degenerazioni del culto, che qua o là constatava. E si deve dire che una delle ragioni della sua estrema importanza, della celebrità che lo ha accompagnato fino ai nostri giorni è da cercare proprio in questa attività di maestro spirituale, di riformatore religioso, condotta in perfetto parallelismo con la sua attività filosofica in senso stretto.

Si sa che ha fondato in quattro parti dell’India, quattro “mat”, quattro monasteri, la cui finalità era quella di difendere l’ortodossia della tradizione, preservare e diffondere i testi, istruire nuove generazioni di discepoli. Nella misura certamente limitata, in cui l’induismo contemporaneo dispone di autorità, di voci autorevoli, si può dire che sono i priori, i superiori di questi quattro monasteri, che ancora oggi portano il nome di Sankaracaria, a detenere quell’autorità. Sembra d’altronde che Sankara sia morto assai giovane. La leggenda vuole che sia morto a trentadue anni. Ma questo non sembra molto probabile data l’importanza degli scritti che ci ha lasciato. Sembra difficile credere che in una vita così breve abbia potuto redigere un’opera così importante e al tempo stesso prodigare tante energie nella propaganda e nelle riforme religiose.

La sua opera si compone essenzialmente di commenti a dieci “Upanisad” maggiori, più un commento alla “Bhagavadgita”, più un commento ai “Brahmasutra”, la prima sistematizzazione, sotto forma di aforismi, apparsa nell’ambito del “vedanta”. Bisogna aggiungere un testo a parte, nel senso che non è un commento, ma un trattato autonomo, metà in prosa metà in versi, che si chiama “Upanisahasri” o “Trattato dei mille insegnamenti”, un testo, sia detto di passaggio, che potrebbe servire benissimo di introduzione all’opera di Sankara, perché mette in scena un maestro e un discepolo, con il maestro che illumina per gradi il discepolo, partendo dalle domande che quello si pone, dalle difficoltà che incontra nell’assimilare i suoi insegnamenti.

DOMANDA: Professor Hulin, ci può illustrare il suo pensiero?

Il pensiero di Sankara non è del tutto assimilabile a quello di un puro filosofo, nel senso che siamo abituati a dare questo termine, in Occidente, almeno dopo Descartes. Si potrebbe dire anche, usando in mancanza di meglio le nostre categorie, che Sankara si presenta tanto come teologo quanto come filosofo.

Non è affatto un caso se la sua opera è essenzialmente quella di un commentatore. Egli stesso si considera innanzi tutto un commentatore, perchè Sankara e, in genere, quelli che si situano nella sua stessa tradizione ritengono che la verità ultima, in quanto tale, non può essere colta direttamente dallo spirito umano, e che, di conseguenza, gli deve essere fornita per mezzo di una rivelazione esterna, rivelazione costituita appunto dal testo del “Veda”, di cui le “Upanisad” rappresentano in qualche modo la parte più propriamente filosofica.

Ciò che si potrebbe considerare come un semplice scetticismo o una dimissione della ragione, attiene invece strettamente al tema più importante della dottrina del “vedanta” e senza dubbio anche di quella upanisadica: alludo qui alla nozione centrale di “maya” o di “illusione cosmica”. Questa nozione presuppone infatti che, al di là degli errori particolari, individuabili ed emendabili, che possiamo commettere tanto nella sfera pratica quanto in quella teorica, in ordine a qualsiasi problema, un’altra forma di errore, più essenziale, più avvolgente ci minaccia o meglio ci governa, quella che ci fa sentire come esseri finiti, limitati nel tempo e nello spazio.

Parlavamo poco fa delle “Upanishad” e dello scarto estremo, secondo quei testi, tra l’identità atman-brahman, da una parte, e la diretta esperienza sensibile dall’altra. Si può dire che la nozione di maya in un certo senso esprime la discrepanza così avvertita, esprime l’immensità dello scarto. “Maya” vuol dire che al di là di ogni errore particolare, noi viviamo dentro una forma di esperienza fondamentalmente falsa, erronea, che popolarmente talvolta viene paragonata al sogno. Più precisamente Sankara e gli altri ritengono che il linguaggio, o per meglio dire la maniera con cui il linguaggio – che del resto era stato già da gran tempo analizzato dai grammatici indiani – ripartisce il reale in cose e sostanze, in qualità portate dalle cose, in azioni esercitate dalle sostanze le une sulle altre, in conclusione, il linguaggio nella sua struttura stessa frammenta il reale.

In un certo modo nessun discorso che passa per il linguaggio – e per definizione tutti vi passano – nessun discorso in quanto tale è capace di restituire l’unità assoluta di tutte le cose, che le “Upanishad” dichiarano di aver scoperto. Si potrebbe dire che in un certo modo per “Sankara” la “maya” condiziona tutto il nostro linguaggio, e quindi, per contraccolpo, tutti gli orientamenti del nostro pensiero, di modo che, dirà “Sankara”, non potremo mai neanche sospettare che qualcosa come il brahman esiste, e ancor meno scoprire la nostra identità profonda col brahman, se ci dovessimo valere soltanto dei nostri lumi. Di conseguenza l’idea stessa del “brahman” è qualcosa che ci deve essere dato dall’esterno. E qui incontriamo la grande idea di una “parusia” dell’assoluto.

Sotto la forma delle parole vediche è l’assoluto stesso, è il brahman, che si abbassa, per così dire, al nostro livello, che si mostra a noi nella sua pura essenza, e ci invita a congiungerci con esso. Quelle che vengono chiamate le “grandi parole” upanisadiche, di cui il celebre “tat tvam asi” “tu sei tutto questo” costituisce l’archetipo, sono interpretate come la cifra della nostra condizione, la chiave di volta di ogni possibile riflessione, punto di arrivo ultimo, verso il quale siamo indotti a procedere. Dunque il pensiero di Sankara, pur facendo posto, lo vedremo subito, pur dando fiducia alle potenzialità della ragione, ritiene che la ragione non si può mettere in cammino se una luce, per così dire, non brilla dall’altro capo del tunnel, se il suo punto d’arrivo non le è indicato in anticipo dalle parole upanisadiche.

Quindi in un certo modo il percorso filosofico di Sankara e del “vedanta” in generale sarà un’insieme di metodi, messi a punto per stabilire una relazione sempre più stretta tra due logiche apparentemente incompatibili, la logica dell’unità, della non dualità, più esattamente del “advaita”, che costituisce il punto d’arrivo, e la logica della pluralità indefinita, che è naturalmente caratteristica della forma di esperienza strutturata dalla percezione sensibile, strutturata dal linguaggio, nella quale si compie il nostro sviluppo. E’ perciò che Sankara si presenta al tempo stesso come un commentatore e come un pensatore autonomo. Non si tratta di due ruoli eterocliti, ma dello sforzo di esegesi del “Veda” e delle “Upanishad” da una parte, e dello sforzo di riflessione razionale pura dall’altra, colti nella loro integrazione reciproca, fermo restando che il primato spetta alla rivelazione vedica.

DOMANDA: Qual è, dal punto di vista della ragione, il pensiero di Sankara?

L’aspetto propriamente razionale del pensiero di Sankara risalta con evidenza fin dall’introduzione che ha scritto alla sua opera più importante, il commento al “Brahmasutra”. In modo caratteristico, prima di abbordare il primo aforisma, il primo “sutra”, Sankara fa precedere il suo commento da una esposizione, che, in certo modo, riassume tutto il successivo orientamento del suo pensiero, o che almeno lo contiene in germe. Questa esposizione è imperniata sulla nozione di “adyasa”, che si può tradurre con “sovrapposizione”, il fatto di lasciar apparire l’uno sull’altro in trasparenza, per così dire, due principi, del resto, assai lontani l’uno dall’altro.

