Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

Platone - Non dualità

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DALLA PARTE DELLA SAGGEZZA NON-DUALE

Metafisica della non-dualità, verità e pluralismo

di Paolo Scroccaro

La metafisica della non-dualità, ossia la saggezza nel suo significato più profondo, è perlopiù ignorata, deformata o vista con supponenza dalla subcultura contemporanea ormai dilagante, che al massimo la considera un orpello museale. Con questo intervento, estraneo alla retorica tradizionalista, si tenta di restituirne per sommi tratti il senso più essenziale, mostrandone l’importanza per il nostro tempo.

Oblio della verità e violenza

L’età moderna e contemporanea sembra aver rinunciato alla filosofia come ricerca della saggezza, tramite un lungo percorso che si snoda attraverso le varie filosofie che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, quanto meno da Cartesio in poi.

Sarebbe interessante riflettere sulle modalità che via via, a partire dalla sfera teoretica-epistemologica, hanno permesso di mettere al bando l’intuizione intellettuale, e con essa l’apertura al Tutto incircoscrivibile, determinando così una serie di contraccolpi a livello materiale e spirituale, che nel loro intreccio costituiscono la civiltà occidentale moderna, ormai per altro estesa anche alle aree orientali, sempre più occidentalizzate.

Gli spazi un tempo vivificati e illuminati dalla saggezza aperta al Tutto, sono stati così occupati da forze invasive che sembrano alimentare la loro esistenza proprio in assenza di tale orientamento correttivo: tra queste, le più prepotenti sembrano essere le forze economiche del mercato e della pianificazione, l’esaltazione tecnocratica, la scienza dominante o “normale (nel senso di Thomas Kuhn), e le politiche ad esse asservite. Storia dei nostri giorni.

Molto spesso queste forze, quasi per sgravio di coscienza, tentano di giustificare il ripudio della Saggezza tradizionale, rileggendo la storia di essa come storia di violenza, di imposizione, di esclusione… anche se queste forze che denunciano possibili prepotenze altrui, in realtà hanno generato dispositivi e meccanismi di sopraffazione e di dominio, tra i più potenti ed efficaci in assoluto, grazie soprattutto alle superiori capacità operative dell’Apparato tecnico-scientifico dominante.

Si tratta di temi che abbiamo in parte già affrontato, prendendo a pretesto vari autori.

Limitiamoci ora al primo aspetto: la Saggezza tradizionale è intrinsecamente correlata a forme di violenza e sopraffazione?

Questa tesi ritorna spesso negli autori contemporanei: per farsene un’idea, basterà considerare certi testi, espressione della mentalità corrente, quali ad esempio La società aperta e i suoi nemici, di K. Popper, oppure, su un altro piano, Il regime della verità, di E. Pace.

K. Popper considera la metafisica platonica, con le sue pretese di verità, come un sistema chiuso, dogmatico, nemico del pluralismo …, ne discenderebbe una dottrina sociopolitica totalitaria, come quella che sarebbe delineata in Stato e ancor più in Leggi. Le critiche, apertamente o velatamente, riguardano tutte le filosofie che in una forma o nell’altra vorrebbero imitare il Platonismo.

Secondo un’opinione corrente, le pretese di possedere la Verità, avrebbero due espressioni privilegiate: la metafisica (sul modello di Platone), e la religione (sul modello del fondamentalismo).

Con quest’ultimo se la prende E. Pace, criticando il fondamentalismo islamico, evangelico etc., poiché l’integralismo religioso, in nome della Verità, pretenderebbe di imporre con la forza un regime autoritario, che di tale presunta Verità trascendente vorrebbe essere la proiezione nella storia.

Più in generale, le pretese della metafisica e del fondamentalismo (che in realtà sono molto diverse) vengono accusate di riduzionismo e di volontà liberticida, poiché tenderebbero a ridurre la ricchezza, la molteplicità del reale, ad un Principio unico, che nelle diverse correnti spirituali prenderebbe il nome di Dio, Assoluto, Fondamento, Bene … o più semplicemente Uno, termine che ricapitola tutti gli altri.

È diffusa l’espressione monismo, a volte in senso spregiativo, per riassumere il carattere essenziale di quelle visioni del mondo che sarebbero penalizzate da un’impostazione unilaterale, volta a ridurre ad un solo termine tutto ciò che è. In effetti, tale locuzione è comunque da prendere con le riserve del caso, per motivi facilmente intuibili[1] .

Perfino le accuse di Heidegger e Severino alla metafisica, anche quando non coincidono con quelle di cui sopra, risentono a vario titolo di tale pregiudizio antimetafisico, fatto che meriterebbe di esser approfondito a parte. Esaminiamo ora gli aspetti principali del problema posto, alla luce di una domanda di fondo: cosa c’entra la metafisica non-dualistica con il riduzionismo monistico?

Come intendere l’Uno?

Poniamo subito un criterio metodologico di onestà intellettuale, che non dovrebbe mai esser disatteso: quando si giudica una corrente spirituale, il punto di riferimento per una seria disamina deve essere cercato nelle sue manifestazioni più autentiche, e non in quelle più degenerate o comunque controverse che certo non possono mai mancare nella storia!

Non possiamo penetrare l’insegnamento di Gesù, di Muhammad, di Shankara, di Plotino o altri speculando sulle perversioni teoriche e pratiche dovute all’inquisitore medievale, al prete sprovveduto, al fanatico integralista, al millantato guru e così via …

La mediocrità intellettiva di troppi discepoli presunti tali o degli eruditi, non sarà di alcun aiuto ai fini della comprensione della dottrina. Nel caso della nozione di Uno (e di molte altre), vengono ripetute con sospetto fervore semplificazioni non sempre lecite, non sempre coerenti, che in gran parte sono state raccattate qua e là ignorando il criterio di onestà intellettuale sopra segnalato, per malafede o imperizia: esse non possono pretendere attenuanti, anche perché le fonti non mancano, e qui ci limiteremo a qualche esempio, di volta in volta.

Giova ripetere una volta di più un tratto basilare di qualsiasi metafisica non-duale: dicendo che il Principio, o l’Assoluto, o Dio, o il Fondamento, o Brahman … è Uno, si afferma qualcosa che si impone intuitivamente e logicamente per la sua trasparenza, incontrovertibilità e semplicità.

Anche se i vari termini manifestano sfaccettature di significato un po’ diverse, essi presentano altresì una linea di continuità. Come potrebbe il Principio, o l’Assoluto etc. esser duplice? Due assoluti si limiterebbero a vicenda, per cui non potrebbero esser tali, per la contraddizione che non lo consente.

Di qui una qualche preferenza accordata al termine Uno per indicare la Realtà Assoluta, accanto ad altre espressioni che, per altri seri motivi, sono da sempre utilizzate in metafisica e in certe religioni (soprattutto nelle rispettive interpretazioni esoteriche).

In questo contesto, può comparire anche l’espressione non-dualità, per mettere tra l’altro in risalto che il Principio è per forza esente da dualità, dato che essa comporterebbe anche limitazione, il che non può essere nel caso dell’Assoluto.

La dualità si addice invece agli enti, i quali sono necessariamente caratterizzati da qualche aspetto limitativo che li distingue dagli altri.

L’Uno, cioè l’infinito non-duale

Ovviamente il Reale-Assoluto, essendo Uno per definizione, nulla può avere fuori di sé, altrimenti sarebbe limitato da una realtà ulteriore: perciò si dice che l’Uno è Incondizionato, senza secondo, o se si preferisce Infinito. Essendo tale, è per forza di cose onnicomprensivo. In un certo senso, solo l’Uno, cioè l’Infinito, è[2] , nulla potendovi essere in aggiunta, ed essendo tutto da sempre (eternamente) già incluso nell’Infinito, che altrimenti non sarebbe tale…

Ciò non comporta la nientificazione degli enti finiti e molteplici, come talvolta si crede: semplicemente, gli enti tutti, senza alcuna eccezione possibile, sono reali non in quanto separati ma in quanto partecipano dell’Infinito, che può quindi essere immaginato come una Dimora Ospitale che, essendo Infinita, accoglie da sempre tutti gli enti senza preclusioni di sorta.

Se l’Infinito fosse inospitale ed escludesse qualche ente, in quanto tale questi dimorerebbe altrove, ma allora ciò che si considera l’Infinito non potrebbe esserlo, anche qui per la contraddizione che non lo consente.

Quanto detto è più che sufficiente per intuire che la metafisica dell’Uno, cioè dell’Infinito, cioè della Non-Dualità[3] , lungi dall’avere quel carattere riduttivistico che alcuni hanno ad essa abusivamente rimproverato, per superficialità o altro, permette invece un pluralismo integrale[4] , proprio perché è la Parola di quella Casa Ospitale, che da sempre è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente[5].

Gli abitatori dell’infinito

Gli enti, umani e non, sono da sempre chiamati a raccolta nell’universale dimora dell’Infinito: è questa consapevolezza che si richiede anche all’uomo, affinché il suo abitare non pretenda di diventare invadente nei confronti dell’altro Ente, richiedendo impossibili privilegi nell’economia del tutto.

Antropocentrismo, Utilitarismo, Apparato tecnico-scientifico … sono alcune delle espressioni dell’arroganza umana, che vorrebbe imporre l’impossibile: vorrebbe cioè che la Dimora Ospitale dell’Infinito diventasse una Dimora Inospitale ad uso dell’uomo, e specialmente di certi uomini, quelli che, oggi, operano per conto dell’Apparato, essendone i funzionari.

In alternativa, ricorderemo che l’umiltà dell’abitatore ospitato e riconoscente trova invece una sublime esemplificazione nella metafisica dei Pellerossa, presso i quali è tradizionalmente molto vivo il sentimento dello “esser ospitati” nel mondo, il che spiega molto bene perché essi abbiano solo sfiorato la Terra, invece di calpestarla[6].

La natura dell’errore, cioè della violenza

Ecco la radice dell’errore, cioè di qualsiasi errore in quanto tale: l’inospitalità, l’arroganza. Essa si mostra quando un qualunque ente finito (si prenda il termine in un senso molto estensivo e variegato – anche un’ipotesi scientifica è un ente finito) pretende l’impossibile, cioè di farsi esso stesso Assoluto[7], volendo tenere solo o principalmente per sé la Dimora dell’Infinito, dimenticando che, nell’Infinito, qualsiasi ente è a casa propria, e non solo alcuni.

Da sempre, la metafisica, o se si preferisce la sophia perennis, è impegnata a denunciare la struttura fondamentale dell’errore, consistente nello scambiare il relativo con l’Assoluto, il finito con l’Infinito, l’Abitatore con la Dimora, la Parte con il Tutto…

Alcune immagini elaborate nelle scuole spirituali, o forse donate dagli dei (si sarebbe detto in altri tempi), per condurre gli umani erranti ed educarli all’Ospitalità, sono celebri e particolarmente suggestive: esse hanno contribuito ad orientare le civiltà del passato, in Occidente come in Oriente, conferendo ad esse misura e dignità, limitando la tracotanza della parte umana degli Abitatori dell’Infinito.

Occorre ammettere che nel mondo moderno e contemporaneo, tali insegnamenti vengono per lo più ignorati, se non derisi, e la supponenza della parte umana ha raggiunto livelli che un tempo erano impensabili: l’uomo dell’Apparato tecnico-scientifico e delle forze economiche dominanti pensa, anzi crede, di essere il padrone della Dimora dell’Infinito; crede che gli enti siano manipolabili a piacimento; crede di custodire la chiave che apre e chiude la porta della Dimora, facendovi entrare ed uscire gli enti, a comando; crede che tutto questo generi qualcosa di positivo, cui ha imposto dei nomi rassicuranti: Sviluppo, Progresso, P.N.L., Benessere, Felicità per il maggior numero …[8].

Molti di quei saperi che oggi portano il nome di Scienza in generale, ma che in realtà ne sono solo una componente (e non certo la migliore), sono espressione del sistema dominante, e in quanto tali sono finanziati, protetti, diffusi, imposti nelle scuole e nelle università, nella misura in cui sono funzionali ai progetti operativi della volontà di potenza che vuole padroneggiare la Dimora dell’Infinito; essi sono in contrasto con i saperi indipendenti, e non hanno più nulla in comune con i saperi di un tempo, per lo più espressione di quella saggezza non-duale, che insegnava a contemplare in silenzio l’Infinito e i suoi molteplici Abitatori; che ricordava che nella grande casa dell’Essere, c’è un posto per ogni Abitatore; che insegnava a mettere tra parentesi la presunzione umana[9], rammentando che l’uomo è solo uno degli Abitatori, e che non è lecito tentare di conculcare una prospettiva meramente umana.

Il carattere non-umano del contemplare.

Riassumendo: molti saperi che gli umani oggi valutano tali, sono in realtà interpretazioni funzionali ad una prospettiva parziale, per lo più antropocentrica, la quale, coscientemente o meno, opera come se il mondo esistesse in esclusiva per l’uomo stesso, e (ormai) per l’Apparato di cui è funzionario.

