Il Djed e la Barca Neshmet ad Abydos

Barca Neshmet

Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

The Phoenix and the Lotus blossom

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Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

RICHARD WILHELM RICEVE IL TESTO DELL’ I CHING DAL MAESTRO LAO NAI XUANN UNA TRADUZIONE INIZIATICA

di Umberto Capotummino

Richard Wilhelm nel suo diario “ L’Anima della Cina”da lui pubblicato nel 1926 narra le sue esperienze di viaggio in Cina, paese in cui egli visse venticinque anni.
Questo diario di viaggio è la sua unica opera personale, benchè il suo nome sia associato all’I Ching, il Libro dei Mutamenti cinese da lui tradotto sotto la guida del maestro Lao Nai Xuann.

R. Wilhelm racconta che poco prima dello scoppio della guerra mondiale, il generale Zhou – Fu, con il quale intratteneva rapporti culturali nella colonia tedesca di Quingdao, gli propose di incontrare un anziano insegnante cinese che custodiva gli antichi insegnamenti di saggezza confuciana, era il maestro Lao Nai Xuann, da questo incontro iniziatico nacque la traduzione la spiegazione e la consegna del Libro dei Mutamenti a R. Wilhelm . Poco dopo quest’incontro Lao Nai Xuann morì e R. Wilhelm divenne l’araldo in occidente del Libro dei Mutamenti.

“Prima ancora che la tempesta si abbattesse su di noi, feci uno strano sogno. Veniva a farmi visita un uomo anziano dallo sguardo cortese e con la barba bianca. Si chiamava “montagna Lao” e mi propose di iniziarmi ai segreti delle antiche montagne. Mi inchinai dinnanzi a lui e lo ringraziai. A quel punto lui scomparve e io mi svegliai. Quelli erano i giorni in cui l’anziano governatore generale Zhou Fu, con la famiglia del quale avevo stretto rapporti amichevoli, mi fece una proposta. Disse: “Voi europei lavorate alla cultura cinese sempre e solo dall’esterno. Nessuno di voi ne comprende il significato reale e la vera profondità. Questo perché non avete mai a portata di mano gli studiosi cinesi giusti. Perfino i maestri di scuola in pensione, che avete avuto come insegnanti, comprendono solo l’involucro esterno. Non c’è da meravigliarsi che circolino tante idiozie da voi sulla Cina. Cosa ne direbbe se le procurassi un insegnante ben radicato nello spirito cinese che la introducesse alle sue profondità? Così potrebbe tradurre, ma anche scrivere qualcosa di suo affinché nel mondo la Cina non debba più continuare a vergognarsi.” Ovviamente non c’era persona più felice di me. Si scrisse allo studioso. Io preparai nei nostri palazzi un appartamento adatto a lui. Dopo un paio di settimane arrivò con la famiglia. Si chiamava Lao, i suoi antenati provenivano dalla regione del monte Lao, di cui la famiglia aveva mantenuto il nome; assomigliava come una goccia d’acqua all’antico signore che mi aveva fatto visita in sogno. Ci mettemmo subito al lavoro. Traducemmo parecchio, leggemmo molto e grazie alle nostre conversazioni quotidiane mi introdusse ai meandri più profondi della cultura cinese. Il maestro Lao mi propose di tradurre il Libro dei Mutamenti. Non era certo un testo facile, disse, ma tutto sommato nemmeno così incomprensibile come lo si descriveva solitamente. Ormai era un dato di fatto che negli ultimi tempi la vivace tradizione della Cina era sul punto di estinguersi. Lui stesso aveva avuto un insegnante vissuto interamente nell’antica tradizione. I membri della sua famiglia erano parenti stretti dei discendenti di Confucio. Il maestro possedeva un fascio di gambi sacri di millefoglie provenienti dalla tomba di Confucio e conosceva ancora l’arte, ormai quasi sconosciuta perfino in Cina, di preparare un oracolo con l’aiuto di questi gambi. Fu dunque realizzato anche questo libro. Facemmo un buon lavoro. Mi spiegò il testo in cinese, mentre io prendevo appunti. Poi lo tradussi in tedesco per me, quindi senza l’originale ritradussi in cinese il mio testo tedesco ed egli lo confrontò con l’originale per verificare che avessi colto nel segno tutti i punti. Il testo tedesco fu poi messo a punto e discusso in ogni particolare. Lo volli ancora rivedere tre o quattro volte e vi aggiunsi le spiegazioni più importanti. La traduzione dunque cresceva. Ma prima che fosse conclusa, sopraggiunse la guerra ed il mio stimato maestro Lao ritornò con gli altri studiosi nell’interno della Cina. La traduzione dunque rimase incompiuta. Già temevo che l’opera non sarebbe stata portata a termine, quando ricevetti una lettera a sorpresa proprio da lui nella quale mi chiedeva se avessi un appartamento per ospitarlo; voleva fare ritorno a Qingdao e ultimare insieme a me il Libro dei Mutamenti. Ci si può immaginare la gioia che provai quando arrivò veramente e portammo effettivamente a compimento il lavoro. In seguito partii per una vacanza in Germania. L’anziano maestro morì durante la mia assenza, dopo avermi affidato il suo testamento.”
(Richard Wilhelm, L’anima della Cina, a cura di Anna Ruchat, pg. 212-214 Edizioni IBIS Como-Pavia 2005)