Sankara parla della sovrapposizione del “cit” e dell’ “acit”, letteralmente ciò che pensa, ciò che è cosciente e ciò che non pensa, ciò che non è cosciente. Concretamente che cosa significa la sovrapposizione reciproca del “cit” e dell'”acit”? Sankara parte da una definizione a priori di questi due principi. Da un lato quello che corrisponde a ciò che chiamiamo soggetto. E Sankara ha un termine tecnico assai simile al nostro quando dice: quello che si enuncia attraverso la nozione di “io”, che parla in prima persona ed è sempre dal lato dell’ “io”, di colui che parla, che pensa, eccetera. Dall’altro lato quello che si enuncia alla terza persona, il “tat”, il “ciò”, l’oggetto, ciò su cui il soggetto riflette o che percepisce, eccetera. In che consiste allora la sovrapposizione? C’è sovrapposizione nella misura in cui, malgrado la loro assoluta distinzione di essenza, i due principi appaiono in realtà uniti, saldati, quasi confusi l’uno con l’altro, in una esperienza centrale. A partire di qui Sankara sviluppa il suo metodo che è l’esperienza dell’incarnazione o, se si preferisce, il fatto per il soggetto, per il principio spirituale puro, per l’io, in ciò che ha di assoluto, di sentirsi immediatamente coordinato e solidale con un particolare segmento della manifestazione, ciò che viene chiamato, che egli stesso chiama il corpo, anzi “corpo proprio”. Questo fenomeno del corpo proprio, che si trova al centro di molte correnti del pensiero contemporaneo, possiamo dire, io credo, senza anacronismo, senza esagerazione, che è il vero punto di partenza di Sankara, almeno quando si considera l’aspetto più propriamente razionale della sua dottrina.

Sankara si interroga al tempo stesso sul miracolo e sullo scandalo del fenomeno dell’incarnazione e del corpo proprio, nel senso in cui ciascuno di noi ha coscienza non soltanto di essere puramente e semplicemente se stesso, ma di comportare ogni specie di determinazioni, per esempio il fatto di essere grande o piccolo, bello o brutto, il fatto di occupare un certo posto nel mondo, di appartenere ad una certa casta, di essere giovane o vecchio, eccetera, eccetera, determinazioni di ogni specie, di cui Sankara, in un passo decisivo, mostra che traggono origine dal fenomeno del corpo proprio. E nella linea di questa interrogazione mostra anche che l’esistenza per noi di scopi nella vita, di interessi positivi, di desideri o, al contrario, l’esistenza di timori, di paure, di pericoli, è puramente legata al fenomeno del corpo proprio. Il corpo proprio è la presa di possesso da parte del soggetto, di un insieme di determinazioni biologiche, fisiche, che diventano più che sue proprietà, che si amalgamano col suo essere e gli permettono da un lato di agire nel mondo, di far presa sul mondo, ma all’inverso consentono anche al mondo esterno di aver presa sul soggetto, che viene così a trovarsi implicato nell’intera rete delle cause e degli effetti. Di conseguenza il soggetto non si avverte più nella sua assolutezza, ma solo nella sua particolarità, affetto da qualità e da difetti, da una molteplicità di determinazioni, insomma. Sviluppando e sistematizzando in una serie di movimenti successivi questo tema iniziale, Sankara mostrerà che l’idea indiana del “samsara”, della reincarnazione, – del “karman” e della conseguente reincarnazione, – prende senso nel quadro della incarnazione. Ma, lo ripeto, per lui si tratta in qualche modo di estraneità assoluta, di scandalo.

Sankara dedicherà molto tempo a mostrare l’abisso ontologico che separa il “cit” dall'”acit”, il principio pensante dal non pensante. Quindi la sua filosofia consisterà nel mostrare da una parte l’origine di questa sovrapposizione: come questa situazione, che in linea di principio non dovrebbe aver luogo, ma che di fatto è presente, si è potuta produrre e, correlativamente, per quale via sarebbe possibile ridurla – dato che è evidente che si possono, si devono far rientrare nel quadro della sovrapposizione, esperienze, esistenze passate e servitù, nel senso di dipendenza riguardo alle circostanze esterne, quindi fondamentalmente, sofferenza e trasmigrazione.
Si ricollega pure a questa idea di sovrapposizione una teoria delineata un po’ prima di Sankara, da alcuni suoi predecessori, come Gaudapada, nel suo commento alla “Mandukya-Upanisad” e che sarà destinata ad avere fortuna nel “vedanta”: la teoria dei quattro livelli della coscienza. Li possiamo enumerare: lo stato di veglia ordinario, l’esperienza del sogno, l’esperienza del sonno profondo e infine un quarto tipo di esperienza misterioso e singolare, che non si comprende che in antitesi ai primi tre. Per ciò che concerne i primi tre, si possono definire come modi particolari di sovrapposizione.

La coscienza vigile, la coscienza ordinaria della veglia non esprime né più né meno che l’identificazione essenziale dell’io o, se si preferisce, del sé, dell'”atman” con il corpo preso nel senso ordinario del termine, con i sensi e i poteri che sono suoi propri. Nella misura in cui mi sento completamente solidale con il corpo nel bene e nel male, io sono nello stato di veglia e tutti gli altri con i quali sono in rapporto in questo stato di veglia hanno la stessa esperienza. La condizione di sogno è compresa anch’essa come una forma di sovrapposizione, di identificazione con il corpo, non più con il corpo nel senso ordinario della parola, ma con il “corpo sottile”. In genere i filosofi indiani intendono con questo termine le strutture sottili, nascoste, inaccessibili dell’esperienza immediata, contenute nel corpo, in quell’involucro esterno che è il corpo, e che sono responsabili della percezione, sono le potenze sensoriali della comunicazione verso l’interno dei messaggi dei sensi, del giudizio, eccetera. Tutte queste strutture, tutti questi poteri mentali, dal punto di vista vedantico e indù in generale, non appartengono affatto all’io o al sé in quanto tale, sono funzioni mentali, funzioni biologiche, in un certo senso, esprimono il rapporto dell’uomo e del mondo: solo nella misura in cui si isolano queste entità dal resto del corpo, si è indotti a parlare di corpo sottile. D’altronde si immagina che è proprio a questo livello che gli atti lasciano le tracce di ciò che sono stati. Quindi nel sogno ci identifichiamo soltanto con il corpo sottile, nella misura in cui non sappiamo più troppo bene che cos’è, né dove si trova il corpo grossolano, il nostro corpo nel senso ordinario del termine.

Stesi sul nostro letto, ci immaginiamo su un aereo, su un campo di battaglia o in qualsiasi altro luogo e, di conseguenza, ci sentiamo sì sempre più legati a un corpo, ma questo corpo è solo quello dell’immaginazione, del desiderio, della memoria, eccetera. In questo senso parliamo dunque di identificazione con il corpo sottile. Nel sonno profondo il “vedanta” sostiene che il principio spirituale non è soggetto a eclissi, ma in un certo modo lo attraversa e vi resta presente. Qui, poichè manca il sogno, viene meno l’identificazione con il corpo sottile, ma misteriosamente, il sentimento che non si può esistere senza il corpo, che si deve pur esistere da qualche parte, anche se si è totalmente incapaci di dire dove, sussiste ed è la nozione che i vedantin chiamano “corpo causale”. E’ infine la speculazione vedantica, al di la di questi tre corpi,di questi tre livelli di identificazione,di questi tre livelli di sovrapposizione, ha immaginato che un’altra forma, radicalmente diversa di esperienza dovesse essere possibile, in seguito all’esperienza dell’estasi o come risulato ultimo del percorso spirituale, proposto dal “vedanta”, proprio nella realizzazione del fine più autentico, dell’identificazione dell'”atman” con il “brahman”. Una volta scomparso ogni sentimento di essere congiunto con un corpo, di essere solidale con un corpo, si incontrerebbe uno stato che non possiamo neanche immaginare, uno stato di cui non abbiamo alcuna rappresentazione. E’ perciò che, almeno in un primo tempo, viene chiamato semplicemente il “quarto”, quello che è al di là degli altri tre, perché corrisponderebbe a qualcosa di inaudito, qualcosa di cui non avremmo idea, se la rivelazione vedica non ci avesse istruiti in anticipo della sua possibilità e della sua infinita desiderabilità, dato che, attraverso la cessazione della sovrapposizione, esso rappresenta ciò che si chiama “liberazione”, il superamento definitivo della continua oscillazione tra la speranza e la disperazione, tra il piacere e il dolore.