In tempi meno oscuri, si riteneva che il nome di Scienza dovesse spettare prima di tutto a quel conoscere disinteressato, esente da egoicità e utilitarismi, che come tale era quindi estraneo ad ogni forma di antropocentrismo e di attaccamento. Solo un conoscere purgato di tali elementi limitativi era degno del nome di Scienza, e Contemplazione era il termine utilizzato nella tradizione greco-latina per designare l’atto conoscitivo purificato, e quindi autentico, perché virtualmente capace di una prospettiva non meramente umana, perlopiù tramite una facoltà sovraindividuale designata nella stessa tradizione come nous o intelletto (il carattere “divino” del nous non indica nulla di misticoide e di misterioso, ma la qualità non meramente umana e non meramente individuale di tale facoltà).

La cultura moderna, invece, in nome di un acritico “hic homo intelligit“, deride noùs e contemplazione, di cui nulla sa (non promuovendone alcuna esperienza), ritenendo dogmaticamente che ogni posizione conoscitiva debba necessariamente esser solo umana, risultando ad essa impensabile il trascendimento dell’unico orizzonte alla sua portata. In questo modo, umanesimo, relativismo e tecnoscienza manipolatrice vengono assolutizzati; di conseguenza, la prospettiva unilaterale e ammorbante del mondo umano e dell’Apparato si arroga il diritto di predazione su tutto il resto, operando nel segno della violenza rispetto a tutti gli altri enti (e perfino all’interno del mondo umano).

Al contrario, l’intellezione almeno tendenzialmente pura e sovraindividuale[10] è il tentativo di guardare agli enti e all’Infinito non con l’occhio parziale e aggressivo di un particolare ente, che vede l’altro come asservito anticipatamente, ma con lo sguardo orientativamente imparziale e distaccato della sapienza non-umana, che cerca di vedere ogni cosa con equanimità rigorosa e per quanto può sub specie aeternitatis.

Più ci si avvicina a tale sguardo, più ci si allontana dalla prepotenza legata agli sguardi interessati, e subentra una dimensione pacificante.

Nel contemplare da tali altezze, non accessibili ai più, emerge la piccineria e la violenza più o meno mascherata dei criteri con cui gli umani solitamente valutano gli enti e gli eventi del mondo.

Il moralismo umanistico come violenza

Gli umani stimano bene o male gli eventi, valutandone il tornaconto o meno; anche le situazioni considerate più nobili spesso finiscono per tradire la presenza di un calcolo meschino e di una mentalità ristretta.

Schopenhauer e Nietzsche hanno avuto il merito di denunciare apertamente il carattere ipocrita e mistificatorio delle varie idee morali e dello stesso “principio di ragione”, che spesso cerca di fondare i sistemi morali che vanno per la maggiore.

Qualche esempio.

  • La morale razionale di Kant, che vieta di trattare l’uomo solo come mezzo, nello stesso tempo permette che tutti gli altri enti siano asserviti al mondo umano, giustificandone tutte le prevaricazioni in nome di una presunta superiorità della coscienza morale-razionale! In realtà, il tanto declamato rigorismo kantiano prevede una rigorosa e fastidiosa giustificazione delle prepotenze degli umani contro i non-umani. Da questo punto di vista, Kant ha fatto scuola: gli idealisti come Fichte e Hegel conservano questo aspetto sgradevole del Kantismo; la formula da essi preferita è quella della supremazia dello Spirito (leggasi mondo umano) sulla Natura, in nome del progresso della libertà del primo, della morale, dell’eticità, della ragione….
  • Il Marxismo (molto più di Marx) su questo punto, è stranamente allineato con i filosofi borghesi: l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive, prevede espressamente il crescente dominio sul mondo non-umano, il che è considerato acriticamente un fatto di per se stesso positivo, come tale apportatore di civiltà.

Si potrebbe rivisitare tutta la storia del pensiero moderno, per farne emergere la continuità di fondo, ben più forte delle eventuali differenze ideologico-politiche.

Solo le migliori correnti spirituali, espressioni della metafisica non dualistica, sono estranee a tali vedute anguste; in tempi abbastanza recenti, anche l’Ecologia Profonda ha dato dignitosi contributi, volti a ridimensionare l’invadente protagonismo degli umani, in una prospettiva radicalmente ecocentrica.

È auspicabile un possibile connubio, ormai, tra saggezza non-duale ed ecologia profonda, capace di aprire spazi di cultura, di civiltà, di modi di essere, non risucchiabili nella potenza dell’Apparato tecnico-scientifico e delle Forze Economiche che oggi condizionano e devastano il mondo.

Sistema chiuso e sistema aperto

Un pervicace luogo comune, diffuso negli ambienti antimetafisici, pretende che la metafisica sia essenzialmente un sistema di pensiero definito e chiuso, come tale responsabile di logiche oppressive ed autoritarie, che vietano qualsiasi apertura e qualsiasi pluralismo. La civiltà libera-democratica comporterebbe invece una società aperta, poiché basata sul rifiuto della metafisica, e sull’accettazione del razionalismo critico, della scienza, della democrazia … .

Tra i liberaldemocratici, K. Popper (che pure ha notevoli meriti in campo epistemologico) è uno dei maggiori sostenitori di questa tesi, la cui diffusione è pari all’infondatezza, dato che lo stesso Popper ha mostrato di non conoscere i termini più indispensabili del problema e di travisare perfino certi concetti essenziali (v. la nozione di Bene in Platone).

Abbiamo già detto che la metafisica si rivolge principalmente all’Infinito il quale, per la sua stessa natura, sfugge ad ogni definizione concettuale, poiché ogni definizione è un tentativo di delimitare ciò che, in questo caso, è al di là di ogni delimitazione[11].

Ne discende che nessun sistema concettuale può pretendere di essere una descrizione assoluta dell’Assoluto (cioè un Sistema chiuso)[12]: al contrario, anche le descrizioni più profonde ed elaborate dovranno necessariamente esser considerate delle descrizioni approssimative, capaci di indicare solo qualche aspetto della Realtà.

Di conseguenza, qualsiasi formulazione metafisica potrà esser accettata, purché accompagnata dalla consapevolezza dei suoi limiti intrinseci, consentendo uno spazio illimitato per altre possibili letture dell’Infinito, mai esaustive: tutto questo, se proprio si vuol conservare il termine “sistema”, costituisce un Sistema Aperto, ed è questo atteggiamento di Inesauribile Apertura a qualificare la metafisica in quanto tale, come hanno ripetuto in modo assai ridondante i Neoplatonici.

Il sistema chiuso, invece, le è strutturalmente estraneo, contrariamente a quanto avventatamente sostenuto da Popper, da troppa manualistica filosofica e da vari inesperti in materia[13].

Il linguaggio simbolico e l’infinito

Riguardo al linguaggio in generale, si possono svolgere le stesse considerazioni, poiché nessun termine linguistico può esser veramente “comprensivo” dell’Infinito.

Qualsiasi sistema linguistico-concettuale è sempre in ritardo strutturale, dato l’inesauribile traboccamento della Realtà totale, e tale divario non è mai colmabile.

Con questo, non si intende rifiutare il linguaggio concettuale: semplicemente, si prende atto dei limiti intrinseci che qualsiasi operazione linguistico-concettuale porta inevitabilmente con sé.

La prudenza nei confronti del linguaggio non sfocia in un oscuro misticismo, in fantasie irrazionalistiche: al contrario, permette di salvaguardare anche tale linguaggio, a patto di conoscerne i limiti, evitando le assolutizzazioni fuori posto e controproducenti, come quelle realizzate da Cartesio o da Hegel.

Non esistono idee chiare e distinte, nel senso di Cartesio, sostanzialmente corrispondenti alle cose; il linguaggio matematico non è affatto più chiaro e preciso di altri, e soprattutto non corrisponde meglio di altri alla natura del reale, come pretende gran parte della cultura moderna, di derivazione cartesiana e galileiana.

L’hegelismo, che ha il merito di avere ben compreso i difetti del razionalismo cartesiano, ha creduto vanamente di compensarli inventandosi la ragion dialettica, capace di una concettualizzazione dinamica esente dalle rigidità del concetto “astratto”, ed in grado quindi di esporre compiutamente l’Assoluto nella sua totalità, senza ripiegare nelle parzialità della ragione non-dialettica.

Come si può notare da questi cenni cursori, sono principalmente le filosofie moderne, “razionali” e “critiche”, ad esser talvolta dogmatiche, stante la loro pretesa di elaborare un linguaggio concettuale in grado di definire il Reale e di rinchiuderlo nei confini delle formulazioni cartesiane, hegeliane o altro.

Al polo opposto, altre correnti moderne, rifiutando tali insane dogmatizzazioni, eludono il problema rifiutandosi a priori di parlarne dato che perfino gli enti risulterebbero insondabili data l’opacità del mondo in cui viviamo.

La cultura moderna-contemporanea risulta marchiata da questi estremismi, che sono tali per eccesso (il linguaggio circoscrive l’Assoluto, il Reale, l’Ente) o per difetto (l’Assoluto non esiste, e se esiste, comunque sfugge totalmente … non resta, eventualmente, che la fede!).

Questa mancanza di equilibrio è un altro preoccupante “segno dei tempi”; in alternativa, una soluzione misurata è ben presente nelle varie espressioni della Sophia Perennis, là dove si dice che il linguaggio, non potendo circoscrivere l’Infinito che travalica ogni confinamento, può però alludere ad esso o indicarne taluni aspetti, così da esser d’aiuto quale sostegno per una intuizione dell’Infinito stesso.

Il linguaggio così inteso, invece di voler catturare, misurare e rinchiudere (l’Infinito, gli Enti), si propone come supporto che aiuta la visione intuitiva di ciò che prima non si lasciava nemmeno scorgere. Tale linguaggio, stante la funzione di cui sopra, appare dunque “disvelante”, nel senso che, togliendo il velo, lascia vedere qualcosa dell’Infinito; oppure, il che è lo stesso, appare come “apertura”, poiché apre (sostiene, favorisce) ulteriori possibilità di visione, prima precluse.

Gli antichi chiamavano mitico-simbolico questo linguaggio tipico di arcaiche saggezze, per distinguerlo da altre forme linguistiche; rimanendo in Occidente, Pitagora, Platone e i loro discepoli ci hanno lasciato le più belle testimonianze di questa pratica simbolica del linguaggio: i “Numeri” di Pitagora ed i Miti di Platone sono appunto Simboli che stimolano e sorreggono il lampo dell’intuizione[14], la cui luce arriva così ad irraggiarsi in contrade prima inesplorate e misteriose, per lo spirito dormiente.

È la cultura moderna ad esaltare, in una forma o nell’altra, il linguaggio concettuale, quale linguaggio catturante-misurante, teso a dominare “scientificamente” gli enti; l’Apparato tecnico-scientifico oggi predominante ha perfezionato questo uso imprigionante del linguaggio, negando qualsiasi dignità ad altre possibilità linguistiche.

La saggezza non duale, da sempre, lascia parlare anche un altro linguaggio, che invece di confinare e chiudere, dischiude e disvela, incoraggiando l’apertura della visione intellettuale oltre le precedenti limitazioni.

Il “mito della caverna” di Platone conserva un’importanza perenne poiché esemplifica in modo eccellente le tappe principali percorse dalla coscienza nel corso della sua espansione (apertura) verso l’Infinito, tappe che costituiscono le stazioni principali di un processo di decondizionamento e di liberazione.

Oggi più che mai, urge il ritorno della saggezza non duale e con essa della parola disvelante e non catturante, capace di dischiudere nuovi spazi di libertà, in un mondo ostile alla pluralità, banalizzato dall’omologazione planetaria e asfissiato dalla clonazione frenetica ed unilaterale delle parole calcolanti-catturanti della peggiore tecnoscienza, che vorrebbe escludere tutte le altre: è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, ed è un fenomeno particolarmente inquietante.


[1] Il termine “monismo” si presta ad equivoci che è opportuno evitare, perché effettivamente può far pensare ad un sistema riduttivistico; per questo motivo, è di gran lunga preferibile l’espressione “non-dualità”, che appare maggiormente adatta allo scopo. R. Guénon ha fatto il punto con chiarezza: «Si può dire che il monismo è caratterizzato da questo, che, non ammettendo l’irriducibilità assoluta e volendo andare oltre l’opposizione apparente, crede di poterci riuscire riducendo uno dei due termini all’altro; se, in particolare, si tratta dell’opposizione spirito-materia, si avrà da una parte il monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materia a spirito, e dall’altra il monismo materialista, che pretende al contrario di ridurre lo spirito a materia […] gli accade quasi fatalmente […] di negare la opposizione […] in realtà le due opposte soluzioni moniste non sono che le due facce d’una doppia soluzione, in sé al tutto insufficiente. È a questo punto che un’altra soluzione deve intervenire. […] Designeremo questa dottrina coll’appellativo di non[1]dualismo, o meglio ancora come la dottrina della non-dualità, volendo tradurre nel modo più esatto possibile il termine sanscrito adwaita-vada.» (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pagg. 128-129).

