Alcuni aspetti del pensiero filosofico di Julius Evola

Aprendo il seminario dedicato a Heidegger e tenuto a Messina il 2-3 aprile 1982, Carlo Sini si domandava: “Che cosa è degno di essere pensato in un seminario dedicato a Heidegger?”, rilevando subito la pretenziosità di un simile interrogativo.

Dire, infatti, “ciò che è degno di essere pensato” significa che non tutto ha la dignità del pensiero, che qualcosa ne resta escluso, appunto perché “non degno” (1). Noi, pertanto, non pretendiamo di stabilire che cosa sia “degno” di essere pensato nella filosofia di Julius Evola, personaggio anomalo e scomodo quant’altri mai, politicamente scorretto, relegato per decenni nel Limbo della cultura italiana in attesa di un’improbabile riabilitazione o di un tardivo “sdoganamento”. La guerra fredda è finita ma per Evola, filosofo irrimediabilmente compromesso col fascismo, non sembra ancor giunto il tempo di una valutazione serena e imparziale. Altri intellettuali di quella stagione culturale sono stati, se non riabilitati, almeno amnistiati: Ezra Pound, Knut Hamsun, Giovanni Gentile, perfino Brasillach e Drieu La Rochelle, per non parlare di Ernst Jünger e dello stesso Martin Heidegger.

Qui non vogliamo tentarne una discutibile riabilitazione, né ratificarne la condanna definitiva, ma semplicemente individuare i passaggi salienti del suo percorso speculativo, con particolare riguardo a quelli che possono presentare tuttora elementi di interesse o di vitalità. “Alcuni aspetti” del pensiero filosofico di Evola, dunque, non perché intendiamo operare una nostra personale selezione da esso, dal momento che il pensiero filosofico di un autore è una unità e può essere pienamente inteso solo cogliendone l’interna dinamica – non importa se coerente o contraddittoria – e mettendola in relazione con il contesto culturale in cui s’inscrive. Infatti la filosofia non è mai totalmente pura, nel senso di estranea alla storia, come non lo sono le arti e le scienze. Se operassimo una siffatta selezione, commetteremmo un’operazione arrischiata e, al limite, arbitraria; al contrario, in questa sede ci limiteremo a delineare una panoramica complessiva, e forzatamente schematica, del percorso intellettuale di questo autore. Il criterio che seguiremo in questa inevitabile schematizzazione sarà essenzialmente quello di cogliere la logica interna della speculazione di Evola, il suo percorso logico oltre che cronologico, nonché evidenziare gli aspetti di essa che presentano maggiori agganci con la realtà presente: la tecnica, il dominio, il mistero – aspetti invero numerosi, poiché tutta la parabola del pensiero evoliano non è che una critica serrata, ininterrotta, rigorosa alle pratiche e allo spirito stesso della cosiddetta “modernità”.

Ma la modernità può essere criticata da due differenti prospettive: quella, nostalgica, di un passato pre-moderno e quella, propositiva, di un’altra idea della storia, del progresso, della vicenda umana. Vedremo che il pensiero di Evola si inscrive sostanzialmente in questa seconda categoria.

Giulio Cesare Andrea (Julius) Evola nasce a Roma il 19 maggio 1898 da Vincenzo e da Concetta Frangipane, una famiglia aristocratica e cattolica di lontane origini spagnole. Compie studi di tipo tecnico, coltivando per proprio conto l’arte e la filosofia, per poi iscriversi alla facoltà d’Ingegneria: ma, giunto alle soglie della laurea, si rifiuta di discutere la tesi per disprezzo dei titoli accademici. Gli autori che contribuiscono alla sua formazione sono Nietzsche, D’Annunzio, Michelstadter, Stirner e soprattutto Giovanni Papini (prima della sua conversione al cattolicesimo). Amico di Balla e Marinetti, si dedica alla pittura allontanandosi presto dal futurismo per orientarsi verso una dimensione esoterica, da lui definita di “idealismo sensoriale”; e, più tardi – dopo la prima guerra mondiale – verso il dadaismo.