DOMANDA: Torniamo alla nozione di cit e di acit. Non trova che c’è qualcosa di contraddittorio nella nozione di acit?

Certo ci troviamo all’interno di una dottrina che si qualificherà più tardi di “advaita”, letteralmente di non “dualità”. Le “Upanisad” e, nel loro solco, il “vedanta” insegnano che in ultima istanza tutte le cose sono uno, che non c’è altro che il brahman e che le anime individuali non hanno realtà permanente, che trovano la loro vera realtà nel brahman e che anche il mondo esterno è contenuto nel brahman. Ora il “brahman” sarà considerato sempre sotto la forma di una coscienza infinita. Il “vedanta” ulteriore definirà il “brahman” spesso come sat, ossia “essere”, cit, “pensiero” o “coscienza” e ananda, “felicità”. Ora come si colloca l’acit, il non pensante, ciò che è inerte, materiale, in questa prospettiva? La contraddizione sarebbe radicale e il “vedanta” non sarebbe un filosofia degna di questo nome se, appunto, l’acit, il non pensante, godesse di una realtà indipendente, insuperabile. In questo caso ci troveremmo nel quadro di una filosofia sì, ma dualista. E invece siamo in un quadro di non dualità. Ciò comporta che l’acit, il non pensante, non può avere che una realtà apparente e provvisoria o, in altri termini, che è a quel famoso difetto di cui siamo, fin dal principio, avvertiti, a quella “maya” o “avidya”, come anche vien detta, ignoranza o misconoscimento, di cui la rivelazione vedica ci ha avvertiti in anticipo che i nostri poteri di percezione, di ragionamento, di linguaggio sono affetti, è a quel difetto di visione, per così dire, che si deve ricollegare l’apparente dispiegarsi delle molteplici forme sensibili. Allora, per far capire la possibilità di una cosa del genere, il “vedanta”, e Sankara in particolare, ricorrono, almeno a titolo di artifizio provvisorio, come strumento pedagogico, a quelli che si chiamano tradizionalmente in sanscrito “nyaya”, esempi che aiutano la comprensione delle cose, parabole che guidano lo spirito verso ciò cui accennano. Il “nyaya”, uno dei “nyaya” più largamente usato in questa prospettiva, sarà quello della corda e del serpente.

A volte noi vediamo muoversi nell’ombra qualcosa che presenta delle curve, dei meandri, e, poiché in genere siamo avvertiti dal fatto che in India i serpenti si trovano un po’ dappertutto, in modi inaspettati, e del pericolo che rappresentano, vedendo quella corda nella penombra la pigliamo per un serpente, temiamo di essere morsi e indietreggiamo colti da terrore. Poi in un secondo tempo, guardando la cosa più da vicino, vediamo una certa rigidezza, un colore che naturalmente non è quello del serpente e ne concludiamo che abbiamo avuto una paura ingiustificata, che avevamo preso una corda per un serpente. Ma per tutto il tempo, eventualmente pochi secondi, o pochi minuti, in cui l’illusione e la paura sono stati reali, in un certo modo abbiamo creduto, in buona fede, di avere a che fare con un serpente. Era come se avessimo un serpente davanti a noi ed è solo retrospettivamente che neghiamo la sua esistenza. E’ la relazione che il “vedanta” chiama “vivarta”, cioè “produzione illusoria”. Avviene che, a partire dalla corda, sola cosa reale, si produce una specie di trasformazione provvisoria e apparente di quella corda, che ai nostri occhi passa per un serpente. Non c’è una corda da un lato e un serpente dall’altro. C’è una corda che non abbiamo riconosciuta, che abbiamo scambiata per un serpente. Sankara, allora, applica questo paradigma al rapporto tra il mondo sensibile, l’acit e il brahman.

Il mondo sensibile non è altro che il brahman, è il brahman stesso visto, per così dire, di traverso, il brahman stesso misconosciuto. Non c’è creazione nel senso realista del termine, non c’è una misteriosa trasformazione o deflagrazione del brahman nella forma della realtà sensibile esterna, c’è invece il fatto primario della nostra “avidya”, della nostra ignoranza, per la cui influenza il brahman appare ai nostri occhi sotto quella forma deflagrata e dispersa. Ma in realtà, prima che si formi, mentre permane e dopo che si è dissolta la nostra illusione, il brahman rimane totalmente immutato, totalmente estraneo a quel processo illusorio, che non ha realmente luogo nella realtà delle cose, che si svolge per così dire nella nostra testa, nella rappresentazione. E’ chiaro che ho enunciato così solamente il nerbo dell’argomentazione. Sankara la sviluppa con ben altra precisione e sistematicità e ancor più i suoi successori. Dunque è stato indicato un inizio di risposta: c’è sovrapposizione del cit e dell’acit, ma quella sovrapposizione non è possibile che sulla base dell’illusione prima, che ha lasciato il brahman dispiegarsi, per così dire, ai nostri occhi sotto un aspetto che non è il suo. A questo punto la via è tracciata per tentare – con ogni specie di metodi, gli uni razionali, che mostrano l’impossibilità di pensare fino in fondo nella sua coerenza la molteplicità, gli altri d’ordine più spirituale, che mirano ad interiorizzare, a meditare, a ruminare lungamente le famose “grandi parole”, il “tat tvam asi”, e altre ancora – per tentare, dicevo, di portare a coincidenza, un giorno, fatto e diritto. A quel modo che si produce, il dissolversi del serpente nella corda, con la sua sparizione, da un istante all’altro, non mediante una graduale ritrasformazione in corda, ma come per uno scatto, quando a un momento dato ci si accorge dell’illusione, allo stesso modo, ci promette Sankara, quando avremo compreso a fondo i presupposti della dottrina, il mondo sensibile che sembrava la sola cosa reale intorno a noi, ci apparirà in un modo al quale non possiamo dare per ora un vero significato intuitivo e a cui di conseguenza dobbiamo credere come ad una possibilità realizzabile nell’avvenire, ci apparirà come la maschera dietro la quale si nasconde brahman, o piuttosto l’aspetto particolare che il brahman ha preso per noi, come correlato della nostra ignoranza e della nostra illusione. In maniera più astratta e al di fuori di questo paradigma, la nozione di molteplicità sensibile, come risultante di una illusione fondamentale, ma pure assai lunga e tenace ed estremamente difficile da “ridurre”, ha condotto Sankara sul piano dell’epistemologia, a distinguere in ultima istanza tre livelli di realtà, e se si vuole, anche tre livelli di verità delle asserzioni in rapporto a quei livelli di realtà. C’è quello che si chiama il “pratibhasika”, ossia ciò che ha una realtà puramente apparente. Nell’esperienza sensibile, in riferimento a questo tipo di esperienza, il famoso serpente di poco fa è un esempio di qualcosa di “pratibhasika”, di puramente apparente. Anche il sogno, nella misura in cui si mostra incompatibile con il contesto dell’esperienza sensibile, ci fornisce un altro esempio di dato puramente apparente. Al contrario la corda e l’insieme della realtà sulla cui relativa permanenza ci intendiamo nell’esperienza ordinaria, rappresenteranno la realtà empirica, quella che Sankara chiamerà “vyavaharika”, termine sanscrito che significa ciò che è alla base di ogni nostra convenzione. “Vyavahara” significa “trattato”, “commercio”, “regola del gioco”. Dobbiamo avere credenze comuni nella realtà delle cose, nella loro presenza, nella permanenza delle loro qualità, nella solidità delle convenzioni sociali, di cui il linguaggio stesso è una forma, per poter intenderci e per condurre i nostri affari umani. Si tratta dunque di una verità che non è completamente disprezzata e in un certo senso, d’altronde, lo stesso insegnamento spirituale è obbligato ad iscriversi in questa pratica intersoggettiva. Ma c’è qualcosa al di là e ciò che è al di là, ciò che esiste come verità suprema è evidentemente l’assoluta unità. Se riprendiamo l’esempio della corda e del serpente, in rapporto al serpente la corda e dell’ordine del “vyavahara”, della realtà empirica solida, e ciononostante sappiamo di poter risalire più in alto della corda stessa. La corda è fatta di un certo materiale, di canapa, per esempio, e la canapa rimanda ai suoi elementi costitutivi: acqua, terra, eccetera, almeno secondo le concezioni indiane, e, passo passo, si risale così da una causa materiale ad una causa materiale più alta, fino al “brahman” stesso. Il brahman ci apparirà allora come la causa materiale suprema, e in un certo senso si potrà dire che la corda e tutto il resto è uscito da lui, ancora una volta, non per una genesi o una creazione reale, ma per una specie di affermazione, di prolungamento dell’ignoranza metafisica e quindi per un altro verso si ritiene che possa essere riassorbito in lui. Questo terzo livello di verità, di verità ultima, è ciò che si chiama “paramaharthika”, nozione di “verità ultima” che traduce questo termine.