[2] Proprio per questo T. Burckhardt scrive che «il metodo sufico consiste nell’arte di mantenere l’anima aperta all’influsso dell’Infinito» (Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Ed. Mediterranee, 1987, pag. 36). Aggiungeremo questa riflessione complementare di F. Schuon: «Una civiltà è integrale e sana in quanto poggia sulla religione invisibile o soggiacente, la religio perennis; questo significa che essa lo è in quanto le sue espressioni o le sue forme lasciano trasparire l’Aformale.» (Sguardi sui mondi antichi, Ed. Mediterranee, 1996, pag. 143).

[3] «Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità assoluta, il non-dualismo differisce da esso profondamente perché non pretende affatto che uno dei due termini sia riducibile all’altro così semplicemente; esso li considera l’uno e l’altro simultaneamente nell’unità di un principio comune, di carattere più universale, nel quale essi sono entrambi contenuti non più come opposti, ma quali complementari […] il non-dualismo è così l’unico tipo di dottrina che sia consono all’universalità della metafisica». (R. Guénon, Introd. gener. allo studio … cit., pagg. 129-130).

[4] L’Infinito implica un pluralismo integrale, anche perché «ogni conoscenza, anche se relativa, è sempre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema» (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pag. 142). Inoltre, «è impossibile che vi sia una sola dottrina che renda conto dell’Assoluto e delle relazioni tra la contingenza e l’Assoluto» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, cit., pag. 138).

[5] Il simbolismo del Soffio, ben presente nella Sophia Perennis, si riferisce proprio al contenuto appena individuato. Seguendo l’esoterismo islamico, tutti gli enti essendo tali, sono infatti necessariamente sorretti dal Soffio di compassione (An-Nafas ar-rahmani), o sono espressioni di tale soffio onnipervadente. Non a caso, nel Corano Allah è detto anche «compassionevole». Il soffio infinito-compassionevole, essendo tale, non può che accogliere in sé tutti gli esseri senza eccezione. Non diversamente, in Brhadaranyaka Upanishad è detto che «il Soffio vitale è simile alla formica, alla mosca, all’elefante, al trimundio, a tutto l’universo […] sul Soffio infatti tutto l’universo si sostiene» (1.III, 22- 23). Ed inoltre, sempre in riferimento al Soffio universale: «Conosci quel filo che tien legati insieme questo mondo, il mondo di là e tutte le creature? […] Chi conosce questo filo e questo interno reggitore, costui conosce il Brahman, i mondi, gli dei, i Veda, le creature, costui conosce l’Atman, conosce ogni cosa […] Il soffio è il filo che tiene insieme legati questo mondo, quell’altro e tutte le creature» (3.VII, l-2). Guénon ha così commentato: «Questo raggio luminoso che lega tra loro tutti gli stati è anche simbolicamente rappresentato come il soffio in virtù del quale essi sussistono, il che, si osserverà, è strettamente conforme al significato etimologico dei termini designanti lo spirito (si tratti del latino spiritus o del greco pneuma); e così, come abbiamo spiegato in altre occasioni, egli è propriamente il sutratma; ciò equivale anche a dire che egli in realtà è Atma stesso» (Spirito e intelletto, in Melanges, I, Venezia 1978). Il simbolismo indù del sutratma compendia in modo essenziale i contenuti di cui sopra, dato che «Atma, come un filo (sutra), penetra e lega fra di loro tutti i mondi e nel contempo è anche il soffio che […] li sostiene e li fa sussistere» (R. Guénon, Simboli della scienza sacra, LXI). Lo stesso dicasi per il simbolismo del sarva-prana, cioè del soffio totale, che ha la stessa funzione rispetto alla molteplicità degli enti e degli stati di Esistenza. Questa la sintesi di Shankara a proposito del sutratma: «forma un legame tra i vari corpi sottili, e li permea e passa tra tutti loro come un filo su cui è infilato un filare di gemme. È anche conosciuto come Prana poiché in forma di respiro vitale anima e sostiene tutta la vita.» (La quintessenza del vedanta, 389).

[6] La suggestiva immagine è di S. H. Nasr, Uomo e natura, Rusconi ed.

[7] «I bisogni vitali e quindi il diritto alla vita rimangono i medesimi in ogni dove, si tratti d’uomini o d’insetti. Uno degli errori più perniciosi è ritenere che la collettività umana da un lato e il benessere della stessa dall’altro rappresentino un valore assoluto e pertanto un fine in sè.» (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, pag. 4).

[8] «Questi due idoli (scienza e progresso) son serviti tanto per mortificare quelle minoranze dissidenti che malgrado tutto sono esistite negli ultimi secoli […] e che vorrebbero sottrarsi all’agitazione moderna, alla pazzia della velocità […] ; tanto -il che è molto più significativo- per costringere la maggioranza dell’umanità, grazie ad una presunta superiorità ed in barba a qualsiasi principio egualitario, e con la forza brutale delle armi, ad asservirsi allo spirito dì conquista e agli interessi economici occidentali. Quel che la razionalità dominante in Europa e in America non tollera assolutamente è che degli uomini preferiscano lavorare di meno (com’è tipico in qualsiasi civiltà tradizionale e in generale presso i popoli antichi) e contentarsi di poco per vivere, secondo una misura che gli deriva dall’intuizione dell’essenziale. Siffatta intolleranza deriva direttamente dalla centralità della quantità e dalla negazione del non-sensibile in quanto irreale, con le note conseguenze dell’agitazione ossessiva e della produzione materiale come unico valore, all’estremo opposto della contemplazione.» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno in R. Guenon, Pontecorboli Ed., 1996, pagg. 186-187).

[9] Tutte le scuole spirituali tradizionali, non a caso, hanno come comune denominatore il trascendimento o per lo meno il ridimensionamento di quell’accidente denominato ego, il che è stato espresso secondo formulazioni talvolta abbastanza diverse, e però convergenti nel significato di fondo. Il trattato breve di Ibn Arabi, intitolato Il libro dell’estinzione nella contemplazione, è dedicato proprio alla negazione della egoicità, e più in generale di tutto ciò che risulta contingente, poiché «la visione di Lui non ha realmente luogo se non attraverso il venir meno di te stesso» (SE, 1996, pag. 34). Drg drsya viveka è un testo classico dell’Advaita Vedanta, per lo più attribuito a Shankara. Tratta della Discriminazione (viveka) tra drg (osservatore, Sè, …) e drsya (spettacolo, osservato, non-Sè, …), tra cui rientra anche l’ego come componente di ciò che non è propriamente Sé. Perciò anche l’ego appartiene a ciò che è meramente “illusorio-relativo” rispetto all’assolutezza onnipervadente dell’Infinito (Sé, Atman, Brahman nirguna, …). Per apprezzare una volta di più la portata veramente universale, quindi non egoica e non-antropocentrica del Vedanta, possiamo meditare sul Sutra 21, in cui le qualità più universali dell’Infinito vengono attribuite anche ai mondi non-umani, dato che «il Puro Essere (Sat), la Pura Coscienza (Cit) e la Pura Beatitudine (Ananda) sono comuni […] all’etere, all’aria, al fuoco, all’acqua, alla terra […] agli dei, agli animali». Una riflessione consimile si può esercitare a proposito del Platonismo, dato il carattere impersonale del Nous. In aggìunta, ci limiteremo a segnalare che Plotino attribuiva lo stato contemplativo anche agli esseri non-umani (v. Enneadi, III, B, I). Ricorderemo anche che secondo Avicenna e molti altri medievali, l’atto conoscitivo superiore non ha mai natura meramente individuale, ma dipende dall’Intelletto Agente che ha natura sovraindividuale (v. Libro delle direttive, parte II, gruppo VII).

[10] «L’intelletto trascendente, per cogliere direttamente i principi universali, deve esso stesso essere d’ordine universale; non è quindi una facoltà individuale. […] La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma ciò che sta oltre la ragione è veramente non-umano e proprio per questo rende possibile la conoscenza metafìsica, che, bisogna ripeterlo ancora, non è affatto una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a tale conoscenza, ma è in quanto questo essere, che è umano in uno dei suoi stati, è in pari tempo altra cosa […] se l’individuo costituisse un sistema chiuso, al modo della monade di Leibnitz, non vi sarebbe metafisica possibile.» (R. Guénon, La metafisica orientale, ora in Studi sull’ induismo, Basaia, 1983, pag.117). A proposito dell’ostilità della modernità per la contemplazione e l’intuizione intellettuale, merita di esser richiamata questa osservazione di J. Pieper: «La radice filosofica moderna di questo disprezzo del contemplare nella quiete, e di questo culto del lavoro, sta nella negazione dell’attività intuitiva dell’intelletto umano, la cui origine è kantiana» (La verità delle cose, Massimo ed., pag. 17).

[11] Proprio per questo Shankara, parlando di Brahman, sentenzia che è «di natura infinita, non soggetto a modificazioni, incomprensibile per mezzo del ragionamento […] trascende ogni definizione verbale» (La quintessenza del vedanta, 761); ed anche: «rimane quella sola e pura Realtà, che è al di là delle categorie mentali» (Aparokshanubhuti-Autorealizzazione, 136).

[12] Ha scritto bene G. Reale: «la metafisica riguarda la problematica dell’assoluto, ma non è, e non può essere, conoscenza assoluta dell’assoluto, poiché rimane dinamicamente sempre aperta. Ma è proprio di questa conoscenza e di questa problematica dell’intero che l’uomo non può fare a meno nel processo conoscitivo in generale.» (Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Cortina ed., 1995, pag. 47).

[13] Contro la valutazione popperiana, vi sono motivi per sostenere che è proprio il modello di razionalità scientifica oggi preponderante (la “scienza normale” nel senso di T. Kuhn) a delineare un sistema chiuso. «Ma in che cosa consiste la razionalità scientifica? Il Moderno si presenta innanzitutto come spirito di negazione. La forma della negazione è il sistema, che nel porsi come concezione chiusa e totalizzante, nega le illimitate possibilità di concezione inerenti una metafisica tradizionale e riduce il reale ai suoi schemi ermeneutici, vale a dire delinea un immagine del mondo quale appare necessariamente dati certi presupposti […] per poi gabellare quell’immagine come il modo vero e oggettivo in cui stanno le cose. […] Kant e Comte incarnano per Guénon più di altri lo spirito di negazione di cui sopra» (G. Cognetti, L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno, pag.154). Abbiamo già rimarcato che la mancanza di Universalità e di pluralismo appartiene al sistema chiuso, il quale è tale perché vorrebbe nientificare tutto ciò che non rientra nei confini da esso stesso predisegnati. In questo senso, le cosiddette filosofie critiche moderne, nonostante le loro pretese e, talvolta, le buone intenzioni, stanno dalla parte del sistema chiuso, in quanto volontà di negare, di volta in volta, quanto non è riducibile alla ragion matematica (Galilei, Cartesio, Hobbes …), all’intelletto discorsivo e alla ragion pura (Kant), alla ragion dialettica (Hegel), al mero empirismo fattuale (Positivismo, Neopositivismo). Il tratto comune e veramente inquietante è la negazione dell’intuizione intellettuale e della contemplazione, con la conseguente atrofizzazione dell’intelligenza, per cui Schuon può scrivere: «Con Voltaire, Rousseau e Kant, la carenza d’intelligenza borghese (o vaishya come direbbero gli indù) diventa dottrina e si insedia definitivamente nel pensiero europeo, dando origine […] allo scientismo, all’industria e alla cultura quantitativa. L’ipertrofia mentale dell’uomo colto supplisce ormai all’assenza penetrativa intellettuale; il senso dell’assoluto e del principiale è sommerso da un empirismo mediocre. […] Alcuni ci rimprovereranno forse di mancare di riguardo, ma vorremmo proprio sapere dove sono i riguardi dei filosofi che stroncano senza vergogna interi millenni di sapienza» (Le stazioni della saggezza, Mediterranee , pag.20).

[14] Ovviamente, anche i Simboli comportano qualche imperfezione rispetto ai contenuti cui alludono; ciò nonostante costituiscono, come si è detto, dei sostegni indispensabili e potenti per avvicinarsi alle verità che essi in qualche modo esprimono. Schuon ha formulato con insuperabile concisione questo duplice aspetto del simbolo, dato che « visto dall’alto, il simbolo è oscurità, ma visto dal basso è luce» (Le stazioni della saggezza, pag. 31).

Laureato in Filosofia delle scienze, fondatore dell’Associazione Eco-Filosofica, animatore del sito filosofiatv.org, scrittore e divulgatore sul tema della decrescita. I suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente. Autore del libro: ◾Decrescita – Idee per una civiltà post-sviluppista [di Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel], Sismondi Editore, dicembre 2009

Massimo Cacciari: «Il Papa deve smettere di fare il katéchon!»

«Il Papa deve smettere di fare il katéchon!»esclamò d’improvviso Massimo Cacciari. Mi stupì la sua foga e ancor più il fatto che subito dopo parve pentirsi, come se la parola gli fosse sfuggita. Era un giorno del settembre 1993 e io lo stavo intervistando nella sua casa tersa, piena di volumi. Fuori, Venezia si sfaceva nel suo mare fecale, sotto un cielo grigio.