Richard Wilhelm con la cravatta tra i saggi cinesi
Richard Wilhelm con la cravatta tra i saggi cinesi

Umberto Capotummino è laureato in Lettere moderne presso l’Università di Palermo dove vive e insegna. E’ pubblicista, da oltre vent’anni studia e interpreta gli aspetti filosofici, esoterici, divinatori del Libro dei Morti degli Antichi Egizi e dell’ I King o Libro dei Mutamenti dell’antica Cina. Autore di numerosi articoli e conferenziere, il suo ultimo libro è intitolato “L’Occhio della Fenice, Sapienza e divinazione dall’antica Cina all’antico Egitto”, edito dalla sua Casa Editrice Sekhem nel 2006.

Egitto: Terra del Mistero vol. 4: Il Mysterium Magnum

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Mi presento, mi chiamo Vincenzo Pisciuneri, sono trascorsi più di quarant’anni da quando ho iniziato il mio viaggio verso la Sapienza Misterica conosciuta sotto vari nomi, Vidya in Oriente, Sophia in Occidente, non accontentandomi di quanto affermato nei singoli testi, ma verificandone le affermazioni attraverso una indagine comparata in tutte le direzioni. Fu Pitagora a definire la parola filosofo come amante di Sophia, la Sapienza. La Sapienza non è opposta alla Scienza, infatti anticamente Scienza, Filosofia, Etica, formavano un corpo unico di insegnamento che era impartito a poche persone in genere negli antichi Templi, oggi l’Insegnamento è destinato ai molti, uno dei mezzi è la rete web. Leggi tutto su http://www.sapienzamisterica.it/info-e-contatti.html

Egitto: Terra del Mistero vol. 3: “Narravano Dicevano”

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Egitto: Terra del Mistero vol. 2: La sapienza senza tempo

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Egitto: Terra del Mistero vol. 1: L’eredità antidiluviana

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Mi presento, mi chiamo Vincenzo Pisciuneri, sono trascorsi più di quarant’anni da quando ho iniziato il mio viaggio verso la Sapienza Misterica conosciuta sotto vari nomi, Vidya in Oriente, Sophia in Occidente, non accontentandomi di quanto affermato nei singoli testi, ma verificandone le affermazioni attraverso una indagine comparata in tutte le direzioni. Fu Pitagora a definire la parola filosofo come amante di Sophia, la Sapienza. La Sapienza non è opposta alla Scienza, infatti anticamente Scienza, Filosofia, Etica, formavano un corpo unico di insegnamento che era impartito a poche persone in genere negli antichi Templi, oggi l’Insegnamento è destinato ai molti, uno dei mezzi è la rete web. Leggi tutto su http://www.sapienzamisterica.it/info-e-contatti.html

Sulla continuità nella Trasmigrazione

Il concetto di trasmigrazione, inerente al passaggio di un essere da uno stato di manifestazione ad un altro, è espresso, in forme diverse, da tutte le tradizioni ortodosse, e le apparenti differenze riguardanti le varie scritture non rappresentano in definitiva che modalità diverse di descrivere una stessa realtà.