DOMANDA: Dopo Sankara, quali sono state le più importanti linee di interpretazione dei suoi continuatori?

Innanzi tutto Sankara ha avuto molti continuatori. Non è il solo commentatore dei “Brahmasutra”, di cui la storia ci abbia conservato il nome o le opere, anzi la sua scuola è stata la più feconda, la più ricca, e forse si può dire che ancora oggi, in India, è la sola viva. Quindi un’immensa letteratura si è sviluppata dall’opera di Sankara e dai suoi commenti. In maniera alquanto schematica, credo che si potrebbe ripartire i suoi discepoli, i suoi continuatori in due tendenze, se non in due scuole ben determinate. Certi tra loro hanno messo l’accento sull’aspetto essenzialmente interiore dell’esperienza spirituale, sul fatto che è sempre in un dato individuo, nella sua interiorità, nel suo spirito che riposa l'”avidya”, il misconoscimento essenziale, e che di conseguenza il percorso spirituale, dove ha luogo, è un’avventura puramente interiore. E’ in se stesso che l’individuo apprende a cambiare il suo sguardo sul mondo e a passare dalla forma ordinaria dell’esperienza all’intuizione dell’identità tra “atman” e “brahman”.

Dunque questa scuola o questa tendenza mette innanzi tutto l’accento sull’aspetto individuale, soggettivo, proprio a ciascuno, dell'”avidya”, dando vita a forme di pensiero idealistiche, soggettivistiche, persino solipsistiche, assai nette. La seconda linea di interpretazione non è assolutamente opposta alla prima, ma piuttosto esprime per così dire, una sensibilità differente. In questa seconda linea di interpretazione si accorda più importanza al fatto della ripartizione della “maya” in una molteplicità di individui, all’esistenza o meno, a livello della verità empirica, di una molteplicità di soggetti, e si tende a vedere questa presenza di fatto dei soggetti individuali, che il “vedanta” chiama “jiva”, come qualcosa che procede direttamente dal “brahman”. Ciò comporta che si parlerà allora più di “maya” che di “avidya”, più di illusione cosmica universale, che procede dal “brahman”, che di ignoranza, problema personale che ognuno dovrebbe risolvere per suo conto.
In questa prospettiva si tende a dare insomma più consistenza alla “maya”. La “maya” non diventa tanto una specie di entità seconda, ma resta una entità intimamente legata al “brahman”, e il cui rapporto al “brahman” è visto sia come positivo che come negativo. La “maya” diventa così una specie di “sakti”, di potenza creativa del “brahman”, e in certi autori ci si avvicina, forse un po’ pericolosamente, a un quasi-dualismo di fatto. Si può aggiungere del resto che questa linea di interpretazione forse è più popolare della prima perchè coincide molto facilmente con una struttura che ha molto risalto e permanenza nell’induismo preso nella più larga accezione, nell’induismo religioso, col fatto che tradizionalmente ciascuno dei grandi dei dell’induismo non può essere considerato per sé, ma deve essere sempre associato, come divinità maschile, a una entità femminile, a una sposa, a una paredra, designata in India come “sakti”. Nella misura in cui la “maya” è compresa come “sakti” del “brahman”, un ponte, una passarella almeno è lanciata verso le dottrine teiste tradizionali. E a questo riguardo non deve meravigliare il fatto che la seconda linea di interpretazione sia diventata maggioritaria nell'”advaita”, anche se forse è la prima che ha fornito i pensatori più originali e più profondi.

Michel Hulin

VITA
Nato nel 1936, Michel Hulin ha studiato Filosofia e Indologia in Europa e in India. Attualmente è ordinario all’Università di Paris-IV “La Sorbonne”, dove insegna Filosofia comparata e Filosofia indiana. Dal 1990 tiene lezioni presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

OPERE
Le principe de l’ego dans la pensée indienne classique. La notion d’Ahamkara, Institut de Civilisation indienne, Paris, 1978; Samkhya Literature in A History of Indian Literature, vol. VI, fasc.3, O. Harrassowitz, Wiesbaden, 1978; Hegel et l’Orient, Paris, 1979; La dottrina segreta della dea Tripura, Paris, 1979; Mrgendragama. Sections de la Doctrine et du Yoga. Avec la Vrtti de Bhattanarayanakantha et de la Dipika d’Anghorasivacarya, traduction, introduction et notes par M.H., Publications de l’Institut Français d’Indologie, n. 63, Pondichéry, 1980; Le visage caché du temps, Paris, 1985; Sette racconti iniziatici tratti dallo Yoga-Vasistha, Paris, 1987.

PENSIERO
Michel Hulin è tra i pochi studiosi europei a dominare sia l’ambito della filosofia occidentale che quello del pensiero filosofico e religioso indiano nella loro complessità. Ha indagato la nozione di ahamkara , in particolare nella scuola del Vedanta advaita, in relazione alla categoria della soggettività presente nella cultura occidentale e ha tradotto e introdotto alcuni testi sanscriti. Importanti i suoi contributi sulle diverse rappresentazioni dell’al di là. Attualmente sta indagando le varie forme non canoniche dell’esperienza mistica.

Sosan Hsin Hsin Ming: il Libro del Nulla

Sosan Hsin Hsin Ming: il Libro del Nulla

[tradotto dall’originale cinese da Richard B. Clarke, maestro Zen ai Living Dharma Centers, Amherst, Massachussets e Coventry, Connecticut – tradotto dall’inglese all’italiano da Andrea Mosca webmaster di www.ebooks4free.net]

La Grande Via non è difficile per coloro che non hanno alcuna preferenza. Quando Amore e Odio sono entrambi assenti ogni cosa diviene chiara e viene svelata. Ma fai la più piccola distinzione, e paradiso e terra saranno infinitamente lontani. Se desideri vedere la verità non parteggiare a favore o contro. La lotta tra ciò che uno vuole e ciò che non vuole è la malattia della mente.


Quando il profondo significato delle cose non viene compreso la pace essenziale della mente è disturbata senza alcun vantaggio. La via è perfetta come un vasto spazio in cui nulla difetti e nulla sia in eccesso. In realtà, spetta a noi decidere se accettare o rifiutare il fatto che non vediamo la vera natura delle cose. Vivi né nelle trappole delle cose esterne, né nei sentimenti interiori di vuotezza. Sii sereno senza forzare l’attività nell’interezza delle cose e tali erronee convinzioni scompariranno da sole. Quando provi a interrompere l’attività per conseguire la passività il tuo stesso sforzo ti pervade di attività. Fino a che rimani in un estremo o in un altro non conoscerai mai l’Interezza. Coloro che non vivono nella singola Via trascurano sia attività che passività, affermazione e negazione.

II
Negare la realtà delle cose è non cogliere la loro realtà; asserire la vanità delle cose è non cogliere la loro realtà. Più parli e pensi a ciò, più ti allontani dalla verità. Smetti di parlare e pensare e non ci sarà nulla che non sarai in grado di sapere.