Katèchon? Non ricordo molto di greco. Dovetti chiedergli che cosa volesse dire. «Katéchon è ciò che trattiene», rispose Cacciari guardandomi incerto: «Ciò che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi pienamente. San Paolo, ricorda?». Ora ricordavo: seconda lettera ai Tessalonicesi. Il passo enigmatico in cui Paolo di Tarso accenna al futuro manifestarsi dell’Anticristo, Anomos: «II figlio di perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra tutto quel che si adora come Dio, tanto che siederà egli stesso nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio». Ma non crediate che la venuta dell’Anticristo sia imminente, aggiunge subito l’apostolo. C’è qualcosa che «trattiene» l’Anticristo dall’irrompere nel mondo.

Ė qualcosa di misterioso, di cui san Paolo deve aver già parlato in passato ai fedeli di Tessalonica. «Non vi ricordate come io, quand’ero tra voi, vi dicevo tali cose? Perciò voi sapete che cosa sia quel che lo trattiene, affinché sia manifestato a suo tempo. Perché è già al lavoro il mistero d’iniquità, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Allora sarà la manifestazione dell’Iniquo». Che cosa può essere «ciò che trattiene» l’Anticristo? Cercai di ricordare. Mi risposi che, genericamente, doveva essere la fede cristiana, forse la Chiesa, i sacramenti. Cosi pareva intenderlo Cacciari, del resto, e mi stupì anzitutto che egli pretendesse dal pontefice che «smettesse» di fare ostacolo all’Anticristo, che cessasse di far da argine alla Perdizione. Per quanto patetico appaia oggi quest’argine, se è poi la Chiesa, di fronte all’edonismo e alla secolarizzazione, se sono questi i segni dell’Anticristo, come si può chiedere al papa di non opporsi al Male? Mi domandai anche: perché Cacciari desidera accelerare l’avvento dell’Anticristo? [1]

La nostra conversazione, fino a quel momento, non faceva prevedere quell’esito. Lo stavo interrogando sui «valori» della cosiddetta «etica laica». Mi rispose, sarcastico, che, per cominciare, andava sgombrato il campo dall’abuso, dalla ripetizione a vanvera del termine «etica». «Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” o “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno “etico” per sua scelta o volontà. Egli apparteneva ad un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere».

Come nell’induismo, osservai: dove un uomo, per il fatto di nascere in una precisa casta, appartiene alla sua casta. Ed è soggetto allo swadharma, la «legge» (dharma, che significa anche «dovere» e «destino») propria della sua (swa) casta. In India non esiste una morale; esiste un dharma per ogni casta e il dharma del contadino è diverso da quello del re, ciascuno ineluttabile e non evitabile.

Cacciari annui: «Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l’immagine di Dike». L’ethos, ripete, impone all’uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene. Ma in Europa questa appartenenza è entrata in crisi quasi fin dall’inizio. Per l’uomo europeo è venuto molto presto il tempo della frattura con l’ordine degli dèi; il tempo della decisione. L’ethos era già in crisi profonda con l’ellenismo, «cosmopolita» ossia sradicato. «E duemila anni fa, l’ethos ha cessato completamente di esistere».

Duemila anni fa, quando Cristo apparve nel mondo? «Sì, il cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ethos». Per provarmelo, Massimo Cacciari cercò un passo nel “De Civitate Dei”. Non riuscì a trovarlo; me ne dette un riassunto ad sensum. «Sant’Agostino lo dice chiaramente: la Città di Dio è pellegrina in terra; ne segue che il cristiano non ha casa o è a casa sua dovunque. Il cristiano “non si cura” dei diversi costumi, delle diverse leggi, delle diverse istituzioni con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene». (Ho scoperto dopo che Massimo Cacciari cita quel passo con precisione nel suo Geo‑filosofia dell’Europa, editore Adelphi, p. 116: è il cap. XIX, 12‑17, del De Civitale Dei). Il cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra.

Ciò vuol dire, continuò, che il cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell’Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli dèi e la società. L’ethos antico era una religione civile; gli dèi erano, inevitabilmente, gli dèi della polis, Erano dèi di ferro: Socrate fu condannato perché la sua libera investigazione offendeva gli dèi della polis, ma radicavano l’uomo, lo riparavano dalla decisione. Il cristianesimo, consumando la rottura con gli dèi della Città, sradica l’uomo: «Con il cristianesimo comincia la nostra “etica” come decisione, come un sistema di valori che io scelgo, come “libero arbitrio”». Uno stato doloroso: il cristianesimo, nella visione di Cacciari, getta l’uomo nella libertà come un naufrago è gettato nel mare in tempesta.

«E la Chiesa è perfettamente consapevole di quanto sia tragica la libertà che ha donato all’uomo. Già Agostino paventa che, sradicati gli dèi della Città, la città dell’uomo diventi il campo dove si scontrano meri interessi, il regno della forza. Per questo tutta la cultura cristiana è un correre ai ripari contro la tragedia che ha provocato, una tensione disperata a riparare il pericolo che viene dalla frattura tra la Città di Dio e la città dell’Uomo. In questo senso, è davvero la Chiesa a fondare la civiltà europea. Perché l’Europa, la sua storia, è la storia di questo sradicamento, dell’angoscioso obbligo di decidere che deriva dalla perdita definitiva dell’ethos. Ė la storia delle soluzioni disperate che l’Europa via via escogita per darsi leggi “morali” le quali ‑ senza sopprimere la libertà ‑ trattengano la società dal divenire il campo della pura violenza».

Ma queste norme, non più radicate nel Sacro, sono per forza precarie, sostenne Cacciari; esse devono continuamente essere «superate». «E qui è la grandezza dell’Europa e la sua miseria: il suo sforzo bimillenario per dare norme a una libertà che è sempre sul punto di delirare. Il fatto è che il cristianesimo, liberando l’uomo dall’ethos, libera in lui la potenza del pensiero: il potere di mettere in discussione ogni tradizione ricevuta, il potere che tutto oltrepassa».

Non potei fare a meno di notare lo stupefacente corollario a cui conduceva quest’ordine di pensieri: la secolarizzazione totale che viviamo sarebbe dunque figlia della sovversione originaria operata dal cristianesimo. In apparenza antagonisti, l’Illuminismo libertino di cui subiamo gli esiti estremi e la Chiesa, avrebbero in realtà la stessa radice. Protestai (temo troppo debolmente) che non poteva essere; che anche l’ethos cristiano è radicato nel sacro … Cacciari m’interruppe con impazienza: «La vera differenza è che il cristianesimo sa che la volontà dell’uomo è ferita. Che diventando libero, l’uomo diventa libero di fare il male. Ogni “morale” laica e illuminista presuppone il contrario: che ogni uomo ha in sé i princìpi universali dell’azione. Che il bene è scritto nella sua coscienza e gli basta seguirla».

L’Illuminismo è pelagiano nel senso più lato, aggiunse: nega il peccato originale, crede che l’uomo possa salvarsi da sé. «Di più: ogni etica laica suppone che tutto ciò che si manifesta in me come mia natura è buono. Dunque i miei appetiti vanno soddisfatti perché buoni. Anzi, di più: perché necessari. Lungi dal predicare, come fanno i parroci, che gli appetiti vanno “ordinati”, il laicismo pone proprio gli appetiti alla base del vivere civile».

Come, come? «Per esempio, la borghesia crede che il libero espandersi degli egoismi e degli interessi individuali dia luogo a quell’armonia collettiva che chiama “mercato” e di cui scopre adorante le leggi: le “leggi del mercato”. Il marxismo, dal canto suo, ha creduto che dalla lotta scatenata fra le forze economiche potesse nascere l’armonia finale, la “società senza classi”. Ė la scoperta delle economie politiche. Che non a caso sorgono nell’Ottocento, insieme all’estetica».

L’estetica è la «scienza» che scopre le leggi del godimento soggettivo, come l’economia politica è la «scienza» che scopre le leggi dell’interesse individuale, mi spiegò. «Sono queste due “scienze” a costituire la Modernità, e precisamente questa Modernità che oggi il cattolicesimo si trova davanti come il Nemico».

Il giovane filosofo nero barbuto alludeva al Nemico finale, all’Anticristo? «Negli ultimi settant’anni», continuò lui, «La Chiesa ha creduto che il Nemico fosse il comunismo. Non era sbagliato; il comunismo ha scatenato, ha portato alle ultime conseguenze, la volontà di potenza europea. Il comunismo affermava: l’uomo si salva da sé, armato di economia e di estetica. La Chiesa, giustamente, l’ha sentito come una sfida mortale. Oggi che il comunismo è caduto, però, contro la Chiesa si rizza il Nemico vero, il Nemico finale: un sistema estetico economico totalmente secolarizzato».

Qui capivo meglio a che cosa Cacciari alludesse: quell’ultimo Nemico era già stato identificato dal chiaroveggente Del Noce. Ẻ il capitalismo ulteriore al comunismo, che ingloba in sé le larve psichiche e sociali scampate alla decomposizione del marx­leninismo: «l’intellettuale dissacratore come custode del nichilismo», «trasformato in funzionario dell’industria culturale alle dipendenze del potere» economico. E’ «lo spirito borghese allo stato puro» a cui si riduce la copula necrofila del capitalismo con lo spettro del marxismo, devitalizzato della sua tensione escatologica. Del Noce aveva previsto: il comunismo sconfitto, «trasformato in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata», dominata «da una nuova classe che tratta ogni idea come strumento di potere». Il comunismo addomesticato in «partito radicale di massa, adatto a mantenere l’ordine in un mondo da cui qualsiasi religione è scomparsa»; quello del capitalismo internazionalista, del Nuovo Ordine Mondiale tecnocratico.

Insomma: il peggio dei due sistemi che, falsi antagonisti, anelavano in realtà ad adottarsi l’un l’altro: sì, poteva ben essere questa una buona descrizione dell’Anticristo. Ma Cacciari già continuava: «Per anni la minaccia comunista ha causato un’alleanza forzata tra la Chiesa e il sistema laico borghese. Ora quest’alleanza, che era finta fin dal principio, non è più possibile. Nessuna composizione è possibile tra la Chiesa e lo spirito borghese, con la sua “etica laica”. Per un motivo preciso: che il cristiano deve mettere in discussione ogni sistemazione puramente terrena. Lui, “pellegrino” su questa terra, sa che ogni sistemazione della Città dell’Uomo è transeunte, che deve essere superata».

La sovversione cristiana si volge dunque ora contro il totalitarismo borghese radicale? «Lo spirito estetico­-economico borghese non tollera di essere messo in discussione; non ammette di poter essere superato». Mi parve di leggergli negli occhi l’evocazione paolina del Figlio di Perdizione, «colui che s’innalza sopra tutto quel che si adora come Dio». Cercai di fare dello spirito: «Ma l’essenza della società borghese è il liberalismo e per principio il liberalismo mette in discussione ogni principio …». … «Il sistema borghese tollera di essere discusso solo al proprio interno», sancì Massimo Cacciari: «Verso ciò che è esterno ai suoi “valori”, non ha pietà»E mi elencò i genocidi liberali: a cominciare dallo sterminio dei pellerossa. «I pellerossa erano radicati nel loro ethos, e l’americano vedeva nel loro ethos un sistema di non libertà. Lo sterminio delle società sacrali, degli ethoi tradizionali, è prescritto dal liberalismo per il “bene” stesso dell’uomo». Ed enumerò: per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l’olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare fascismo e nazismo, «forme di neopaganesimo che cercavano di ricollegare la società a un Ethos». E il Vietnam, la Guerra del Golfo, l’intervento «umanitario» in Somalia nel 1993.

«Non si faccia illusioni: anche contro la Chiesa non esiterà ad usare la più inaudita violenza, se la Chiesa si rifiuta di diventare un semplice supporto della società borghese. Ciò che la Chiesa non può fare: perché il cristiano è necessariamente sovversivo di ogni potere politico che si pretenda autonomo. Già negli Stati Uniti si teorizza come l’Avversario irriducibile sia l’Islam. Anche contro la Chiesa il conflitto diverrà sempre più drammatico. Da una parte la Chiesa e l’Islam e dall’altra una “etica” laicista sempre più occasionale, e nello stesso tempo sempre più radicalmente universale, nella sua pretesa di essere l’unica valida».

Purtroppo credo abbia ragione, risposi. Forse viviamo davvero sull’orlo dei tempi ultimi. Sappiamo che cosa aspetta i credenti: la resistenza eroica al di là di ogni umana speranza, il martirio. La Chiesa lo sa: è scritto nella sua tradizione.

Fu allora che Cacciari lo disse. «II Papa deve smettere di fare il katéchon!». Poi, come pentito, precisò: «Voglio dire che lei, come cattolico, sa come finirà. Verrà l’Anticristo e trionferà, ma sarà sconfitto».