La guerra del 1914 lo trova su posizioni filo-germaniche, in nome dei valori “tradizionali” dell’ordine, della disciplina, della gerarchia, e più in generale di una concezione aristocratica della vita, che vede incarnati nel militarismo prussiano. Partecipa comunque alla guerra, come ufficiale di complemento, sull’Altopiano di Asiago, nel 1917-18. Nel 1919, dopo aver partecipato all’Esposizione nazionale futurista di Milano, rompe definitivamente con Marinetti e aderisce al dadaismo l’anno dopo, con una lettera a Tristan Tzara, “in nome di una liberazione assoluta (…) non solo nel campo dell’arte, ma altresì con un riferimento al campo generale della vita.” (2) Fa uso regolare, fino al 1925, di stupefacenti, per raggiungere – seconda le lezione dei “poeti maledetti”, quegli stati alterati di coscienza che soli permetterebbero un accesso alle dimensioni “altre” dello spirito.

Questa seconda fase della produzione pittorica di Evola lo vede interpretare il dadaismo in chiave di “astrattismo mistico” ovvero di spiritualismo idealistico ed è caratterizzata da importanti mostre personali a Roma e Berlino, nel 1920, e dalla partecipazione al Salon Dada di Parigi, nel 1921. Nell’opuscolo Arte astratta spiega le ragioni del suo allontanamento dai futuristi, individuandole essenzialmente nella loro incapacità di percorrere coerentemente, sino in fondo, la via del volontarismo e dell’attualismo. Si fa inoltre notare per la collaborazione a riviste artistiche e ad alcune serate dadaiste, nonché per la pubblicazione di poesie (che verranno raccolte in volume solo nel 1969) e di un poemetto dadaista, edito a Zurigo nel 1920: La parole obscure du paysage interieur.

Fedele alle teorie del Leonardo sulla priorità del pensiero sull’arte, a si immerge in profondi studi filosofici e di orientalistica, specialmente su taoismo, yoga, tantrismo e buddhismo zen, e dal 1923 abbandona pressoché totalmente la pittura, per iniziare la sua fase filosofica. Sono gli anni in cuiIl tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler domina il dibattito filosofico europeo ed Evola si distacca per sempre dall’idealismo hegeliano (e gentiliano) in nome di una libertà interiore assoluta, coerente, quindi, con le posizioni teoriche della sua seconda fase pittorica. L’idealismo, per lui (compreso l’attualismo gentiliano) offre una prospettiva inadeguata al grandioso compito che il pensiero, secondo lui, deve prefiggersi: quello di superare i limiti della comune umanità verso quell’oltre-uomo che Nietzsche aveva annunciato, ma solo intravisto, e che piuttosto sembra perseguibile mediante dottrine orientali come lo yoga, il tao e lo zen, peraltro interpretate in chiave fortemente vitalistica e volontaristica: dunque con scarso rispetto per le loro finalità originarie, che sono prevalentemente di liberazione non dell’io, ma dall’io; non di una realizzazione dell’Individuo assoluto ma, al contrario, di una distruzione delle catene del falso Ego. Per lui, l’attualismo gentiliano è solo un punto di partenza: esso ha bensì posto l’Io come principio attivo della realtà, ma solo sul piano logico-astratto; si tratta ora, sulle orme di Nietzsche, Weininger e Michelstadter, di riconoscere la potenza come criterio di verità e di elaborare gli strumenti capaci di affermare l’Individuo assoluto. In questo periodo scrive due opere che verranno pubblicate un po’ più tardi, rispettivamente nel 1927 e nel 1930: Teoria dell’individuo assoluto e Fenomenologia dell’individuo assoluto.