III 
Il ritorno alle origini serve a trovare il significato, ma basarsi sulle apparenze significa lasciarsi sfuggire la causa. Al momento dell’illuminazione interiore c’è un andare al di là dell’apparenza e della vacuità. I cambiamenti che apparentemente avvengono nel vuoto mondo noi li chiamiamo reali solo a causa della nostra ignoranza. Non cercare la verità; smetti solo di avere opinioni. Non rimanere in una condizione dualistica; evita con cura tale perseguimento. Se vi è una traccia di questo o quello, il giusto e l’errato, la Mente-essenza verrà persa nella confusione. Sebbene tutte le dualità provengano dall’Unico, non avere attaccamento nemmeno ad esso. Quando la mente esiste indisturbata nella Via, niente al mondo può nuocerle, e quando una cosa non può più nuocere essa cessa di esistere nella vecchio modo. Quando non sorgono pensieri discriminatori, la vecchia mente cessa di esistere.

IV 
Quando gli oggetti del pensiero svaniscono, il soggetto pensante svanisce, poiché quando la mente sparisce, gli oggetti svaniscono. Le cose sono oggetti a causa del soggetto; la mente è tale a causa delle cose. Comprendi la relatività di questi due e la realtà basilare: l’unità della vacuità. In questo Vuoto i due sono indistinguibili e ognuno di essi contiene in sé il mondo intero. Se non fai differenza tra il grezzo e il fine non sarai tentato al pregiudizio e all’opinione.


Vivere nella Grande Via non è né facile né difficile, ma coloro che hanno punti di vista limitati sono timorosi e irrisoluti: più essi si affrettano, più lentamente essi vanno, e l’attaccamento non può essere evitato: anche il mostrare attaccamento all’idea dell’illuminazione significa andare fuori strada. Semplicemente lascia che le cose siano così come sono e non vi sarà né andare né venire. Obbedisci alla natura delle cose (la tua stessa natura), e camminerai libero e indisturbato. Quando il pensiero è in catene la verità è nascosta, poiché tutto è confuso ed oscuro e la gravosa pratica del giudizio porta molestia e stanchezza. Quali benefici possono derivare dalle distinzioni e separazioni? Se vuoi andare nell’Unica Via non disdegnare neppure il mondo delle sensazioni e delle idee. In verità, accettare pienamente essi è identico alla vera Illuminazione. L’uomo saggio non si sforza per il raggiungimento di alcun fine, ma lo stolto si ostacola da solo. Esiste un solo Dharma, verità, legge, non molti; le distinzioni nascono dal bisogno di attaccamento degli ignoranti. Identificare la Mente con la mente discriminante è il più grande errore di tutti.

VI 
Calma e inquietudine derivano dall’illusione; con l’illuminazione non vi è ciò che si preferisce e cio che è sgradito. Tutte le dualità provengono da deduzioni inconsapevoli. Esse sono come sogni di fiori nell’aria; è sciocco cercare di afferrarli. Guadagno e perdita, giusto e sbagliato: questi pensieri devono finalmente essere eliminati immediatamente. Se l’occhio non dorme mai, tutti i sogni cesseranno naturalmente. Se la mente non discrimina, le diecimila cose sono così come sono, di sola essenza. Comprendere il mistero di questa Unica-essenza significa essere liberati da ogni impedimento. Quando tutte le cose sono considerate imparzialmente, l’Auto-essenza è raggiunta. Nessuna comparazione o analogia è possibile stato privo di causa e relazioni.

VII 
Considera fermo il movimento e l’immobilità nel movimento, ed entrambi gli stati di movimento e di quiete scompariranno. Quando tali dualità cessano di esistere l’Interezza stessa non può esistere. A tale definitiva finalità non può applicarsi nessuna legge o descrizione. Per la mente unificata in accordo con la Via tutte le aspirazioni provenienti dal sé finiscono. Dubbi e indecisioni svaniscono e la vita in pura fede è possibile. Con un solo colpo siamo liberati dalla schiavitù; niente si attacca a noi e noi non tratteniamo niente. Tutto è vuoto, chiaro, auto-illuminante, senza l’uso dell’energia della mente. Qui pensiero, sensazione, conoscenza e immaginazione sono di nessun valore.

VIII 
In questo mondo di Similitudine non esiste nemmeno il sé o l’altro-dal-sé. Per entrare direttamente in sintonia con questa realtà quando i dubbi sorgono dì semplicemente “Non due.” In questo “non due” niente è separato, niente è escluso. Non importa quando o dove, illuminazione significa penetrare questa verità. E questa verità è al di là dell’estensione o diminuzione del tempo o dello spazio; in essa un singolo pensiero dura diecimila anni.

IX 
Vacuità qui, Vacuità lì, ma l’universo infinito rimane sempre davanti ai nostri occhi. Infinitamente grande e infinitamente piccolo; nessuna differenza, poiché le definizioni sono scomparse e non si vedono limiti. Così pure circa l’Essere e il non-Essere. Non perdere tempo in dubbi e discussioni che non hanno nulla a che vedere con ciò. Una cosa, tutte le cose: si muovono e si mescolano, senza distinzione. Vivere in questa realizzazione significa essere privi di ansietà circa la non-perfezione. Vivere in tale fede è la strada al non-dualismo, poiché il non-duale è uno con la mente fiduciosa. Parole! La Via è oltre il linguaggio, poiché in essa non c’è 
Nessun ieri 
Nessun domani 
Nessun oggi.

Osho Rajneesh, meglio noto come Osho (Kuchwada, 11 dicembre 1931 – Pune, 19 gennaio 1990), è stato un mistico e maestro spirituale indiano, che acquisì seguito internazionale.
I suoi insegnamenti sincretici enfatizzano l’importanza dell’amore, della libertà, della meditazione, dell’umorismo e di una gioiosa celebrazione dell’esistenza, valori che egli riteneva soppressi dai sistemi di pensiero imposti dalla società, dalle fedi religiose e dalle ideologie. Osho invitò l’uomo a vivere in armonia e in totale pienezza tutte le dimensioni della vita, sia quelle interiori che quelle esteriori, poiché ogni cosa è sacra e ricolma del divino.

Advaita Vedanta e Metafisica Platonica

L’Advaita Vedânta è il Vedânta (compimento dei Veda) della Non-Dualità, solitamente considerato il vertice della spiritualità indù, poiché per la sua universalità non intende contrapporsi alle altre correnti ortodosse (darshana, cioè punti di vista), ma le “comprende” e le rispiega a partire da un angolo visuale più ampio.

Il Platonismo è l’espressione più completa della Metafisica nell’Occidente tradizionale, e come tale ha permeato per molti secoli la civiltà greco-latina, più tardi influenzando anche i settori della Cristianità meno fideistici e più sensibili a valide istanze realizzative. Il suo influsso nel Sufismo è stato ancor più considerevole, non a caso in tali ambienti Platone viene onorato quale “imam della sapienza”.

Advaita Vedânta e Platonismo sono per lo più accostati ai nomi di Shankara e Platone, quasi come se essi fossero gli escogitatori di tali dottrine; in realtà, tali dottrine sono radicate in tradizioni preesistenti, ed essi furono semplicemente importanti interpreti o codificatori di esse, al pari dei Saggi delle Upanishad, di Gaudapâda, dei successori di Shankara, al pari di Licurgo, di Pitagora, di Plutarco, di Porfirio, di Giuliano Imperatore, ecc.

In quanto massime espressioni dellaSophia Perennis, Advaita Vedânta e Platonismo presentano straordinarie convergenze sulle nozioni fondamentali, talvolta espresse con formulazioni diverse, che in ogni caso si lumeggiano a vicenda. Ci soffermeremo su alcune importanti convergenze, tra cui quelle sotto segnalate, che contrassegnano l’a-b-c della Metafisica in quanto tale.