Fonte: Maurizio Blondet – Gli Adelphi della Dissoluzione – Ares 2005

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Cacciari: chi mette il freno all’Apocalisse? Intervista di Alessandro Zaccuri a Massimo Cacciari

27 febbraio 2013

​Anche i Titani non sono più quelli di una volta. Tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico l’ambizioso Prometeo, tocca al fratello dello sconfitto, il prudente Epimeteo, governare le sorti degli umani. Il suo incarico sembrerebbe modesto, ma richiede in effetti una grande abilità tecnica: si tratta di impedire l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo. Attenzione al verbo. Contenere, trattenere. Frenare, insomma. “Il potere che frena” (Adelphi, pagine 214, euro 13,00) è il titolo del saggio in cui il filosofo Massimo Cacciari torna su uno dei temi centrali della cosiddetta “teologia politica”, ovvero quella corrente di pensiero, teorizzata fin dagli anni Venti da Carl Schmitt, che suggerisce di interpretare il divenire della Storia in prospettiva teologica. «Più andiamo avanti – ribadisce Cacciari – e più mi convinco che non c’è altro modo per cercare di comprendere il nostro tempo».

È per questo che bisogna partire da san Paolo?

«Dalla seconda lettera ai Tessalonicesi, per l’esattezza: capitolo 2, versetti 6 e 7. Lì Paolo introduce un concetto del tutto originale, che sta all’origine di una lunga e complessa tradizione esegetica».

Stiamo parlando del misterioso “katechon”?

«Esatto: quel qualcosa o qualcuno, che “contiene”, trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo. In esso, fa intendere Paolo, agisce un potere che non può essere identificato nell’Anticristo, di cui appunto “trattiene” l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa. Su questo Paolo è molto chiaro: il katechon è destinato a essere “spazzato via”, proprio perché non partecipa della speranza che deriva dalla fede».

Sì, ma allora da che parte sta?

«Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo (“con-tenere” significa “tenere dentro di sé”) e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione».

Può essere più esplicito?

«Certo. Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione. Già i Padri della Chiesa, quando affrontano l’argomento, sono estremamente concreti, cercano corrispettivi precisi alle figure evocate da Paolo e dall’Apocalisse. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente è che il katechon sia l’Impero romano. Il problema, però, è che la forma imperiale non si accontenta di esercitare una potestas di tipo pratico-amministrativo. La sua ambizione, al contrario, è di conseguire un’auctoritas spirituale, ma così facendo entra in conflitto con la Chiesa. La quale, a sua volta, non è estranea alla funzione espressa dal katechon. Il ritorno di Cristo non può essere accelerato, i credenti non devono cedere all’impazienza, la loro missione è semmai di vegliare nell’attesa. Anche la Chiesa, dunque, “trattiene”, per rendere possibile la conversione e fare in modo che il Figlio dell’Uomo, quando verrà, trovi la fede su questa terra».

La soluzione quale sarebbe?

«Un’alleanza tra potestas amministrativa e auctoritas della Chiesa. Sembrerebbe uno scenario medievale, ma a ben pensarci è lo stesso obiettivo al quale mirava l’idea di uno Stato moderno perfettamente laico, che lasciasse alla Chiesa il primato in campo spirituale. Il guaio, però, è che la potestas politica non può mai rinunciare alla sua ambizione imperiale, con relativo sconfinamento nell’auctoritas. Il potere, quando si riduce all’ordinaria amministrazione, diventa impotente. E questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo”.

Una situazione apocalittica?

«Una potestas ridotta all’impotenza lascia emergere le tendenze dell’Anticristo. Ma non dobbiamo immaginarci una devastazione all’Apocalypse Now. I segni dell’affermarsi dell’Avversario sono molto differenti, già Paolo invita ad allarmarsi nel momento in cui si sente annunciare un tempo di pace e benessere. Il principale attributo dell’Anticristo, infatti, consiste nell’essere Placidus: le guerre contro di lui si sono concluse con la sua vittoria, nessuna forza più gli si oppone, la prosperità può diffondersi indisturbata. Regna l’ordine e questa è la fine. A patto, si capisce, che si sia compiuto anche l’altro passo decisivo, e cioè l’apostasia[2] della Chiesa, la secessio dei credenti dalla fede. È l’atteggiamento del Grande Inquisitore di Dostoevskij, il cui trionfo coincide, non a caso, con il ritorno di Gesù. Se l’Anticristo ha avuto la meglio, solo Cristo può tornare a dargli battaglia».

Ma noi, ora come ora, a che punto siamo?

«Che la nostra sia un’epoca apocalittica mi pare indubbio. Viviamo in una dimensione globale che neppure l’Impero romano aveva conosciuto e questo comporta una continua omologazione dei princìpi, dei comportamenti, dell’etica. Ci siamo lasciati alle spalle i totalitarismi, che si presentavano esplicitamente come forze prometeiche, anticristiche e, in quanto tali, chiamavano in causa il katechon, la cui funzione era esercitata da altri poteri, sia politici sia religiosi. Ora è la volta di Epimeteo, l’Anticristo si mostra con il suo volto conciliante e il rischio è che la Chiesa non riesca a presentarsi come segno di contraddizione in un mondo ormai assuefatto all’indifferenza. Nietzsche aveva visto giusto: oggi davvero chi va per strada alla ricerca di Dio viene prima deriso e poi guardato con indifferenza».

E la Chiesa come può reagire?

«Continuando a pregare perché sia dato il tempo, anzitutto. Ma anche perseverando nella sua azione pedagogica nei confronti di quei figli che ancora non sanno di essere figli. Le conversioni immediate, come quella di Paolo, sono sempre possibili, però la missione della Chiesa appartiene principalmente all’ambito dell’educazione. Dell’attesa, quindi. E della pazienza».

Fonte:  http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/cacciari-chi-mette-il-freno-apocalisse.aspx

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di Francesco Colafemmina – 3 aprile 2013

E’ uno dei libri più inquietanti che abbia mai letto. Mi riferisco al nuovo saggio di Massimo Cacciari dal titolo “Il potere che frena”. Molti di noi hanno letto il famoso “Gli Adelphi della dissoluzione” di Blondet, un volume per molti versi profetico, per altri un po’ morbosamente afflitto dalla questione del sabbatismo. Quel volume cominciava così:

“«II Papa deve smettere di fare il katéchon!», esclamò d’improvviso Massimo Cacciari. Mi stupì la sua foga, e ancor più il fatto che subito dopo parve pentirsi, come se la parola gli fosse sfuggita. Era un giorno del settembre 1993, e io lo stavo intervistando nella sua casa tersa, piena di volumi. Fuori, Venezia si sfaceva nel suo mare fecale, sotto un cielo grigio. Katéchon? Non ricordo molto di greco. Dovetti chiedergli che cosa volesse dire. «Katéchon è Ciò che trattiene», rispose Cacciari guardandomi incerto: «Ciò che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi pienamente. San Paolo, ricorda?». Ora ricordavo: Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6 e seguenti). Il passo enigmatico in cui Paolo di Tarso accenna al futuro manifestarsi dell’Anticristo, Anomos: «II figlio di perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra tutto quel che si adora come Dio, tanto che siederà egli stesso nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio». Ma non crediate che la venuta dell’Anticristo sia imminente, aggiunge subito l’apostolo. C’è qualcosa che «trattiene» l’Anticristo dall’irrompere nel mondo.”

Se già nel 1993 Cacciari riteneva che il papa svolgesse l’azione del katéchon, come valutare il nuovo saggio di Cacciari che nel marzo 2013 in sostanza decreta l’avvenuta rimozione del katéchon?

Partiremo dalla sua lettura del katéchon come ciò che incarna auctoritas e potestas sull’Evo, sul mondo, sul tempo contenuto fra la prima e la seconda parusia, prima di quella sospensione imprevedibile caratterizzata dalla sua rimozione e dall’avvento dell’Anomos. Ebbene, Anomos è un titolo che già fuga ogni dubbio. L’età anticristica sarà un’età priva di nomos, dove per nomos non si intende la legge intrinseca al funzionamento materiale, meccanicistico delle cose del mondo, ma una legge morale, una legge che è naturalmente teologica, discende dall’alto e mira in alto, è un valore trascendente che il katéchon protegge, conserva e detta. Ma cosa accade quando il katéchon viene rimosso?

“Impero e Chiesa secedono, allora, dalle proprie missioni, ma secondo una possibilità sempre aperta ed immanente in loro. Del dilagare dell’apostasia il segno più tremendo non è l’abbandono di impero e Chiesa da parte delle moltitudini, ma la secessio che in loro si opera dalle loro proprie missioni, dalla funzione e dalla fede che avrebbero dovuto incarnare” (p.80).

Leggete però come Cacciari disegna con lucidità profetica la natura dell’anomia anticristica:

E’ il chaos l’Avversario? Ma non certo, come si è visto, nel senso di un ritorno del chaos originario, del disgregarsi di ogni forma in una sorta di ekpirosis[3], da cui possa prendere inizio, ab integro, un nuovo Evo. Esplode, certo, quella figura del ‘dio mortale’, che tutti gli individui in sé uguagliava e conteneva – viene meno la potenza del rappresentare, per cui ciò che rappresenta pensa davvero di contenere in sé il rappresentato -, ma dalla crisi non emerge né assoluta e semplice assenza di legge e comando, né anarchia, né la prospettiva di un nuovo Evo. […] E’ un nuovo ordine l’anomia; è un nuovo nomos quello dell’Antikeimenos. […] E il suo segno sarà quello dell’Anticristo, poiché nel segno del Cristo si è formato l’Evo e in riferimento ad esso le epoche e le potenze catecontiche hanno assunto figura. […] E’ universale mobilitazione, insofferenza di ogni confine, liquidazione di ogni ethos. […] L’energia che lo muove è quella dell’intollerabilità di ogni auctoritas che venga ‘dall’alto’, di ogni comando ‘sovra-ordinato’.” (pp.81-82).

Per Cacciari la Chiesa “catecontica” è inoltre una Chiesa che mantiene un residuo di potere:

“Un katéchon che non sia energòs proprio grazie alla sua appartenenza ai due grandi campi politico-spirituali, alla sua ‘famigliarità’ con essi, è pura finzione di potere, volontà di impotenza. Perciò la Chiesa, nella misura in cui ritenga necessaria un’energia catecontica, cercherà il compromesso con ‘governi forti’, pur sapendo, col realismo politico che ne contraddistingue tutta la tradizione, che mai si daranno pacificamente in terra imperi obbedienti a chi ritiene proprio carisma l’essere espressione del Fine dell’Evo” (p.66).

Solo in un caso nella storia della teologia, della letteratura e della politica, è stata avanzata una nuova visione della Chiesa, quale istituzione catecontica svuotata della sua “energia”, del suo potere. E’ la visione dantesca in sé inefficace e impraticabile perché pretendeva di sostituire l’auctoritas con una passiva paternitas:

“Un ‘primato’, cioè, che si esprime nel potere della Chiesa di farsi radicalmente umile, povera, evangelica. Che significa apparire al mondo nuda, impotente, crocefissa. Verbum abbreviatum, insomma: è Francesco la salvezza della Chiesa. E solo innalzando la croce di Francesco la Chiesa potrà custodire anche la propria paternitas nei confronti dell’autorità politica. Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la città di Dio ‘in atto’, rinunci radicitus ad ogni potere terreno, potrà ancora essere ascoltata e valere nel secolo” (p.99).

Vedremo nei prossimi giorni come Cacciari decreti de facto l’avvenuta rimozione del katéchon, dichiarando il nostro vivere nell’epoca dell’Anomos. D’altra parte Cacciari aveva dichiarato a proposito della rinuncia di Benedetto XVI: “Il Papa si dimette perché non riesce più a contenere le potenze anticristiche, anche all’interno della stessa Chiesa”.

Fonte: http://fidesetforma.blogspot.it/2013/04/il-potere-che-frena-la-rimozione-del.html

— oOo —

Il katéchon è ormai rimosso

15 aprile 2013

Il saggio di Massimo Cacciari va letto non come un semplice studio sull’argomento “katéchon”, ossia su cosa sia “ciò o colui che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi”, su come possa esser intesa questa figura, questo concetto in chiave teologica o sociologico-politica. No, il saggio di Cacciari è un vero e proprio manuale per iniziati che vogliano comprendere quanto sta accadendo hic et nunc. E’ come se il filosofo volesse farsi analista laico, interprete distaccato di quel mondo esoterico-messianico che vuole accelerare la Seconda venuta ma non secondo la visione di talune sette evangeliche statunitensi, bensì animato dall’inesausta sete di conoscenza propria dell’uomo. Di un uomo che vuole andare incontro a Dio, richiamandolo quasi per confliggere con Lui, per rivendicarne il potere. Così “Il potere che frena” diventa non solo una guida ermeneutica ai tempi ultimi, ma una sorta di bussola per orientare gli spiriti che li stanno vivendo – almeno stando a Cacciari. Si apre un’epoca nuova, anzi finisce l’ “Evo Cristiano” e tutto resta sospeso. E’ come se il mondo trattenesse il fiato. Ma in che senso termina questo “Evo” secondo Cacciari?