La comprensione di tale fenomeno presuppone la conoscenza della teoria degli stati molteplici dell’essere, a cui questo è strettamente correlato, così come è stata descritta da René Guénon nella sua opera; in particolare esso non è da confondersi con l’idea di reincarnazione, ovvero il passaggio di un essere attraverso varie vite terrene, umane o non umane: questa idea, della quale Guénon ha dimostrato l’impossibilità metafisica, non la si ritrova in realtà in nessuna dottrina tradizionale autentica, né orientale né occidentale; compare a seguito di interpretazioni errate dei testi sacri, da parte di coloro che, limitando la realtà contingente al solo stato individuale umano, prendono alla lettera determinate espressioni simboliche, che invece si riferiscono all’intera manifestazione.

La trasmigrazione, così come viene descritta da René Guénon, pur essendo una realtà che trascende il piano umano, non è una dottrina metafisica, in quanto riguarda esclusivamente un essere contingente, condizionato; scopo ultimo dell’esistenza di tale essere non è il continuare a trasmigrare, seppur attraverso stati superiori, “spirituali”, ma il liberarsi definitivamente da questo ciclo di morti e rinascite, attraverso una reintegrazione nel Principio primo, che corrisponde ad una identificazione con il proprio Sé o Atma. Il passaggio attraverso esistenze diverse (il termine “successive” è da prendersi in senso simbolico, in quanto la dimensione temporale è inerente solo ad alcuni di questi stati) riguarda un essere non ancora liberato, quale ad esempio un uomo ordinario, che non ottiene la liberazione in vita, né al momento della morte, ed il cui destino sarà quello di manifestarsi in altri stati, individuali o sovraindividuali a seconda dei risultati effettivi raggiunti, ovvero di seguire quella particolare via che gli induisti chiamano pitri yana.
Nel caso di passaggio ad altri stati individuali, la trasmigrazione è vista come la prospettiva più temibile, e corrisponde alla cosiddetta “seconda morte”, in quanto l’essere potrebbe rinascere in un altro stato in una posizione non più “centrale”, come è quella dell’uomo nel nostro, e trovarsi dunque in una situazione di svantaggio rispetto a quella attuale; dal punto di vista della teologia cattolica questo percorso è assimilabile ad una discesa verso degli stati infernali.
Il passaggio a stati sovraindividuali, corrispondenti ai Cieli del Paradiso, il cui culmine è rappresentato dal Brahmaloka (qui si tratta del Brahma non supremo – Brahma saguna o Iswhara -, identificabile con l’Essere puro o il Dio delle religioni monoteiste), è sempre interpretabile come una trasmigrazione, che per l’essere umano ordinario, quello a cui si rivolge il punto di vista religioso, potrà avvenire solo alla fine del nostro ciclo cosmico o pralaya, fino al quale egli si troverà situato in un “prolungamento” dello stato individuale umano, in un “luogo” rappresentato nella cosmologia dantesca dalla montagna del Purgatorio. In questo caso la trasmigrazione può avere una valenza positiva, essendo il risultato dell’ottenimento di quella condizione particolare che il cristianesimo chiama “salvezza”; tale senso benefico riguarda tutti quegli esseri umani, e sono la maggioranza, che non possono aspirare, per le proprie limitazioni individuali, a stati più elevati. Per completezza, diremo che il passaggio diretto a stati sovraindividuali nel momento della morte, è previsto dalla dottrina cattolica, ma solo per esseri eccezionali come i santi.

Il punto di vista metafisico trascende queste considerazioni; l’identificazione con l’Essere o Iswhara pone fine alla trasmigrazione, essendo una condizione al di là del divenire; e tutto ciò che si trova oltre l’Essere, il Non-Essere totalmente incondizionato o Brahma nirguna, che costituisce in proprio l’oggetto della metafisica, non può a maggior ragione essere soggetto ad alcun mutamento. Di conseguenza non è possibile affermare, senza cadere in un errore dottrinale, che sia il Sé a trasmigrare.