Due sono le “vie” che, dal punto di vista dottrinario, appaiono praticabili in vista della personale realizzazione: la “via dell’altro” e la “via dell’Individuo assoluto”. Entrambe sono vere e non esiste una superiorità intrinseca dell’una rispetto all’altra. La “via dell’Individuo assoluto”, comunque, può essere determinata particolareggiatamente ed Evola vi s’impegna in queste due opere, tracciando un “sistema” (ma il termine va usato in senso molto generico) nel quale si delinea un principio superiore immanente, capace di dar conto sia dei fattori dell’esperienza reale, sia di ciò che li trascende. In tale prospettiva, ogni cosa va assunta e dedotta in funzione del processo dell’Individuo assoluto proteso (come il Mago o Bagatto dei Tarocchi) al fine supremo della propria auto-realizzazione. La speculazione evoliana prende l’avvio dal punto in cui l’idealismo classico trascendentale si arresta; e, in essa, tutto ciò che si rapporta alla semplice esperienza umana non appare che come un caso particolare di una problematica infinitamente più vasta.

“L’Individuo assoluto – scrive Evola – è immediatamente sé nelle infinite affermazioni individuali – v. d. secondo il grado conquistato nell’ultima categoria, nei singoli individui, nei singoli valori – e in ciascuna di esse si fruisce come libertà, come incondizionata agilità ed arbitrio assoluto lampeggiante variamente e circolante sulla tela del multum.Ma, d’altra parte, mentre si produce ed afferma in ogni individuazione, nello stesso punto, secondo il principio dell’attualità autoconsumantesi, egli la riprende in sé e la fa comunicare nell’innominabile trascendente, in quell’assoluta combustione a cui è adeguato non il particolare individuato,bensì l’infinito nell’individuare come unità, semplicità o simultaneità di una infinita circolazione.” (3)

Dal 1924 collabora con le riviste Atanor e Ignis, dirette dal pitagorico Arturo Reghini, e con il periodico Lo Stato democratico del duca Giovanni Colonna di Cesarò, sul quale interviene, nel 1925, con l’importante scritto Stato, potenza, libertà, critico sia verso il fascismo che verso la democrazia. In esso sostiene che le masse, preda delle peggiori tentazioni demagogiche, sono assolutamente incapaci di auto-governarsi – una posizione di per sé niente affatto fascista, ma piuttosto aristocratica, nel senso platonico della parola – e che solo il ritorno a una rigorosa morale nobiliare può consentire il recupero di quei valori spirituali da cui dipende la salvezza dell’Occidente. Tale missioni spirituale, secondo Evola, non è alla portata del fascismo: di qui la sua posizione, inizialmente negativa, nei confronti del movimento di Mussolini.

Negli anni fra il 1923 e il 1925 collabora anche a Ultrà di D. Calvari, presidente della Lega teosofica indipendente di Roma, e a L’idealismo realistico di V. Marchi, su cui recensisce sfavorevolmente un libro di René Guénon sul Vedanta, cui l’autore risponde dando inizio a una polemica che lascerà comunque traccia durevole nel pensiero del Nostro. In particolare, da Guénon egli recepisce e fa suo il concetto di Tradizione, intesa come un sapere di origine non umana che si trasmette, attraverso scuole esoteriche sia orientali che occidentali, con il fine precipuo di guidare l’umanità attraverso il nero Kali Yuga della modernità, consentendole (o meglio, consentendo a pochi privilegiati) di non smarrire il vero significato della vita, che è – ancora e sempre – quello della totale affermazione della libertà interiore attraverso le pratiche e la dottrina di un individualismo assoluto di stampo volontaristico.