“Il tempo apocalittico cristiano si fonda su un Evento che ha in sé già ora il compimento del tempo. Ciò fonda la speranza. Non si annuncia la speranza soltanto, ma il suo fondamento, che a tutti si rivolge, assolutamente universale, al di là di ogni distinzione etica o etnica. E questo annuncio può rivolgersi a tutti perché si collega indissolubilmente ad un evento reale, a un fatto storicamente accertabile. La parousia non innova, ma ribadisce che tutto doveva essere deciso alla luce dell’apocalisse del Figlio. Il suo non sarà tanto un ritorno, quanto la manifestazione ultima della sua presenza. Si manifesterà allora come un ladro di notte, non importa quando. Verrà come la morte. E sarà morte del tempo, anche di quello contratto, breve dell’Ora. Il tempo si riassorbirà, allora, nella Luce, imploderà in essenza luminosa, accolto nel Dio-Luce di Giovanni.” (p.115).

Il capitolo più interessante e rivelatore del saggio è ad ogni modo l’ultimo, intitolato “L’età di Epimeteo” [4]. Epimeteo, fratello di Prometeo, è colui “che pensa dopo”, non a caso fu Epimeteo ad accettare l’improvvido dono di Zeus, Pandora, colei che scoperchiò per curiosità il vaso contenente i mali dell’umanità. Ebbene, per Cacciari l’epoca post-katéchon è l’età di Epimeteo:

“Nello spazio del tempo apocalittico, la ‘misura’ catecontica permetteva ancora, per quanto debolmente, di sapere, ricordare e prevedere. La potenza che consentiva di credere nella sintesi di tempo e concetto, di ‘progettare’ la storia, organizzandone-contenendone energie e soggetti, era potenza prometeica. […] Ma alla fine, quando, cioè, il tempo della fine sia compiuto, è un’altra persona della stessa schiatta a dominare, Epimeteo. E sarà questa persona che dovrà indossare chiunque creda ancora di poter assumere una funzione catecontica” (p.117).

Acutamente Cacciari utilizza il termine persona, nel significato latino di personaggio, maschera. Chi assumerà il ruolo che fu proprio del katéchon dovrà indossare la maschera di Epimeteo, figura che unisce la potenzialità del titano – sarebbe in teoria capace di esercitare una forza catecontica – all’incapacità di logica previsione del futuro. Epimeteo non attende l’arrivo dell’Anticristo, dunque non pianifica. Agisce come se l’Anticristo non dovesse giungere più, o piuttosto scende a patti con la sua forza (nel mito il potere di Zeus), accettando il suo dono, arrendendosi alla sua volontà di dominio sul genere umano. Ma d’altro canto Epimeteo è fratello di Prometeo: “Il dissolversi della forma catecontica si origina dal suo stesso interno, ‘viene da noi’. Inizia con la critica dell’idea di impero, prosegue con quella di ogni ‘dio mortale’, corrode, infine, logicamente-filosoficamente la realtà dello Stato, lo de-sostanzializza, lo spoglia di ogni auctoritas, ne denuncia la natura di finzione ideologica, dimostra l’impossibilità di superare il piano assolutamente orizzontale della rete dei conflitti e degli interessi.” (p.118).

Ritorna qui l’assoluta decadenza dell’auctoritas, ossia di quell’autorità che non è potere, che discende da un valore, che è riconosciuta liberamente e mai imposta. Ma d’altro canto non dobbiamo illuderci: l’età dell’Anticristo non è, a dire di Cacciari, epoca di evidenze, di sorprendenti misteri di iniquità chiaramente misurabili: “Il momento dell’Antikeimenos non è perciò quello della Tirannia più o meno feroce, bensì quello dell’autonomizzarsi delle sfere di potenza e del confliggere fra di loro alla ‘luce’ dell’apostasia. I diversi domini – economico, finanziario, politico, giuridico, tecnico scientifico – competeranno tanto più duramente, quanto più comune si farà la loro weltanshauung” (pp.124-125).

Il filosofo omette il dominio spirituale, ma siamo certi che ad esso Cacciari rivolga il suo primo pensiero. E lo si evince dalla conclusione del saggio. Una conclusione che è anche un pugnale piantato nello stomaco, una scossa improvvisa, un sinistro e lugubre presagio.

“Tempi e modalità di queste trasformazioni a Epimeteo non è dato sapere. Ciò che la crisi permanente permette oggi ragionevolmente di affermare è che da essa non emergeranno nuove potenze catecontiche. Emergeranno forse ‘grandi spazi’ in competizione, ‘guidati’ da élites che, pur in conflitto fra le loro diverse potenze, sono caratterizzate tutte dalla insofferenza assoluta verso qualsiasi potenza che trascenda il loro stesso movimento. Unite soltanto dalla comune apostasia rispetto all’Evo cristiano” (p.126).

Soffermatevi, vi prego, su quest’ultima riga: élites in conflitto fra loro ma incapaci di accettare potenze che vadano al di là del loro campo di azione e continuino a proporsi come proprie dell’Evo cristiano. Cosa accade dunque? Cosa accadrà? Il bello è che per Cacciari la rimozione del katéchon non è una bizzarra elucubrazione paolina, un atto di fede, né tantomeno un ipotetico evento del futuro. No. È un fatto che si è verificato da poco. Per Cacciari, lo si scopre solo al termine del saggio, con la sua ultima riga, il katéchon è stato rimosso. E non sarà peregrino immaginare che questa rimozione coincida con la rinuncia di papa Benedetto, avvenuta circa un mese prima della pubblicazione di questo saggio:

“Molto di più non sembra sia dato sapere. Prometeo si è ritirato – o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. E Epimeteo scorrazza per il nostro globo, scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora” (p.126).

Chi ha orecchie per intendere, intenda …

 Fonte: http://fidesetforma.blogspot.it/2013/04/il-potere-che-frena-parte-seconda-il.html

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NOTE

[1] Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione,4 l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio,  fino a insediarsi nel tempio di Dio,  pretendendo di essere DioNon ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempoIl mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri 10 e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati11 Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna 12 e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti nell’iniquità.

(San Paolo: dalla seconda lettera ai Tessalonicesi)

[2] apostasìa s. f. [dal lat. tardo apostasia, gr. ἀποστασία «defezione», der. diἀϕίστημι «distaccarsi»].
Ripudio, rinnegamento della propria religione per seguirne un’altra. In partic. , nel diritto canonico cattolico, l’abbandono totale (diverso quindi dall’eresia, che è abbandono parziale) della fede da parte di un battezzato, manifestato esteriormente in modi non equivoci e con la volontà e coscienza di abbandonarla (il passaggio ad altra fede è solo una circostanza aggravante).

[3] ecpiròṡi (alla gr. ecpìroṡi) s. f. [dal gr. ἐκπύρωσις, der. di πῦρ «fuoco»].  Secondo la dottrina stoica, conflagrazione universale che distruggerebbe il mondo al termine di ogni suo ciclo (grande anno o anno cosmico).

[4] Epimeteo (gr. ᾿Επιμηϑεύς) Nella mitologia greca, uno dei quattro figli del titano Giapeto e dell’Oceanina Climene (o di Asia), fratello di Prometeo, del quale E. è l’antitesi; tanto «accorto in ritardo» (secondo l’etimologia del nome), quanto Prometeo era previdente. Benché ammonito da Prometeo di non accettare doni da Zeus, E. accolse la bellissima Pandora mandatagli da questo e divenne così responsabile delle sventure dei mortali, sia perché la donna sarebbe per sé stessa un male, sia perché Pandora aprì il vaso dei mali. Da E. e Pandora nacque Pirra.

Meditare Plotino

Plotino

Giorgio Giacometti, nato a Udine nel 1965, si è laureato in Filosofia presso l’Università di Padova nel 1989 con una tesi su Walter Benjamin.

Presso quell’ateneo, dal 1990, ha tenuto diversi seminari, come cultore della materia, ispirati agli studi di Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale.

Nel 1996 ha conseguito il dottorato in Filosofia Politica presso l’Università di Pisa con una tesi su Friedrich W. J. Schelling.

Ha insegnato a contratto storia del pensiero politico presso l’Università di Udine e tenuto un laboratorio di didattica della storia presso presso la locale Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento nella Scuola Secondaria (in cui ha svolto anche la funzione di supervisore al tirocinio dei futuri docenti). Attualmentte è docente di filosofia presso il liceo delle scienze applicate attivo presso l’Istituto Scolastico di Istruzione Superiore “A. Malignani” sempre di Udine.

Ha all’attivo diverse pubblicazioni di argomento filosofico e didattico, tra le quali i volumi Ordine e mistero. Ipotesi su Schelling, Padova, Unipress 2000 e Filosofia e amicizia. Il Liside di Platone e dintorni, un esercizio maieutico, Milano, Colonna 2001.
In qualità di vicepresidente della Società Indologica “Luigi Pio Tessitori” e studioso dei rapporti tra filosofia indiana e filosofia greca, ha scritto l’articolo: Plotino e Çankara. Una questione di punti di vista, in “Simplegadi”, Rivista di filosofia orientale e comparta, V, 2000, n. 1, pp. 11-33).
Si è interessato, inoltre, di psichiatria fenomenologica traducendo per Marsilio (Venezia, risp. 1990 e 1994) i libri di Ludwig Binswanger, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia e Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia.

Per quanto riguarda le pratiche filosofiche:

Nel 2005 ha fondato a Udine, con altri filosofi, la Gaia scienza – Laboratorio per le pratiche e la consulenza filosofica.
Dal 2007 al 2011 è stato segretario nazionale e membro del Consiglio Direttivo di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, di cui è stato anche responsabile per la formazione.
E’ stato anche membro del Comitato Scientifico della IX Conferenza Internazionale sulle Pratiche Filosofiche di Carloforte (Cagliari).

Da diversi anni conduce seminari di pratica filosofica in Friuli, ha aperto a Udine uno studio di consulenza filosofica e offre uno sportello di ascolto presso l’istituto scolastico dove insegna.

Pubblicazioni:

Consulenza filosofica come professione. Aporetica di un’attività complessa, in “Phronesis”, n. 7, anno IV, 2006.
Una professione impossibile?, nel volume AA.VV. Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Trapani, Di Girolamo, 2008.
È possibile riaccendere la lanterna di Diogene?, in “Edizione”, Rivista della Sezione del Friuli Venezia Giulia della Società Filosofica Italiana, 2009.
Dall’oralità alla scrittura. Come documentare un’esperienza filosofica? in “Phronesis”, n. 14-15, anno VIII, 2010, pp. 59-70.
Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto (a cura di G. Giacometti), Napoli, Liguori, 2010.
Quando il filosofo esita. Limiti e potenzialità della consulenza filosofica dentro e fuori la scuola, in Paideia. Pratiche filosofiche e pratiche educative, a cura di M. L. Martini, Napoli, Liguori, 2011, pp. 113-132.
Intervista a Oscar Brenifier, in “Phronesis”, n. 16, anno IX, 2011, pp. 47-60.
L’incantesimo di Orfeo. Sulla “feconda inapplicabilità” della consulenza filosofica alla vita, in “Phronesis”, n. 17, anno IX, 2011, pp. 9-39.
Violenza e verità. Politicità inappariscente dell’esercizio filosofico in senso antico, in Sofia e Polis. Pratica filosofica e agire politico, a cura di S. Zampieri, Napoli, Liguori, 2012, pp. 155-191.
Conosci te stesso. Perché non possiamo non dirci platonici quando facciamo filosofia, in Filosofie nella consulenza filosofica, a cura di M. L. Martini, Napoli, Liguori, 2013, pp. 202-243.

Altri saggi e riflessioni si possono trovare pubblicati su questo sito.

Altre pubblicazioni:

Pier Paolo Pasolini, l’iperrealismo del desiderio, in “La cosa vista” n. 10, 1989, pp. 51-55.
Cornelio Fabro interprete di Platone in AA.VV. Per Cornelio Fabro, Udine, La nuova base editrice, 1999.
Il laboratorio filosofico. Per un impiego “normale” del computer nella didattica della filosofia, in “Insegnare filosofia”, n. 2, anno V, feb. 2001, pp. 10-14.

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Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte»

Reale

Titolo Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte»
Autore Reale Giovanni
Prezzo
Sconto 15%
€ 21,25   Spedizioni gratuite in Italia
(Prezzo di copertina € 25,00 Risparmio € 3,75) – Acquista questo libro
Dati 2010, XXIII-933 p., rilegato, 22 ed.
Editore Bompiani  (collana Il pensiero occidentale)

 

La nuova interpretazione di Platone si è imposta come un unicum a livello internazionale. Infatti non era mai accaduto per nessuna monografia filosofica di raggiungere 22 edizioni. Il professor Reale riprende la tesi lanciata in nuce e parzialmente da Gadamer e in modo sistematico dalla Scuola di Tubinga sull’importanza delle “Dottrine non scritte” per comprendere gli scritti di Piatone e le sviluppa dal punto di vista formale e contenutistico. Dal punto di vista formale si tratta di un nuovo paradigma ermeneutico nell’interpretazione di Platone, dal punto di vista del contenuto allarga l’orizzonte della Scuola di Tubinga e dimostra come in Platone siano presenti concetti fondamentali come il rapporto dell’intelligenza con il mondo intellegibile che hanno caratterizzato la storia del mondo occidentale.