Ritornando alla condizione che è attualmente la nostra, possiamo domandarci quale sia la parte del composto umano ad essere soggetta alla trasmigrazione. Guénon sottolinea nella sua opera la continuità esistente tra i vari stati dell’essere, indicando che nelle incessanti modificazioni a cui è soggetto l’individuo che soggiace al samsara, è stabilito un collegamento che non viene mai a rompersi finché l’essere non è liberato. Questo è evidente durante la vita umana, dove la stessa individualità permane attraverso la continua modifica degli elementi corporei che ne costituiscono l’involucro più esterno, ed anche di quegli elementi sottili più collegati allo stato corporeo. Una comparabile continuità si deve poter osservare, per analogia, nel passaggio da uno stato all’altro, ma ad un grado diverso rispetto a quella esistente nell’ambito di uno stesso stato, poiché in quest’ultimo caso si assiste alla dissoluzione permanente di alcune modalità; ad esempio al termine del nostro stato attuale, a quello della modalità corporea e di parte di quella sottile, per cui l’individuo non può più dirsi propriamente umano.

Per una migliore comprensione di questo argomento, ci siamo rivolti ad alcuni testi tratti dalle Upanishad, cercando di interpretarli alla luce dell’opera di René Guénon. Volendo affrontare la lettura di questi testi, un importante aspetto da tenere in considerazione è che il linguaggio simbolico non è mai sistematico: uno stesso simbolo può assumere significati diversi a seconda del contesto in cui viene utilizzato, a volte anche comprendendo punti di vista opposti all’interno di questa pluralità.
Il testo seguente della Brhadaranyaka Upanishad tratta della natura di Hiranyagarbha, spiegando l’apparente contraddizione delle Scritture che a volte lo presentano come trasmigrante e altre come immutabile; la spiegazione fornirà un altro spunto di riflessione su ciò che stiamo trattando.

“Obiezione: «Riguardo a ciò vi sono opinioni contrastanti. Alcuni sostengono che Hiranyagarbha è proprio il Supremo [Sé-Brahma], altri che Esso è l’essere trasmigrante [jiva]».

Risposta: «Concezioni diverse (in relazione a vari punti o aspetti della dottrina) sono pienamente ammissibili. Infatti si possono a ragione ammettere differenti concezioni, le quali sono diversificate in funzione della qualificazione delle sovrapposizioni […] La natura di essere trasmigrante non appartiene realmente [a Prajapati-Hiranyagarbha], ma è dovuta alle sovrapposizioni […] Invero Egli è di per sé al di là del divenire trasmigratorio. Così Hiranyagarbha ha al tempo stesso natura sia di unità sia di molteplicità. E la stessa cosa è per tutti gli esseri viventi, poiché la Shruti afferma: “Tu sei Quello“. Invero le affermazioni pronunciate sia dalla Shruti che dalla Smriti, fatte in relazione all’estrema purezza delle sue sovrapposizioni, descrivono generalmente Hiranyagarbha proprio in quanto è il Supremo [Sé-Brahma], mentre solo in minima parte ne presentano una natura trasmigratoria. Invece, per quanto concerne i jiva, generalmente viene presentata la loro natura trasmigratoria, a causa dell’impurità che accompagna le loro sovrapposizioni [quali corpo, sensi ecc.], mentre qualsiasi ente, allorché si è completamente affrancato dalle diverse sovrapposizioni, viene descritto sia dalla Shruti sia dalla Smriti proprio come il Supremo [Sé-Brahma]»” (Commento di Shankaracharya alla Brhadaranyaka Upanishad, 1.4.6).

Dal Commento si evince chiaramente che la natura trasmigratoria non può mai riferirsi al Sé. Essa può competere ad Hiranyagarbha in quanto possiede già delle sovrapposizioni, ovvero delle qualificazioni che lo identificano ad un particolare aspetto di Prajapati; d’altronde queste sono di «estrema purezza», poiché Hiranyagarbha, «insieme sintetico di vita» o germe della manifestazione sottile, appartiene all’ambito della manifestazione informale. Per questo motivo esso è spesso assimilato a Prajapati stesso e presentato al di là del divenire trasmigratorio. La natura trasmigratoria è invece una caratterista dell’anima vivente, a motivo dei suoi involucri di natura sottile e corporea, e proprio in quanto essa è ancora identificata con tali involucri; l’anima che ha ottenuto la liberazione, identificandosi con il Principio, non è più soggetta agli indefiniti cicli di morte e rinascita.