La funzione dei miti e dei simboli: l’approccio “esoterico” ad essi è indispensabile per oltrepassare le ristrettezze del letteralismo, tipico della religiosità inaridita, poiché non vivificata da istanze d’ordine intellettivo e metafisico.

Platone, Shankara e i rispettivi discepoli hanno denunciato apertamente l’attaccamento insipiente alla semplice lettera dei testi sacri e degli antichi miti, così come il ritualismo incompreso. È noto che Platone ha fatto un uso magistrale dei miti per supportare l’intuizione della dottrina, mentre Shankara ha commentato in modo altrettanto magistrale i simbolismi vedici. La denuncia di cui sopra è importante anche oggi, considerando lo stato d’ottusa solidificazione in cui versano le forme religiose attuali.

Non-dualità: tale espressione vuole indicare che la metafisica, in quanto apertura all’Infinito, è esente da Dualità, da contrapposizioni rigide e da qualsiasi riduzionismo unilaterale (cioè da qualsiasi tentativo di ridurre la ricchezza del reale ad un solo termine).

Infinito: cioè il Reale per eccellenza, che in quanto tale nulla lascia fuori di sé e che quindi sussume qualsiasi altra realtà, necessariamente parziale e finita; esso è detto anche Brahman nirguna (cioè senza qualità limitative), Âtman, Sé, Bene (v. Platone), Uno sovraformale (v. Plotino e Porfirio)…[1]

Come aprirsi all’infinito? Tale apertura è il senso ultimo di qualsiasi sâdhanâ (disciplina, sentiero realizzativo). L’esistenza ordinaria è “prigionia”, poiché incatenata al Finito, cioè alle Forme limitative (ego, ricchezza, oggetti di consumo etc.); la disciplina del Non attaccamento è premessa indispensabile per superare l’attaccamento incatenante, che spinge a dare valore assoluto a ciò che è relativo, il quale diventa così sovrapposizione velante (MâyâUpâdhi, le Ombre della caverna di Platone).

Aspetti della disciplina realizzativa: le varie scuole possono utilizzare metodi molto diversi, tuttavia permangono alcune linee generali, compendiabili nella nozione di Purificazione (dall’ego, dal contingente). In questo contesto, emergono sostanziose analogie tra le Virtù cardinali del Platonismo e le regole ascetiche vedantine, supporti indispensabili per una trasformazione interiore salvifica e pacificante (metànoia).

Buddhi-nous: nel processo d’espansione coscienziale rivolto all’Infinito, vengono messe in gioco le diverse capacità conoscitive, tra le quali esiste una gerarchia non arbitraria: in ultima analisi, essa poggia sui diversi gradi d’apertura coscienziale connessi alle varie facoltà. Buddhi per il Vedânta, Nous per il Platonismo, occupano il vertice di tale gerarchia perché capaci, almeno in potenza, di un’apertura totale (il mito della caverna di Platone esemplifica in modo insuperabile quanto sopra).

Il conoscere sovraindividuale: ovviamente, qualsiasi trasformazione spirituale ha come punto di partenza l’individuo, considerato nella sua globalità corporea e animica. In tale stadio iniziale, è giocoforza che l’io tenda a privilegiare le facoltà meramente individuali (sensi, manas, ragione …), capaci di una conoscenza per lo più egocentrica o comunque antropocentrica, poiché funzionale ai calcoli dell’io o di certi gruppi umani. Tuttavia, nel corso dell’itinerario realizzativo, ciò che inizialmente prevaleva, viene via via ridimensionato a favore di un’istanza universale sovraindividuale (Sé, Atman, Intelletto universale, Buddhi …).

Contemplazione e realizzazione: solo il sostare dell’anima, cioè il permanere nel silenzio interiore, nella sospensione mentale esente da desideri-attaccamenti-passioni-turbamenti… , permette l’esperienza contemplativa quale sguardo disinteressato e distaccato sull’essere, non condizionato dagli intenti manipolativi che caratterizzano le esperienze ordinarie e quelle della tecno-scienza (che appartengono al dominio di manas-ragione). L’esperienza contemplativa può allargarsi e volgersi all’Assoluto, non nel senso che l’Assoluto diventi oggetto di conoscenza: essendo Infinito, non può diventare “oggetto” di qualcos’altro, altrimenti non sarebbe tale. Solo l’Infinito può conoscere l’Infinito. La coscienza buddhica-noetica, in quanto capace d’espansione totale, può sperimentare l’Infinito in quanto lo realizza interiormente.

Yoga, cioè Unione o Identità suprema con l’Infinito-universale, è il fine ultimo della metafisica vedantina e platonica (e di qualsiasi metafisica in quanto tale).

Coscienza cosmica-universale: il saggio realizzato si colloca stabilmente nello stato di pura coscienza osservante, di puro testimone (Âtman, Intelletto sempre in atto) di ciò che i mortali considerano gli eventi del mondo. Lo sguardo cosmico del saggio è impassibile-inamovibile; lo sguardo dei mortali è sempre fluttuante, iperagitato, selettivo: essi focalizzano certi contenuti a discapito di altri, assecondando l’instabilità delle preferenze del momento; essi scrutano con inquietudine l’apparire e lo scomparire degli enti, in base alle loro particolari esigenze, che comportano necessariamente la polarità attrazione-repulsione, piacere-dolore (di qui la mancanza di universalità e la presenza di Dualità-Dvaita a vari livelli).

Equanimità: la coscienza pura di cit-intelletto sempre in atto, essendo eterna apertura universale, è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente, senza preclusioni; in tale posizione coscienziale, o anche solo in prossimità ad essa, in luogo dell’attrazione-repulsione, o di altre polarità consimili, appare l’Equanimità, congiunta ad un proporzionato grado di beatitudine (ananda), nella misura in cui nessun evento può alterare l’imperturbabilità dell’osservatore equanime, che è tale poiché trascende qualsiasi forma di contrapposizione dualistica (il compimento perfetto di tale trascendimento coincide con il Nirvana, in quanto estinzione del soffio agitante)[2].

 


[1] Nei manuali liceali e universitari, troviamo a questo proposito quasi sempre incredibili distorsioni interpretative, che impediscono una corretta comprensione della dottrina.

[2] Certamente, si potrà obiettare che tale orizzonte realizzativo appare inattingibile, non essendo alla portata delle esistenze ordinarie intrappolate nella caverna-mâyâ, e quindi nei flussi delle polarità oppositive; tuttavia, poiché vi sono diversi gradi di condizionamento e di decondizionamento, ognuno dovrebbe chiedersi: Qual è la cosmicità della mia apertura coscienziale? Qual è la consistenza dei miei attaccamenti? Di quanta equanimità sono capace nei riguardi degli esseri umani e non umani?

La semplice risposta a queste domande procura una consapevolezza che può garantire ulteriori sviluppi e favorire la dialettica ascensiva di quel “pensiero alato” che conduce all’Iperuranio, là dove sono piantate le nostre radici (v. Timeo 90 a-b) e quelle dell’intera vita cosmica (v. Katha Upanishad, II, VI, 1).

Laureato in Filosofia delle scienze, fondatore dell’Associazione Eco-Filosofica, animatore del sito filosofiatv.org, scrittore e divulgatore sul tema della decrescita. I suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente.

Autore del libro:
◾Decrescita – Idee per una civiltà post-sviluppista [di Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel], Sismondi Editore, dicembre 2009

Iniziazione alla vita spirituale

Originariamente pubblicato su “The Harmonist”, Dicembre 1928


La cerimonia di diksa, o dell’iniziazione, è quella per la quale il precettore spirituale ammette una persona allo stato di neofita sul sentiero spirituale. La cerimonia è intesa a conferire l’illuminazione spirituale attraverso l’abrogazione della colpevolezza. La sua efficacia dipende dal grado di cooperazione da parte del discepolo e, quindi, non è uguale in tutti i casi. Essa non preclude la possibilità di una regressione del novizio allo stato non-spirituale, se questi diviene negligente o si comporta malamente. L’iniziazione mette una persona sul giusto binario e impartisce anche un impulso iniziale per procedere. Non può, tuttavia, continuare a far proseguire per sempre una persona, a meno che questa non scelga di sforzarsi volontariamente. L’efficacia dell’impulso iniziale varia anche in accordo alle condizioni del recipiente. Tuttavia, sebbene la misericordia del buon precettore ci rende capaci di intravedere per un attimo l’Assoluto e la via del Suo raggiungimento, il seme che viene così piantato richiede una cura molto attenta sotto la direzione del precettore, affinchè germogli e diventi un albero capace di dare frutti e ombra. A meno che la nostra anima, di sua volontà, non scelga di servire Krishna dopo aver ottenuto un’idea generale della sua reale natura, non può trattenere a lungo la Visione Spirituale. L’anima non è mai obbligata da Krishna a servirLo. 