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Giovanni Reale

Giovanni Reale è nato a Candia Lomellina (Pavia) il 15 aprile 1931. Ha frequentato il Ginnasio e il Liceo Classico statale a Casale Monferrato (AL). Si è formato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove si è laureato con Francesco Olgiati. Successivamente si è perfezionato studiando a Marburg an der Lan e a Monaco di Baviera.

Dopo un periodo di insegnamento nei licei, ha vinto una cattedra presso l’Università di Parma, ove ha tenuto i corsi di «Filosofia morale» e di «Storia della Filosofia». Poi è passato all’Università Cattolica di Milano, dove è stato a lungo ordinario di «Storia della Filosofia Antica» e dove ha anche fondato il «Centro di Ricerche di Metafisica», luogo in cui si sono formati la maggior parte dei suoi allievi. Da quest’anno è passato a insegnare alla nuova facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano, ove ha intenzione di fondare un nuovo Centro Internazionale di Ricerche su Platone e sulle radici platoniche del pensiero e della civiltà occidentale.

La sua tesi di fondo è la seguente: la filosofia greca ha creato quelle categorie e quel peculiare modo di pensare che ha consentito la nascita e lo sviluppo della scienza e della tecnica dell’Occidente.

Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone

Sumphilosophien

Titolo Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone
Autore Berti Enrico
Prezzo Sconto 15% € 13,60 (Prezzo di copertina € 16,00 Risparmio € 2,40) –  Acquista questo libro
Dati 2010, 268 p., brossura
Editore

Laterza  (collana I Robinson. Letture)

 

 

Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.

 

 

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Il Filosofo KUNG-FU-TZU

CONFUCIO

L’intenzione sarebbe di qui trattare uno dei più noti messaggi di Confucio, ma non ha senso tale trattazione senza premettervi almeno un esame succinto del personaggio e della sua dottrina che da lui ha preso il nome, il confucianesimo. Esso rappresenta una filosofia importantissima, essendo stata il fondamento, la base dell’organizzazione sociale dell’Impero cinese nei suoi 2000 anni di vita. Non si tratta quindi di una religione, poiché mancano quasi interamente i riferimenti al sacro, ma solo allo stato.

Introdotta da Confucio, filosofo e statista, vissuto tra il 551 ed il 479 avanti Cristo, con estrema naturalezza e semplicità, ovvero gentilmente, un metodo particolarmente compatibile con la natura ed il temperamento del popolo cinese. Infatti Confucio, con l’innata e profonda umiltà che lo distingue, si é sempre definito «uno che trasmette, mai uno che crea», poiché intendeva riportare in vigore sistemi di vita di 5-6 secoli prima, cioè dei primi Chou risalenti appunto al 1027 a.C.. Confucio, il cui vero nome era Kung-Fu-Tzu (o Maestro Kung), era il povero discendente della famiglia reale Shang-Yin, ci ha tramandato il suo pensiero attraverso i Lun-Yu (o dialoghi), e va considerato puramente come riformatore politico e non religioso.

Leggi tutto “Il Filosofo KUNG-FU-TZU”

Le radici interculturali della Tradizione europea

La saggezza della non-dualità e il pluralismo culturale non sono estranee alle radici dell’Europa e costituiscono una chiave per affrontare i problemi interculturali e per superare i dualismi che lacerano la vita collettiva e individuale.

LE RADICI INTERCULTURALI DELLA TRADIZIONE EUROPEA: ORIENTAMENTI PER UN CONFRONTO CON LE ALTRE CULTURE, ALLA LUCE DELLA NON-DUALITA’

1) SUPERIORITA’ DELL’ORIENTE E TRAMONTO DELL’OCCIDENTE?

Questa tesi, già avanzata in Europa nel 1800 da qualche intellettuale controcorrente (si pensi ad A. Schopenhauer), è stata variamente raccolta e rielaborata nel corso del secolo appena trascorso, ottenendo un ascolto significativo in ambienti per lo più antimodernisti e nello stesso tempo più o meno attratti dalla spiritualità orientale. Si sono così costituite delle prospettive diversificate che però finiscono per convergere almeno in un punto: e cioè nel supporre il declino dell’Occidente moderno e quindi della stessa Europa.

2) ALCUNE POSIZIONI SUL DECLINO DELL’OCCIDENTE

Negli ambienti accademici europei, le posizioni più note e discusse sono quelle di Heidegger e Severino, i quali accusano l’Occidente di nichilismo: una concezione del mondo che comporta la svalutazione degli enti, rendendoli disponibili al dispotismo planetario della Tecnoscienza, la cui follia trascina verso la devastazione della Terra. Poiché anche l’Oriente sarebbe infettato dal nichilismo, essi auspicano il riapparire salvifico della ”Saggezza aurorale”, cui l’Occidente non era estraneo, in un periodo arcaico della storia del mondo. Una prospettiva che è presente ben oltre l’ambito accademico, è quella che si ispira al perennialismo guénoniano: anche qui, il nichilismo è un ingrediente della disfatta dell’Occidente, e però esso va inquadrato in un generale contesto di degenerazione, correlato essenzialmente all’oblio della sapienza metafisica nel mondo moderno; e poiché l’Occidente è incapace di raddrizzarsi con le sue forze, appare indispensabile un intervento correttivo dell’Oriente, in cui la sapienza metafisica sarebbe ancora vitale.

3) DA QUALE “ORIENTE” DOVREBBE SOPRAGGIUNGERE LA SALVEZZA DELL’EUROPA?

In un testo dedicato all’argomento, Guénon formula 2 ipotesi:

a) il possibile risveglio dell’Occidente, grazie al supporto della metafisica indù, che presenterebbe i maggiori vantaggi di esposizione e di adattamento per gli Europei;

b) il risveglio grazie all’Islam e all’esoterismo islamico.

Negli anni ’20, Guénon propende per la soluzione induista (la vicinanza dell’Islam potrebbe suscitare reazioni cristiane ed esacerbare gli animi, risultando controproducente); ma nel 1948, sempre più pessimista circa l’Occidente, incapace di sviluppare energie proprie, ipotizza un maggiore interventismo dei popoli orientali, che “per salvare il mondo occidentale dal decadimento, lo assimilano con le buone o con le cattive”, non escludendo lotte dolorose e conflitti etnici ! Dovendosi escludere per ovvi motivi un intervento massivo del mondo induista, se ne ricava dunque l’ipotesi di una islamizzazione dell’Occidente, “con le buone o le cattive”.

4) INTERVENTO “SALVIFICO” DELL’ISLAM IN EUROPA?

E’ qui evidente l’attualità della provocazione guénoniana: infatti una tesi simile è oggi riproposta, sia pur con tonalità diversificate, in molti ambienti islamici, i quali si propongono di “islamizzare la modernità” (v. testi di R. Guolo), e quindi in prospettiva anche l’Europa. Solo che, rispetto a Guénon, è cambiato molto, e non in meglio: la progettualità islamizzatrice è oggi affidata alle correnti più essoteriche dell‘Islam, attaccate al legalismo esteriore della shariah (v. wahhabiti, salafiti, hanbaliti…): l’ossessione letteralistica e dogmatica, elevata ad unica chiave di lettura del Corano e della Tradizione, costringe a rifiutare quale eresia perfino buona parte dell’esoterismo islamico, se non tutto. In tale contesto, perfino il sufi più famoso e autorevole, Ibn Arabi (alla cui catena iniziatica si ricollega lo stesso Guénon) viene dichiarato fuori-legge .

5) LE REAZIONI CULTURALI DELL’EUROPA

Mettendo tra parentesi i contraccolpi politici e militari (che per altro sono all’o.d.g.), qui ci occupiamo delle risposte culturali (che non sono meno importanti di quelle politiche e militari, ed anzi le guidano). In Europa si assiste ad un inevitabile appello alle tradizioni occidentali, quali punti di riferimento per fronteggiare in qualche modo l’espansione islamica. Tale appello esprime orientamenti diversificati, che possono essere semplificati come segue:

a) vi è un richiamo identitario meramente astioso e reattivo, sprovvisto di spessore culturale e perfino di una decente conoscenza del “nemico”: ciò nonostante, esso non va sottovalutato, poiché attecchisce negli ambienti visceralmente ostili allo straniero e al confronto culturale in quanto tale; oggi esso viene alimentato dai contraccolpi correlati ad una certa aggressività islamica;

b) vi è un richiamo identitario di natura religiosa, ben rappresentato nel testo del cardinale J. Ratzinger Europa. I suoi fondamenti oggi e domani (Ed. S. Paolo 2004). Qui il Cristianesimo, pensato come l’essenza dell’Europa, diventa il referente principale per cementare l’area europea e per garantire, così si ritiene, un confronto vantaggioso con l’Islam e più in generale con il mondo non europeo e non cristiano;

c) vi è un richiamo identitario di natura laica, ben diffuso nella società civile europea: esso ritiene che democrazia e liberalesimo costituiscano una peculiarità dell’Occidente in generale e particolarmente dell’Europa, e che questa peculiarità costituisca sempre e comunque un fattore di progresso civile, virtualmente generalizzabile all’intero pianeta. Sui tempi e sui metodi della generalizzazione, vi sono posizioni diverse che spiegano la diversità delle prospettive politiche dei paesi occidentali e dei vari partiti, diversità che portano a scontri anche aspri;

d) vi è infine una posizione intermedia, che in qualche modo cerca di avvicinare o di integrare b e c: in tal senso si sono per es. espressi Marcello Pera (Il relativismo, il cristianesimo e l’Occidente, ora in Senza radici, Mondadori 2004) e Giovanni Reale (Radici culturali e spirituali dell’Europa, R. Cortina Ed., 2003).

6) LE RADICI DELL’EUROPA

I riferimenti di cui sopra, seppur schematici, giustificano ampiamente una visione “plurale” dell’Europa, al cui interno le varie componenti dovrebbero armonizzarsi in qualche modo, senza cedere ad esclusivismi e prevaricazioni, che sarebbero del tutto fuori luogo, dato che: – il Cristianesimo (e la morale che ne discende) non può pretendere di rappresentare l’intero mondo europeo, considerando che vi è una notevole componente laica estranea a qualsiasi forma religiosa; in aggiunta, è giocoforza ricordare le divisioni all’interno dello stesso mondo cristiano e la presenza di religioni non cristiane il cui peso è destinato ad aumentare; – il mondo laico, inversamente, è tenuto anch’esso a riconoscere, ma in modo non superficiale, la compresenza di tali forme religiose, spesso estranee ai principi liberaldemocratici, come è il caso dell’Islam, specie di quello essoterico e legalista(v. R.Guolo: L’Islam è compatibile con la democrazia ? Laterza 2004).

In aggiunta, i testi citati, ed altri ancora, ricordano volentieri, a proposito delle nostre radici, un’altra componente, e cioè la grande filosofia greca, anche se in modo alquanto sfumato e indeterminato, se non retorico.

Da quanto sopra, il sorgere di alcuni interrogativi di fondo, sui quali dobbiamo soffermarci.

7) OLTRE L’OCCIDENTE CRISTIANO E LA LIBERALDEMOCRAZIA, IL NULLA ?

Si tratta di un quesito pesante come un macigno, che grava sulla coscienza europea, cristiana o laica essa sia: una parte del mondo cristiano è portata ad assolutizzare il proprio punto di vista, ritenendo le altre religioni approssimazioni più o meno imperfette alla superiore verità cristiana; inevitabilmente, ne discende una strategia cristianizzatrice (per quanto i metodi possano essere stemperati e addolciti, rispetto al passato); analogamente opera una buona parte del laicismo liberaldemocratico, il quale considera le altre forme sociopolitiche del tutto incivili e autoritarie, o comunque largamente lacunose e quindi bisognose di una terapia volta alla liberaldemocratizzazione…In entrambi i casi, anche quando i processi di cristianizzazione e democratizzazione sono pensati in forme “morbide”, il presupposto è che al di fuori dell’Occidente cristiano e/o liberaldemocratico vi sia sempre e comunque una negatività da togliere o da curare…in definitiva, siamo in presenza di quella prospettiva etnocentrica/eurocentrica, oggetto della denuncia di padre E. Balducci (v. Storia del pensiero umano, Ed. Cremonese).

8) COSA VI PUO’ ESSER DI POSITIVO OLTRE L’OCCIDENTE, IL CRISTIANESIMO, IL LAICISMO LIBERALDEMOCRATICO ?

La democrazia degli altri (Mondadori, 2004) è il titolo di un agevole volumetto di Amartya Sen, il cui indovinato sottotitolo recita:” Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente”. Si tratta di un testo istruttivo, alla portata di tutti, che esprime una tesi semplice ma tutt’altro che superficiale: il già Premio Nobel per l’economia osserva che, in Occidente, c’è stata (e c’è ancora) una grave disattenzione per la storia culturale delle società non occidentali (v. pag. 40). Sulla base di tale ignoranza, l’Occidente pretende di esser l’inventore di quei contenuti positivi che solitamente (e arbitrariamente) vengono attribuiti alle esperienze liberaldemocratiche occidentali. In realtà, si tratta di un inaccettabile razzismo culturale (v. pag. 16), poiché positività del genere si sono riscontrate anche altrove, per es. in Oriente, e prima che in Europa si affermassero esperienze di tipo liberaldemocratico. Forse non è un caso che la più grande democrazia del mondo sia oggi rappresentata dall’India (v. pag. 19).