Nel 1925 escono i Saggi sull’idealismo magico e L’uomo come potenza, opere che segnano un’ulteriore svolta nell’itinerario speculativo di Evola e cioè il passaggio da una posizione filosofica di tipo teorico ad una di tipo pratico. In esse, infatti, l’Autore si propone di individuare gli strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella storia la teoria dell’Individuo assoluto, concepito come libertà totale e come totale auto-normatività. Si tratta di forgiare un nuovo tipo eroico, il tipo “tantrico”, capace di sovvertire – mediante le tecniche meditative e “magiche” dell’Oriente – le stesse leggi naturali, oltre che le costrizioni morali imposte da millenni all’Occidente, prima dalla religiosità cristiana, poi dal meschino edonismo borghese, filisteo e perbenista. L’uomo deve ritrovare in sé il proprio principio assoluto, rifiutando sia l’etica del sovrasensibile, della trascendenza, sia l’utilitarismo e il pragmatismo di matrice scientista, le cui acquisizioni sono meramente illusorie. Coniugando l’Unico di Max Stirner con l’Oltre-uomo di Friedrich Nietzsche e recuperando, mediante un notevole approfondimento delle tecniche super-naturali del taoismo, dello yoga, dello zen e del tantrismo, Evola intende restaurare una nuova morale che scardini l’opposizione dualistica tra Bene e Male, Virtù e Colpa, in nome di un’etica aristocratica basata sull’unico principio dell’individuale volontà di potenza. Il rifiuto del mondo moderno, in questa prospettiva, non è che la logica conseguenza dell’atteggiamento “eroico”, titanico e guerriero con cui Evola si pone nei confronti della realtà esterna, in nome dei diritti esclusivi dell’individuo assolutizzato. Il mondo moderno è il regno della quantità, della democrazia, della mercificazione universale, di una tecnica asservita al materialismo più rozzo e prepotente; è il regno in cui la “morale degli schiavi”, dominata dall’invidia, dal rancore e dal senso di colpa, cerca di annientare le potenzialità creative e dominatrici dell’individuo aristocratico, facendo perno sulla sola forza bruta del numero.

In particolare, nei Saggi sull’Idealismo magico Evola compie quella che è stata definita una “rottura di livello”, un impetuoso superamento del dualismo implicito nella teoria dei suoi grandi e riconosciuti maestri: Nietzsche, Weininger e Michelstadter – dualismo il cui esito erano stati la follia e l’autodistruzione. In un certo senso si può affermare che, per Evola, la verità o la falsità dell’idealismo possono venir decise “non per un atto intellettuale, ma per una realizzazione concreta”, quella in cui si deve realizzare l’atto magico per eccellenza, mediante il quale “l’esistenza empirica venga realmente trasfigurata e risolta nella divinità”.(4) Il Dio di cui si parla qui, peraltro, non è un Dio trascendente, ma è la realtà profonda dell’individuo medesimo. “Dio – sostiene Evola – non è che un fantasma quando non venga generato in noi stessi e non con parole, concetti, fantasie o bei sentimenti, bensì con un movimento assolutamente concreto”. Solo ciò “può dare una certezza e un senso alla sua vita”, e non lo si può fare mediante un atto intellettuale, ma solo empiricamente. È l’individuo che genera in sé il principio: l’unica alternativa al teismo è, quindi, l’Idealismo assoluto, che è “magico” perchè deve trasformare – alchemicamente – sé stesso nel principio assoluto, meglio, riscoprire quel principio assoluto che – come insegnano alcune dottrine orientali – è già presente in noi stessi come una scintilla di luce divina, ma che noi abbiamo soffocato sotto una spessa coltre di illusione, alienazione, sensi di colpa. “Così come fu distintamente inteso dagli Orientali, non vi è che un modo di dimostrare Dio, e questo è: farsi Dio (…) Se l’idealismo deve esser vero, l’individuo empirico va negato, ma solo come una cosa ignava ed irrigidita nella sua fittizia limitazione, per esser invece integrato in uno sviluppo in cui, lungi dall’esser subordinato e dal rimettersi a qualcosa fuori di sé, resta dentro sé stesso, in un infinito potenziarsi e rendersi sufficiente del suo principio”. (5)

Con alcuni altri pensatori d’indirizzo magico-idealistico, fra i quali Arturo Reghini, Evola nel 1926-27 dà vita al “gruppo di Ur”, dando alle stampe una serie di monografie mensili, intitolate dapprima Ur e poi Krur, che verranno infine raccolte nei tre volumi della Introduzione alla magia quale scienza dell’Io (Roma, 1927-29) e che per sua volontà manterranno anonimi i singoli contributi.

