Alessandro Baricco: Mantova Lectures – Sulla Verità

Le Lectures non sono lezioni, e nemmeno uno spettacolo teatrale. Sono l’esposizione di un prolungato movimento della mente. Sono il Sapere come apparirebbe se ne facessimo un’installazione artistica. Di e con Alessandro Baricco.

Una lezione magistrale di un grandissimo comunicatore, capace di indurre con grande semplicità ma con altrettanta profondità, l’apertura mentale e la comprensione in chi ha la fortuna di ascoltarlo.

In questa puntata illustra il tema della Verità, partendo dallo spiegare la genialità insita nella mappa della metropolitana di Londra per arrivare a Dante, Kant, Beethoven.

Semplicemente meraviglioso. Regalatevi quest’ora e mezza di pura illuminazione!

L’Araba Fenice

 

Il mito più resistente alla prova del tempo. Dio del sole per gli egizi, Cristo che risorge per i primi cristiani



arabafeniceROMA – Che ci fa qui sotto? Come mai è finita a fiammeggiare anche qui dentro, al buio, in queste catacombe del Salario che suorine gentili, d’acciaio, proteggono sotto chiave. Eppure – un po’ sbiadita, ma salva – è proprio lei: l’Araba Fenice, quella già sacra per gli Egizi, che ora, però – in queste pitture del 250 d.C., in questa istantanea di Paradiso tutto nuovo, recente, cristiano – ha l’impegnativo compito di simboleggiare Gesù risorto.

A interpretare grandi storie quest’uccello mitico è abituato da millenni… Basti pensare che sul Nilo, la Fenice – ovvero l’uccello Benu, ovvero “lo Splendente” – non solo aveva un tempio a Eliopolis, a ricordo della sua Isola Sacra, “il posatoio emergente dalle acque dell’Abisso”, ma nei Testi più santi identificato addirittura con Osiride/Orione, il superdio del Sole al Tramonto – Signore dell’Occidente e dell’Aldilà – che, di tanto in tanto, Tifone/Seth smembrava, spargendone pezzi un po’ ovunque, in giro per il Mediterraneo.

Quel suo tempio di Eliopolis, nella zona del Delta, materializzò lì storie molto più antiche. Mica solo Graham Hancock ci sguazza dentro. Solo che lui, sciolto com’è, lo fa meglio di altri. In Egitto – giura Hancock, con i Testi sacri di Edfu in mano – il tempio simboleggiava non solo la Grande Collina Primordiale che emerge dalle acque di un diluvio, ma anche il vero luogo di provenienza dell’Uccello Risorto dove si svolgeva il rituale segreto della sua resurrezione. Se ne volava laggiù, ogni 540 anni, per bruciare e rinascere.

Dove sia da collocare quel suo “laggiù” occidentale, finora solo sospetti. Niente prove. Già Metastasio, comunque, ci giocava su: “Araba Fenice… Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Eppure eccola qui, ora, in queste catacombe di Santa Priscilla: adesso, però, è una Fenice cristiana con tanto di raggi intorno alla testa. Tipo Mitra. E, per di più, senza esser passata attraverso l’iconografia dei Greci, i quali non avrebbero mai ritratto il portentoso uccello. Ne scrisse Erodoto dall’Egitto: ma sue effigi greche, zero.

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Brevi appunti sul simbolismo

 

Traduzione dallo spagnolo a cura di Anna Polino

Walter Andrae – 11/08/2003

Bastano solo due paragrafi dell’archeologo e scrittore Walter Andrae per

immergersi in ciò che c’è di spirituale nell’arte dei suoi “ornamenti”.

Il simbolo, non ci stanchiamo di dirlo, è il Cammino Reale.