Nella Brhadaranyaka Upanishad è detto che solo in quanto il sé possiede ancora delle sovrapposizioni, inerenti al corpo sottile ed all’intelletto, dopo essersi ritirato “nel proprio cuore” ed aver riassorbito le proprie funzioni, può dipartire dirigendosi verso altri mondi: «proprio attraverso l’apice del cuore, il sé consustanziato di conoscenza che ha il veicolo sottile come sovrapposizione limitante, se ne allontana, cioè si distacca […] l’esistenza relativa, consistente in tutte le forme di attività quali nascita e morte, andare e venire ecc. è nel Sé attraverso tali sovrapposizioni limitanti […] quando quello, il sé consustanziato di conoscenza, si diparte, dirigendosi verso l’altro mondo, il prana lo segue, come un primo ministro segue il re […] questo sé […] diviene pervaso dalla conoscenza distintiva in dipendenza della propria azione, per cui non è indipendente […] la conoscenza e l’azione lo seguono, cioè [seguono] il sé [individuato] che si sta trasferendo verso il mondo successivo […]».(Shankaracharya , Brhadaranyaka Upanishad 4.4 1-2).

In particolare nell’Upanishad è ben evidenziata la concatenazione causale: desiderio-volontà-azione-frutto, che vede nel desiderio la prima causa del divenire ciclico. Per contro è detto: «invece colui che non nutre desiderio non trasmigra in nessun luogo […] in che modo i desideri vengono appagati? Soltanto divenendo il Sé l’oggetto stesso del desiderio, mentre per lui non vi è nessun altro ente distinto che possa costituire oggetto di desiderio. Per questi esiste soltanto il Sé, senza interno e senza esterno, intero, unità assoluta di pura conoscenza, perfettamente omogeneo, mentre non vi è alcun altro ente distinto, né in alto, né in mezzo, né in basso, che possa diventare oggetto di desiderio […] pertanto, essendo assente il desiderio, colui che non nutre desiderio non rinasce e, quindi, consegue la liberazione». (Shankaracharya , Brhadaranyaka Upanishad 4.4 6). Da questo possiamo dedurre che ottenuta l’identificazione con il Sé incondizionato non vi può essere rinascita nella manifestazione.

Il principio dottrinale sottostante alla questione è che tutti gli stati condizionati sono soggetti a trasmigrazione, proprio in quanto condizionati; infatti tali condizioni sono esattamente quelle del samsara, mentre l’unico stato a non essere soggetto a trasmigrazione è l’Incondizionato. L’essere che passa attraverso la “seconda morte” da uno stato di prolungamento dell’individualità umana -dove esiste in forma sottile- ad un altro stato, possiederà per tale ragione gli “involucri” corrispondenti alle condizioni particolari dello stato in cui verrà a trovarsi, questo essendo determinato dalle attuali condizioni della sua coscienza individuale, con la quale tale essere tenderà ad identificarsi a causa del velo di ignoranza da cui è ottenebrato. Proprio lo spessore di questo velo andrà a determinare le condizioni più o meno favorevoli della futura nascita per quella individualità.

Concludendo, è necessario distinguere il Sé imperituro (Atma) dal sé incarnato o sé individuale (Jivatma); e solo a quest’ultimo può essere riferita la trasmigrazione. Sono i «due uccelli, compagni inseparabilmente uniti, che stanno su uno stesso albero; l’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda senza mangiare» citati da Guénon ne L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, di cui dice che «il primo è jivatma, impegnato nel campo dell’azione e delle sue conseguenze [e la trasmigrazione è una conseguenza dell’azione, N.d.R.]; il secondo è l’Atma incondizionato, cioè pura Conoscenza; se sono inseparabilmente uniti, è perché il primo non è distinto dal secondo che in modo illusorio» – e proprio a questa illusione si riferiscono secondo noi alcuni brani, quali ad esempio il commento di Shankaracharya al versetto della Brhadaranyaka Upanishad 4.4.5 dove è detto: «in verità questo sé è il Brahman». Tale commento riporta che «in verità questo sé che trasmigra è proprio il Brahman supremo, il quale è al di là della fame e della sete». Ma cosa significa essere “al di là della fame e della sete”, se non essere al di là del desiderio? Le parole di Shankaracharya non sono dunque in contraddizione con gli scritti precedenti, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale; qui si sta esprimendo il punto di vista metafisico, nel quale non esiste nessun essere individuale e nessuna trasmigrazione, perché in verità niente è al di fuori, e nulla è mai uscito, dalla Possibilità universale.

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