In un saggio del 1927 pubblicato sulla rivista di studi religiosi Bilychnis, Evola – quasi tracciando di sé un involontario autoritratto – osserva: “Oggi sono attratti dall’occultismo quegli spiriti nei quali l’esperienza religiosa non costituisce più nulla di vivente o di sufficiente, che hanno attraversato l’esperienza della scienza positiva e mentre di essa conservano il metodo e la positività, ne rigettano la concezione materialistica del mondo per aspirare di nuovo ad una spiritualità trascendente, sulla base di spiccate istanze indivualistico-immanentistiche.” (6) E, nella Introduzione all’opera collettiva del “gruppo di Ur” Introduzione alla magia, possiamo leggere: “Di là dall’intelletto raziocinante, di là dalle credenze, di là dai sentimenti, di là da ciò che oggi vale in genere come cultura e come scienza, esiste un sapere superiore. In esso cessa l’angoscia dell’individuo, in esso si dissipa l’oscurità e la contingenza dello stato umano di esistenza, in esso si risolve il problema dell’essere. Questa conoscenza è trascendente anche nel senso che essa presuppone un cambiamento di stato. Non la si consegue che trasformando un modo di essere in un altro modo di essere, mutando la propria coscienza. Trasformarsi – questa è la premessa della conoscenza superiore: la quale non sa di problemi, ma solo di compiti e di realizzazioni.”(7)

Dopo una scissione in seno al “gruppo di Ur” e il suo successivo scioglimento (dovuto forse, in parte, anche alle manovre della massoneria italiana, che temeva la diffusione delle sue teorie), Evola nel 1928 si avvicina al fascismo o, meglio, alla rivista di Giuseppe Bottai, Critica fascista. Le riflessioni del Nostro in materia di rapporti fra Stato e Chiesa cattolica, anzi fra Stato e religione cristiana, cui si dedica in quel periodo e che vengono pubblicate anche su Vita Nova e Il lavoro d’Italia, danno luogo alla pubblicazione di un volume intitolato Imperialismo pagano, sempre nel 1928, in cui egli attacca frontalmente il cristianesimo in nome di un’auspica resurrezione del paganesimo greco-romano. Se il fascismo sarà in grado di portare sino in fondo una tale operazione, secondo Evola esso avrà davvero realizzato quella necessaria soluzione di continuità con il passato, che ne giustificherebbe la missione storica.

Il “male cristiano”, secondo Evola, ha messo profondamente le radici nella società europea. Non lo fa solo dal punto di vista positivistico (come, ad es., per Carducci) o etico (come per Nietzsche), ma anche in senso metafisico. L’adorazione della scienza e della tecnica, secondo lui, sono conseguenza del cristianesimo, e così la nuova religione del “progresso” e dell'”umanità”; e ne individua le origini nell’abbandono del principio della gerarchia, dell’assetto gerarchico della società. Per realizzare una restaurazione che sia al tempo stesso etica, sociale, politica, spirituale, occorre dunque tornare ai valori aristocratici di una società divisa in caste. “In conclusione – afferma – con due armi bisogna lottare contro questa prima radice del male europeo.” La prima, “creare una élite, scavare profondamente e duramente delle differenze, degli interessi, delle qualità nuove nell’indifferenziata sostanza interiore degli individui di oggi, così che si ridesti una aristocrazia, una razza di signori, di dominatori, di fascinatori. Questo anzitutto. In secondo luogo, un moto, una rivolta dal profondo che scardini la macchina, la dipendenza estrinseca, inorganica, automatica, violenta, che spezzi il giogo economico-capitalistico, che irrida il dovere del lavoro imposto come legge universale e fine a sé, che liberi insomma, che apra l’oscura volta all’aria, alla luce – per, sulla base di questa libertà, non per violenza, non per dominio di bisogni e giuochi di passioni, interessi ed ambizioni, ma per riconoscimento spontaneo dato dal senso di valori e di forze trascendenti, da consapevolezza di natura, di dignità e di qualità, ricostituire la gerarchia. Una gerarchia organica, diretta, effettiva: in ciò, più libera e più ferrea di qualsiasi altra. Come non riconoscere, allora, che la dottrina orientale delle caste, anziché stare indietro, sta ancora innanzi, e di molto, nel corso della storia dell’occidente?”. (8)