Tuttavia l’inziazione non è mai completamente futile. Cambia la visione del discepolo della vita. Se egli pecca dopo l’iniziazione, può cadere in un degrado ancora più profondo dei non iniziati. Ma anche se dopo l’iniziazione molti indietreggiamenti possono avvenire, generalmente non impediscono la liberazione finale. Il più piccolo barlume della reale conoscenza dell’Assoluto ha potere sufficiente per cambiare radicalmente e permanentemente l’intera nostra costituzione mentale e fisica e questo barlume è incapace di venire totalmente estinto, ad eccezione di casi straordinariamente sfortunati.

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Atmabodha – La conoscenza del Sé

1. Questi versi sono scritti a beneficio di chi è stato purificato dalla pratica di una disciplina – di chi ha acquietato la propria mente, liberandola da ogni desiderio che non sia quello di raggiungere la Liberazione.

2. Come il fuoco è la causa diretta della cottura, così la conoscenza, e solo essa, è la causa diretta della Liberazione. Senza la conoscenza non si può raggiungere la Liberazione.

3. La celebrazione di riti e il compimento di buone azioni non possono distruggere l’ignoranza, poiché non sono i suoi opposti. Solo la conoscenza distrugge l’ignoranza, come la luce distrugge le tenebre.

4. È solo a causa dell’ignoranza, che il Sé sembra essere limitato. Quando l’ignoranza è distrutta, la natura illimitata del Sé diviene manifesta; come il sole quando non è più oscurato dalle nuvole.

5. Attraverso una pratica ripetuta, la conoscenza purifica il sé individuale dall’ignoranza e rende manifesta la sua vera natura. Allora anche la conoscenza scompare, come la polvere di kataka dopo che ha purificato l’acqua.

6. Il mondo, pieno di attaccamenti, avversioni e così via, è simile a un sogno. A chi dorme esso sembra reale, ma chi è sveglio ne riconosce l’irrealtà.

7. Come la madreperla sembra argento, così il mondo sembra reale, finché non si conosce l’unico Brahman che è il fondamento di ogni cosa.

8. Il Signore supremo è la sostanza unica dalla quale il mondo è creato, conservato e dissolto, come una bolla di schiuma dall’acqua.

9. Come tutti i gioielli sono fatti d’oro, così ogni cosa al mondo è fatta dell’eterno, onnipervadente Sé, la cui natura è Esistenza e Coscienza.

10. Come lo spazio sembra diverso a causa dei diversi oggetti che lo occupano, così l’onnipervadente Signore – che è un’unica, infinita luce – sembra diverso a causa delle diverse forme in cui si riflette.

11. Proprio a causa della diversità di queste forme, alla percezione del Sé si sovrappone quella della stirpe, della casta e dello stadio di sviluppo; come alla percezione dell’acqua si sovrappone quella del sapore e del colore.

12. Composto da combinazioni dei cinque elementi e condizionato dalle azioni passate, il corpo grossolano è la base dell’esperienza del piacere e del dolore.

13. Composto dai cinque tipi di energia vitale, dalle facoltà di azione e di percezione, dalla mente, dall’intelletto e dai cinque elementi non combinati, il corpo sottile è il mezzo attraverso il quale si realizza l’esperienza.

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Shankaracharya

Śaṅkara, Śaṅkarācārya, Śaṃkara, anche Adiśaṅkara o, nell’adattamento anglosassone, Shankara (788? – 820?), è stato un teologo e filosofo indiano, nonché il fondatore della scuola dell’advaitavedānta, (propugnatrice della dottrina detta kevalādvaita).
Vissuto tra il VII e l’VIII secolo e.v. (o tra il VI e VII secolo; datazioni tradizionali oggi non confermate: 788-820)[2] ebbe una profonda influenza nello sviluppo dell’induismo attraverso la sua teologia non dualistica.
Durante la sua vita si dedicò anche alla redazione di commentari sulle Upaniṣad vediche, sul Brahmasūtra e sulla Bhagavadgītā. Ha difeso la grandezza e l’importanza delle sacre scritture induiste, le Śruti, ossia la letteratura vedica, ridando nuova linfa all’induismo nel momento in cui il buddhismo e il jainismo stavano diffondendo le proprie dottrine, da lui considerate eterodosse.

La Contentezza di Sé

Sri Shankaracarya – il grande filosofo, riformatore e devoto che, nell’VIII sec. codificò l’Advaita Vedanta ed estromise («con un abbraccio fraterno», secondo un’espressione di S. Radhakrishnan) l’eterodossia buddhista dall’India – pone la contentezza di sé (sama o serenità interiore o mente pacificata) tra le sei qualità, attinenti al terzo mezzo cardinale, che l’aspirante alla liberazione deve possedere.

I quattro mezzi sono:

  1. discriminazione tra reale e irreale (nityanityavastuvivekah);
  2. distacco dai frutti dell’azione (vairagya);
  3. l’osservanza delle sei qualità;
  4. una ferma ed ardente aspirazione alla liberazione (mumuksuta).

Le sei qualità, oltre a sama, sono: 

  • dama, l’autodominio; 
  • uparati, il raccoglimento interiore; 
  • titiksha, la pazienza costante o il coraggio morale associato al perseguimento di un ideale spirituale; 
  • shraddha, la fede;
  • samadhana, la stabilità o fermezza mentale.

Ma vediamo quale significato sia lecito qui attribuire alla “contentezza di sé”. Innanzitutto non la si deve confondere con l’autocompiacimento e con la presunzione di chi si identifica ciecamente nel perseguimento di mète effimere. Un simile comportamento, infatti, è antitetico alla qualità che stiamo esaminando, poiché implica l’ingannare se stessi. Per quanto un uomo possa tentare di autopersuadersi circa l’inesistenza di un valore ulteriore al semplice vivere temporale, nel suo intimo egli avvertirà sempre, purché lo voglia ammettere, un certo disagio o un senso di colpa derivante dalla consapevolezza di trascurare qualcosa di prezioso ed essenziale.

Per beneficiare di sama occorre dunque essere del tutto sinceri con se stessi. Ciò richiederà la forza e il coraggio di affrontare la “discesa agli inferi”, inoltrandosi oltre le maschere rassicuranti della retorica contingente, per fissare lo sguardo sul coacervo di stupidità, debolezze, avidità, crudeltà ed egoismi che, con varia intensità, albergano in noi. E, una volta individuate le nostre miserie, sarà indispensabile cominciare a lavorare strenuamente per risolverle in Conoscenza.

Soltanto se, interrogandoci con spietata sincerità, constateremo di essere realmente impegnati in tale lavoro di trasmutazione interiore potremo sentirci contenti e soddisfatti.

Oggi, purtroppo, molti uomini, plagiati dal materialismo corrente, non immaginano che vi sia qualcosa da conoscere di sé, oltre il sapere legato al transeunte, e pertanto non avvertono l’esigenza dell’autoindagine o non la ritengono nemmeno possibile. Tra quelli che, invece, osano, almeno una volta, interrogarsi nell’intimo, i più si comportano come la volpe della favola che, incapace di raggiungere l’uva posta troppo in alto, se ne allontana dicendo a se stessa, a mo’ di consolazione, «non vale la pena faticare per raggiungere dell’uva non buona». Costoro, terrorizzati dalla visione della limitatezza dello stato umano ottenebrato e non volendo riconoscere la necessità di un arduo lavoro trasmutatorio, concepiranno allora teorie o alibi capaci di capovolgere la miseria in virtù e ridurrano ogni questione gnoseologica entro i limiti angusti e contraddittori della percezione sensoriale e dell’attività mentale dicotomica; ovvero, per restare in metafora, inventeranno grappoli di plastica e se ne glorieranno sino a ché non moriranno di fame.