9) LEZIONI DI PACE E DI PLURALISMO, ESTRANEE ALL’OCCIDENTE EUROPEO?

Amartya Sen cita, quali esempi positivi di stampo non occidentale, l’impero dell’imperatore buddhista Ashoka (III secolo a.C.), l’impero moghul di Akbar (1542- 1605), alcuni momenti dell’Islam medievale… Si tratta di esperienze quanto mai notevoli e istruttive, e però incredibilmente assenti o marginali nelle storiografie “etnocentriche” di matrice europea: in parte per la citata “disattenzione” dei nostri studiosi, in parte perché tali eventi rispondono a logiche interne di pluralismo e di armonizzazione delle diversità, estranee alla mentalità liberaldemocratica con cui abbiamo familiarità. Di conseguenza, essi conservano per noi un marcato sapore di esotismo, tale per cui ci risultano lontani e per lo più incomprensibili…

10) LA SAGGEZZA DELLA NON-DUALITA’, QUALE VIA DI PACE NEL CONFRONTO INTERCULTURALE

Le logiche sopra richiamate ubbidiscono ad alcuni criteri di fondo, le cui idee-forza sono:

a) applicazione del metodo unitivo, e non contrappositivo;

b) accettazione della molteplicità degli angoli visuali e loro inserimento in un contesto di armonizzazione;

c) inaggirabilità della verità totale, il che conduce al superamento delle pretese dogmatiche ed alla metafisica quale “sistema aperto”.

Per indicare tale posizione filosofica, il termine più adeguato risulta essere quello di Non-Dualità, solitamente considerato di derivazione induista (v. Advaita Vada, via della non-dualità). Lo stesso R. Panikkar ne è un assertore, e presenta il metodo della non-dualità come chiave per affrontare i problemi interculturali e più in generale per superare i dualismi che lacerano la vita collettiva e individuale, contribuendo così a percorsi di pace nelle persone e nelle civiltà (v. Pace e interculturalità, Jaca Book, 2002).

11) LA SAGGEZZA DELLA NON-DUALITA’ E LA TRADIZIONE EUROPEA

Si è visto che, parlando di non-dualità, il pensiero solitamente si rivolge all’Advaita, e molti sono portati a supporre che si imponga un riferimento ad una tradizione del tutto estranea all’Occidente europeo. In realtà, non si tratta di importare sprazzi di saggezza dal lontano Oriente, per il semplice fatto che, scavando in profondità nell’anima europea, vi si scopre proprio questo tipo di saggezza, anche se non sempre presentata espressamente con questa terminologia. G. Reale, nel suo testo dedicato alle Radici culturali e spirituali dell’Europa, ammette i molteplici retaggi dell’Europa, e individua la filosofia greca (soprattutto nella versione platonica) come una grande sorgente della nostra civiltà; in un testo precedente, aveva addirittura auspicato il ritorno di tale antica saggezza quale rimedio per i mali odierni (solo che Reale, essendo ancorato ad una datata posizione “eurocentrica”, tende a contrapporre “dualisticamente” i Greci e l’Oriente, il quale sarebbe privo di filosofia, invece di notarne le convergenze sul piano della non-dualità). Restando in Italia, è merito di Raphael (v. edizioni Asram Vidya) aver messo in luce le convergenze, o comunque le affinità di fondo, tra le espressioni orientali (Shankara, Advaita Vedanta…) e occidentali (Platone, Neoplatonismo…) della non-dualità. Sul tema, v. anche G. Cognetti(Oltre il nichilismo. Oriente e Occidente in G. Vallin, F.Angeli, 2003) e, in Francia, G. Vallin.

12) NON-DUALITA’, PLURALISMO, DEMOCRAZIA

Lo spirito della non-dualità è presente in Platone, là dove egli applica il metodo unitivo nel relazionare le correnti spirituali che gli erano note, greche e non, cercando di giungere ad una armonizzazione sostanziale di esse (oltrepassando così, per esempio, la contrapposizione Greci-barbari, ben evidente in altri autori). Non si tratta di un dettaglio isolato, bensì di uno stile di lavoro essenziale nelle scuole platoniche(si pensi al ruolo svolto da Plutarco di Cheronea nell’ambito di ciò che oggi chiamiamo dialogo interreligioso). Forse colui che più ingegnosamente si è attivato in tale direzione è stato Proclo di Costantinopoli, non a caso elogiato quale “sacerdote di tutti i culti”(en passant, facciamo notare che Costantinopoli non era estranea all’Europa, ed anzi per un certo periodo ne fu addirittura la capitale !). Un tale approccio alla pluralità delle culture, già ben presente nelle profonde radici dell’anima europea, ne è uno degli aspetti più qualificanti: sarebbe un imperdonabile suicidio culturale dimenticarsene, in nome di punti di vista più ristretti ! In funzione di una riattualizzazione della non-dualità, si può apprezzare pienamente il ruolo oggi svolto da coloro che, come R. Panikkar, agiscono per superare l’arroccamento esclusivistico e per consolidare la dimensione dell’apertura universalistica.

Per quanto riguarda il laicismo liberaldemocratico occidentale, l’atteggiamento equilibrato della non-dualità non può che soppesarne gli aspetti antitetici: i fautori unilaterali della liberaldemocrazia, facendo leva su alcuni elementi di benessere materiale e di libertà individuale effettivamente presenti da noi(e magari assenti altrove), tendono con ciò a presentare le nostre società come modelli di libertà e tolleranza, mettendo troppo facilmente tra parentesi quanto potrebbe ridimensionare questa convinzione; a quest’ultimo riguardo, sono esemplari i testi di S. Latouche, i quali denunciano invece l’occidentalizzazione del mondo quale propensione verso il neocolonialismo, la deculturazione, il “pensiero unico” e il fanatismo sviluppista, a danno dei popoli non occidentali. Di qui l’esigenza di salvaguardare un ben più ampio pluralismo culturale, oltre i canoni insoddisfacenti previsti dalla liberaldemocrazia “reale”: a questo proposito, anche allo scopo di allargare certi spazi di libertà presenti in Europa, occorre riconsiderare quelle grandi lezioni di libertà e pluralismo, che ubbidiscono ad altre logiche, rispetto a quelle “occidentali”.

In questo caso (come nei precedenti), la saggezza della non-dualità ha la funzione di far da ponte e mettere in relazione queste diverse esperienze, contribuendo anche qui ad una effettiva e non superficiale comunicazione interculturale, che è stata la base indispensabile per illuminate realizzazioni di civiltà votate all’apertura e all’armonizzazione delle differenze, realizzazioni di cui anche oggi si avverte fortemente la necessità.

Il mondo dove l’estetica è alla base dell’etica

PARLA GIANGIORGIO PASQUALOTTO

Da 20 anni il filosofo si occupa di pensiero orientale: ora esce un suo nuovo libro, “Yohaku”

A volte sono imprevedibili le vie filosofiche per l’Oriente. Prendiamo il caso di Giangiorgio Pasqualotto: professore di storia della filosofia all’università di Padova, che da almeno vent’anni si dedica al pensiero orientale. Ha da poco pubblicato Yohaku, l’espressione giapponese che indica lo spazio vuoto, il margine (Esedra editrice, pagg. 157, lire 22.000). A gennaio uscirà la ristampa, per Marsilio, di Il Tao della filosofia, e sempre all’inizio dell’anno annuncia un nuovo libro: East & West, anch’esso per Marsilio.

Leggi tutto “Il mondo dove l’estetica è alla base dell’etica”

La filosofia mistica e la ricerca della verità

Andrey Smirnov

LA FILOSOFIA MISTICA E LA RICERCA DELLA VERITÀ

presentazione e traduzione di Alberto de Luca

Edizioni Simmetria

info@simmetria.org

La locuzione “filosofia mistica” è probabilmente inusuale in Italia se non addirittura antinomica per chi ritiene che vi possa esserci solo un’antitesi irriducibile tra questi due termini; ma a mio modesto avviso, quest’ultima prospettiva da cui viene giudicata negativamente l’espressione dello stesso Smirnov – perdendosi in garrule polemiche – pare sminuire e limitare proprio ciò di cui queste stesse persone sarebbero custodi, vale a dire la sapienza di tipo gnoseologico.

Del resto, ma questa è una generalizzazione, la fedeltà a dei principi non vieta mai ai suoi stessi continuatori di seguire delle linee nuove e di ridefinire le idee. Non è in questo senso che si finisce con il “tradire” i principi.

Alla fine si scopre però che al tempo dei Padri, in parte coevi a certi autori islamici citati in questo libro, non sarebbe stato uno scandalo parlare di “filosofia mistica”, mentre è dalla Scolastica a seguire fino ai nostri giorni che certe parole hanno iniziato, invece, a suscitare scandalo e riprovazione.

Questa sembrerebbe essere la sorte che è toccata a certe espressioni o termini in barba proprio a quell’azione, predicata oggi dai più, di riportare le parole al suo senso originario.

Ecco perché pare quanto mai opportuno condividere con voi queste righe finali della Risâlat al-Mufsiha ossia  L’Epistola chiarificatrice scritta da Qûnâwî:

In modo analogo, a colui che conquista la stazione della “certezza di visione”, dopo che ha superato il livello della scienza certa, incombe il desiderio di raggiungere la “certezza reale”, la quale annovera tra i suoi statuti anche quello dello studio per riunire assieme ciò che risulta dalla dimostrazione e ciò che è frutto della visione diretta.

Le parole di quest’autore appartenente alla “scuola di Ibn ‘Arabî” forniscono, per chi scrive, una prova molto efficace per poter parlare, assieme a Smirnov, di “filosofia mistica”.

Non si tratta di polemos e di dialettica fine a se stessa – l’uomo è infatti essenzialmente logikos, direbbe Nazianzeno ovvero “dotato di parola” e quindi capace di dialogo -, quanto invece di sublimazione della visione diretta con la speculazione intellettiva, sempre non perdendo di vista anche la dimensione sensoriale che partecipa sia della visione diretta che della speculazione.

La visione diretta è la quintessenza dell’esperienza mistica mentre la speculazione intellettiva lo è della conoscenza.

Impostate così le cose  non si può “vedere” se prima non si “conosce” ciò che si vede, pena l’irriconoscibilità delle esperienze e delle visioni.

D’altro canto se, però, ciò che si “conosce” non viene “sperimentato” – ossia “visto” – quella conoscenza è al massimo un enciclopedismo fine a se stesso. Infatti, la speculazione in sé rimane confinata in un suo mondo ideale e non fornisce certezza in re, anche se è dimostrativa. Quindi la filosofia potrebbe da sola non bastare.

In un soggetto che non è in grado di cogliere direttamente l’essenza, cioè un soggetto senza “mezzi” (anche quindi l’intelletto), la conoscenza è totale dipendenza e la sua verità non è realmente definibile a priori. Quindi è “coincidenza”. Anche qui l’esperienza mistica potrebbe da sola non bastare

Solo una conoscenza “per propria essenza” può essere detta vera e questa è propriamente conoscere essenzialmente se stessi.

Da ciò se ne deriva che la conoscenza sia inscindibile dall’esperienza mistica. Ovviamente, ripeto che considero assodato che il dato sensoriale sia necessario al manifestarsi e della conoscenza e dell’esperienza.

In questo senso sembra opportuno notare che la stessa tradizione, intesa in modo assoluto, è sempre testimonianza come premessa oppure testimonianza come riferimento di principio, ma in ogni caso non può prescindere dalla “soggettività”.

La soggettività è la ricettività particolare dell’uomo nei confronti del numinoso: è l’orma di Dio nell’uomo di terra.

L’unico modo per non dipendere dalla tradizione – ciò che non vuol dire farne a meno, perché è concretamente impossibile ­- è la verifica diretta.

Il fallimento della verifica diretta è accidentale con riferimento alla tradizione e quindi a Dio.

Infine, per quanto riguarda l’accostamento dei termini “filosofia” e “mistica”, si ritiene che le definizioni date dalla vulgata, sia permessa l’espressione, sono tanto diffuse quanto insicure e sostanzialmente fuorvianti.

Pare, infatti, che la filosofia sia solo l’attività autonoma della ragione che non riconosce alcuna autorità al di sopra di sé, mentre si dimentica il suo etimo greco, che è “amore della Conoscenza”.

Bonne gré mal gré la mistica, invece, riguarderebbe il soprannaturale, colorandosi di emotività, dimenticando così il concetto arcaico di “mistero” (legato alla radice del verbo greco myein), che indicava una dimensione non tanto misteriosa quanto iniziatica, riservata a coloro che erano stati adeguatamente istruiti, da cui mistagogia.

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