Ma il momento, dal punto di vista del filosofo, non avrebbe potuto essere meno favorevole: proprio nel 1929 Mussolini firma il concordato con la Santa Sede e le gerarchie cattoliche premono sul regime per sapere se e fino a che punto le teorie di Evola rispecchiano effettivamente la posizione del fascismo nei confronti della Chiesa. Mussolini, in quel momento, non vuole conflitti con la Chiesa, e Bottai “scarica” Evola, mettendo bene in chiaro che gli scritti di Evola per Critica fascista riflettono solo il pensiero del loro autore. Anche le valenze anti-capitalistiche a anti-borghesi, implicite ed esplicite nel contesto della restaurazione gerarchica e tradizionale auspicata da Evola, non possono che dispiacere al regime, nel momento in cui esso, dismessi definitivamente i panni della stagione rivoluzionaria, ambisce a presentarsi essenzialmente come elemento d’ordine e, pertanto, desidera rassicurare proprio quella borghesia, cui va debitrice di gran parte della sua affermazione. Diversa è l’accoglienza riservata al libro in Germania, dove la traduzione tedesca appare a Lipsia, nel 1933 (l’anno dell’avvento di Hitler al potere): il libro è accolto come una sorta di vangelo del moderno ghibellinismo e piace, negli ambienti nazisti, proprio per quella conclamata volontà di rompere i ponti con la tradizione cattolica e di imboccare la strada di una resurrezione “imperiale” del paganesimo.

Il 1930 è l’anno in cui Evola fonda e dirige, per dieci mesi, la rivista La Torre,il cui titolo non evoca tanto l’omonima carta dei Tarocchi quanto una precedente, e ormai dimenticata, rivista fondata da Domenico Giuliotti. Uno dei suoi redattori, lo psichiatra Emilio Servadio, così ne ricorda le finalità: “Per Evola, e per chi accettò di collaborare a La Torre, questa doveva essere, sì, un baluardo da cui lanciare strali e fuoco greco all’indirizzo di taluni, ma anche rifugio sicuro per coloro che aderendo ai princìpi che dovevano reggerlo, fossero capaci di essere, insieme con noi, uomini di ‘espressioni varie’, ma fermi partecipi di una ‘Tradizione una’. (9)

Il regime però non vede di buon occhio la nuova rivista evoliana e, alla fine, gli ordina di sospenderne la pubblicazione, in parte a causa di alcune critiche rivolte a certi aspetti della politica fascista, in parte perché lo sospetta di essere un “agente segreto” di Jiddu Krishamurti, il filosofo indiano che nel 1929 si era staccato dalla Società Teosofica di Annie Besant e aveva sciolto l’ordine della Stella d’Oriente, da lei creato proprio per preparare l’umanità al ruolo di “istruttore del mondo” che egli avrebbe dovuto assumere. Nel periodo de La Torre, Evola approfondisce vari nodi teorici, tra cui il “ciclo vitale” delle civiltà, mutuato da Spengler, e soprattutto il concetto di “Tradizione” introdotto da Guénon. Quest’ultima viene definitivamente recepita in senso metastorico, quale espressione di un sapere non umano cui corrisponde una ben precisa gerarchia di valori, capaci di dar vita ad una società organizzata in senso qualitativo ed aristocratico.

Vistosi interdetta la pubblicazione de La Torre, per un lungo periodo di tempo Evola si ritira in montagna, dedicandosi a un’altra sua vecchia passione: l’alpinismo, vissuto come sintesi della volontà di potenza, della mistica delle altitudini e della dimensione estetico-eroica tipica, quest’ultima, di un certo filone del decadentismo a lui particolarmente congeniale (da giovane era stato lettore e ammiratore di oscar Wilde). Da tale “ritiro” nelle solitudini alpestri usciranno due altri libri importanti, rispettivamente nel 1931 e 1932: La tradizione ermetica e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo.