L’atteggiamento di cui sopra è parecchio diffuso nell’ambito del cosiddetto “neospiritualismo” contemporaneo, presso il quale “i grappoli di plastica” equivalgono alle mille teste scaturenti dall’Idra dello scentifismo o alle “nuove” vie, religioni, tecniche e conoscenze elaboratead hoc per vanificare le aspirazioni al sacro dei molti che, fuoriusciti dall’alveo delle religioni tradizionali, vagano alla perenne ricerca di personaggi carismatici ai quali assoggettarsi.

È bene sottolineare come la sincerità sia inseparabile dall’umiltà. Invero, non ci si può osservare con franchezza e sussistere in modo affermativo alla veduta della propria pochezza se non si è umili o, in altre parole, se non si è capaci di discriminare tra relativo e assoluto. Soltanto la discriminazione tra l’effimero e il permanente, offrendoci una prospettiva sovrapersonale, può aiutarci a benedire i difetti e gli ostacoli che ci assillano, discernendoli come opportunità indispensabili alla nostra maturazione coscienziale.

L’umiltà – lo si deve chiarire, vista l’accezione sottilmente negativa che questo termine è andato assumendo col dilagare del pensiero nichilista in auge – non ha nulla a che vedere con il procedere meschino di chi si sottomette per paura o per convenienza a qualsivoglia autorità mondana, compresa quella tirannica del conformismo e delle abitudini distruttive, ma rimanda piuttosto a idee di vigoria, intelligenza e nobiltà interiori. L’uomo umile sfugge alla miope logica temporale, invischiata nel fascino degli allettamenti illusori; la sua mèta essenziale è l’Essere, non l’apparire.

Un buon esempio di umiltà ce lo offre Lao Tze nel Tao Te Ching (XL, VIII):

«Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno.

Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno.

Diminuendo sempre di più si arriva al Non-agire.

Non agendo, non esiste niente che non si faccia».

E’ chiaro che, secondo l’ottica della contentezza di sé, l’erudizione fine a se stessa è cibo per i vermi nella tomba; essa ha un significato elevato unicamente se la si assimila al dito che indica, ed è un imperativo non scambiarla con la luna indicata. In ogni caso, fino a che non la si abbandona con soavità al vento e non si esce nel proprio giardino, o per le colline e per le strade a parlare con gli alberi, gli insetti, gli animali, le nuvole e gli altri uomini semplici, la sublime bellezza della vita ci sfuggirà e in noi persisterà l’impulso a volerla distruggere col pretesto di capirla e padroneggiarla. Ci si deve inchinare all’immanenza ineffabile dello Spirito, tornando a gioire come bambini per il volo di una farfalla, per il contatto tenero di una mano o per la magnificenza di una montagna, se si vuole che l’Era Oscura (che è innanzitutto una situazione di ignoranza e disagio dell’anima), con il suo strascico funesto di false idee: progresso, sviluppo, evoluzione, imperialismo, strozzinaggio, rappresaglie, ecc., si dissolva al sole.

Rispetto ai propri difetti, un’altra prospettiva – oltre all’opzione trasmutatoria alla quale si è già accennato – è quella che ci permette di osservarli e incenerirli come parvenze non nostre, giacché di essi non vi è traccia nel sonno profondo senza sogni, dove sola permane la Realtà che in verità siamo. Questa modalità del comprendere (si usa qui il termine “modalità” soltanto per comodità d’espressione: la Via Metafisica non è propriamente una “via-marga“, bensì un risvegliarsi istantaneo all’eternamente risolto e compiuto), afferente la Conoscenza-Jnana, secondo la quale le onde-individui non hanno alcuna sussistenza separata dall’oceano, è stata spesso perseguitata presso l’ortodossia religiosa, sia islamica che cristiana. Occorre ammetterlo: la Conoscenza per identità, in cui il conoscente, l’oggetto della conoscenza e il conoscere si risolvono nell’Indicibile, in genere si rivela oltremodo pericolosa per le anime che non siano mature ad accoglierla, poiché induce l’aspirante privo delle qualificazioni necessarie a credersi già realizzato e già perfetto, scavalcando la fase apofatica (neti neti), equivalente alla “morte iniziatica”, delloJnana marga. Lo si dia per certo: c’è un Silenzio da penetrare, ove le polarità coincidono e il divenire èflatus vocis. Ignorare ciò e cercare la felicità nelle cose vota all’angoscia risultante dal tentare di afferrare il vuoto.

La Conoscenza non duale è, nelle temperie attuali, per pochissimi e va trasmessa direttamente da Maestro a discepolo. Suscitano riprovazione, perciò, quei sedicenti maestri che, nell’assurda pretesa di offrire l’Advaita (la Non-dualità) a centinaia di migliaia di seguaci, non fanno che seminare presunzione e confusione.

Ma torniamo al tema principale. L’umiltà, tacitando le ragioni caduche, dedite al nulla, ci consente di ascoltare la voce del nostro vero Io (l’Atman), raggio del Sole universale, che parla nel centro del Cuore e da lì ci guida. Questa voce, presente in tutti, non è diversa né in contrapposizione alla saggezza immutabile rivelata dalle Scritture, dato che l’Onnipervadente è sia esterno che interno ed è in virtù della sua presenza in noi, in quanto intelligenza sovrasensibile (buddhi), che ci è dato ravvisare anagogicamente la Verità laddove si palesa: in un libro sacro, negli occhi di un santo-liberato, nel canto del mare. Se ne deduce che essere contenti di sé corrisponde all’affidare a tale intelligenza, stigma del Divino, il governo degli istinti, delle emozioni, dei sentimenti e delle attività mentali caratterizzanti la condizione umana.

Diversamente, si continuerà a errare nel labirinto dell’insoddisfazione, della menzogna e della frustrazione associata al perseguimento di miraggi. Si pensi ad Arjuna che, nella Bhagavad-Gita (Il Canto del Beato), si dibatte assillato da dubbi e incertezze sino a che, compresa la necessità di seguire le indicazioni di Krishna, il Maestro, coincidente con l’Atman (l’Anima immortale, il Sé), ritrova la propria dignità di re-guerriero ed il proprio coraggio. Numerosi altri esempi si potrebbero trarre dalle vite di santi o saggi appartenenti alle diverse tradizioni: queste sono plurime, ma la santità, non importa se nota od ignota, ad esse connessa è una.

Riguardo alla santità-saggezza, si puo aggiungere che tale condizione, a ben vedere, non andrebbe considerata alla stregua di un’eccezione pressoché impossibile da raggiungere, ma come la norma-dharma in senso eminente; ritenerla una mèta inusuale, fuori dalla nostra portata, significa che diamo più peso alle pseudo ragioni dell’apparenza-ignoranza invece che alle istanze scaturenti dall’intelligenza profonda (buddhi). Scrive provocatoriamente Abhinavagupta  nell’ Anuttarastika (II): «[…] Non abbandonare nulla, non prendere nulla: vivi contento di ciò che sei». Si confronti la riflessione di Abhinavagupta, metafisico shivaita dell’India medioevale, con il distico di Angelus Silesius Non desiderare nulla è beatitudine:

«I santi sono avvolti nella pace di Dio

ed hanno beatitudine perché non

bramano nulla» (169, traduz. di G. Faggin).

La semplicità e l’assenza di desiderio accomunano le due citazioni. Abnorme non è essere santi, ma il non esserlo; nel primo caso, si guadagna tutto, nel secondo, si perde tutto. E soltanto il santo, ossia colui che si riconosce nella saggezza del Cuore, realizza la contentezza di sé.