L’umanità… cerca di incorporare in una forma tangibile o in ogni caso percettibile,

possiamo dire che cerca di materializzare, ciò che è in se stesso intangibile e impercettibile. Produce simboli, caratteri scritti e immagini di culto di sostanza terrena, e vede in esse e attraverso esse la sostanza spirituale e divina che non ha somiglianza e che non potrebbe esser vista in altro modo. Solo quando si è acquisito questo modo di vedere le cose, possono comprendersi i simboli e le immagini; ma non quando siamo abituati a una visione ristretta delle cose che ci rinvia sempre a un’investigazione degli aspetti esteriori e formali di simboli e immagini e che ce li fa apprezzare di più, quanto più sono complicati o pienamente sviluppati. Il metodo formalista conduce sempre a un vuoto. Qui stiamo trattando solo la fine, non l’inizio, e ciò che incontriamo in questa fine è sempre qualcosa di difficile e oscuro, che non getta nessuna luce sulla via. Solo con un tale barlume di ciò che è spirituale si può raggiungere l’ultima meta, qualunque siano i metodi o i mezzi di investigazione a cui si ricorre. Quando sondiamo l’archetipo, allora troviamo che esso è ancorato a ciò che è più alto, non a ciò che è più basso.[1] Questo non significa che noi  moderni necessitiamo di perderci in una speculazione irrilevante, visto che ognuno di noi può sperimentare nel proprio microcosmo, nella propria vita e nel proprio corpo, che ha vagato disperso fin da ciò che è più alto, e che quanta più fame e sete del simbolo e della somiglianza impara a sentire, tanto più profondamente la sente; cioè basta solamente che si rammenti del potere di guardarsi dalla durezza e dalla pietrificazione interiore, in cui tutti siamo in pericolo di perderci.

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Il linguaggio degli uccelli

 

Wa eç-çaffati çaffan,

Faz‑zajirati zajran,

Fat‑taliyati dhikran…

«Per coloro che sono schierati in ordine,

E che cacciano respingendo,

E che recitano l’invocazione.»..

Corano, xxxvii, 1‑3.

Si parla spesso, in varie tradizioni, di un linguaggio misterioso chiamato «lingua degli uccelli»: designazione evidentemente simbolica, poiché l’importanza stessa attribuita alla conoscenza di questo linguaggio, come prerogativa di un’alta iniziazione, non permette di prenderla alla lettera. Si legge nel Corano: «E Salomone fu l’erede di David; e disse: «O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ullimna mantiqat‑tayri) e colmati di ogni cosa..».” (xxvii, 15). Altrove, si vedono eroi vincitori del drago, come Sigfrido nella leggenda nordica, comprendere subito dopo il linguaggio degli uccelli; e ciò permette di interpretare agevolmente il simbolismo in questione. Infatti, la vittoria sul drago ha per conseguenza immediata la conquista dell’immortalità, raffigurata da qualche oggetto al quale il drago impediva di avvicinarsi; e tale conquista dell’immortalità implica essenzialmente la reintegrazione nel centro dello stato umano, cioè nel punto in cui si stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere. Appunto questa comunicazione viene rappresentata dalla comprensione del linguaggio degli uccelli; e, di fatto, gli uccelli sono presi di frequente come simbolo degli angeli, vale a dire precisamente degli stati superiori. Abbiamo avuto occasione di citare altrove [1] la parabola evangelica in cui si parla, in questo senso, degli «uccelli del cielo» che vengono a posarsi sui rami dell’albero, di quello stesso albero che rappresenta l’asse che passa per il centro di ogni stato dell’essere e congiunge tutti gli stati fra di loro [2].

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Il simbolismo dell’aquila

Il simbolismo dell’aquila ha un carattere “tradizionale” in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è fra quelli che testimoniano un “invariante”, cioè un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante son però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo dell’aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente “olimpico” ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno Circa il carattere “olimpico” del simbolismo dell’aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest’animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario-romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. A Zeus fu connesso a sua volta un altro simbolo, quello della folgore, cosa che va ricordata, perché vedremo che per tal via esso va a completare non di rado il simbolismo stesso dell’aquila. Ricordiamo anche un altro punto: secondo l’antica visione aria del mondo, l’elemento “olimpico” si definisce soprattutto nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico. Ora, proprio con la folgore Zeus abbatte, nel mito, i titani. Negli Arii, che vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime, vediamo peraltro aquila e folgore come simboli e insegne che racchiudono, per tal via, un significato profondo e generalmente trascurato.

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