La tradizione ermetica è un’opera di grande dottrina e di concezione vigorosa in cui l’autore espone, con notevole padronanza delle fonti, la tradizione ermetico-alchemica come esempio di tradizione spirituale non cristiana, di quella “via regale” al sapere che egli contrappone alla “via sacerdotale” delle religioni, basata non sull’ascetismo e sulla contemplazione, ma su un approccio eroico, virile e combattivo alla vita. A differenza di altre interpretazioni dell’alchimia, tra le quali quella di Jung, essa si distacca da un’interpretazione psicologica e psicanalitica per attingere ai livelli più profondi dell’insegnamento tradizionale e ad una nuova concezione dell’essere umano, basata sulle dottrine misteriosofiche ed esoteriche d’Oriente e d’Occidente. Evola, fra l’altro, afferma di credere pienamente all’esistenza dei Maestri Invisibili; non solo, ma che tutta la storia dell’umanità è direttamente influenzata dalla loro opera occulta e sistematicamente preordinata. “Essi – scrive fra l’altro – sono destinati a compiere il ristabilimento generale dell’universo. Essi non sono soggetti né alla fame, né alla sete, né alla vecchiaia, né ad altro disturbo della natura. Essi conoscono per rivelazione quelli che sono degni di essere ammessi alla loro società. Possono in ogni tempo vivere come se fossero esistiti dal principio del mondo, o come se dovessero restare sino alla fine dei secoli. Possono forzare e mantenere al loro servizio gli spiriti e i dèmoni più possenti. ” E ancora: “Dietro le quinte della coscienza degli uomini e della loro storia, là dove lo sguardo fisico non giunge e il dubbio non osa portarsi,può esservi qualcuno. (…) Noi riteniamo che nessun avvenimento storico o sociale di qualche importanza, nessun fenomeno da cui sia seguito un determinato corso delle vicende terrestri, comprese certe ‘scoperte’ e la nascita di nuove idee, abbia avuto una origine casuale e spontanea, invece di corrispondere ad una intenzione, talora ad un vero piano determinato da dietro le quinte e realizzato attraverso vie che oggi si è lontani dall’immaginare. Ciò, nel segno della Luce – così come pure, a seconda dei casi – in quello opposto.” (10)

Quest’ultimo accenno alle potenti forze delle Tenebre, che in dimensioni sconosciute perseguono il progetto di una vera e propria contro-iniziazione e di una inversione dei valori tradizionali, viene ripreso in Maschera e volto della spiritualismo contemporaneo (che riecheggia, già nel titolo, un famoso libro di Guénon: Errore dello spiritismo). Infatti, Evola denuncia come dietro le apparenze “spiritualistiche” di certe dottrine occulte ed esoteriche non vi sia un ritorno al sovrasensibile, bensì – propriamente – il pericolo di una discesa verso forme di vita psichica inferiori e potenzialmente malefiche, giù giù fino alle basse forme della magia e del satanismo. Dopo aver sottoposto a critica severa le confusioni, le deviazioni e, a suo parere, gli autentici pericoli insiti nelle pratiche dello spiritismo, della metapsichica, della teosofia, dell’antroposofia, dell’ ‘esoterismo cristiano’, del neomisticismo, delle dottrine di Krishnamurti (di cui era stato creduto seguace), delle forme inferiori di occultismo, delle teorie di Gurdjief e di Aleister Crowley – espulso, quest’ultimo, dalla Sicilia perché sospettato dalle autorità fasciste di praticare la magia nera – Evola cerca di separare il grano dal loglio di ciò che è realmente spiritualismo da ciò che non lo è affatto.

In quest’opera, l’Autore non esita a sottoporre a critica implacabile persino uno dei suoi maestri riconosciuti, Nietzsche. Di lui scrive che “Nietzsche ci si presenta come una figura tipicamente moderna, ci si presenta cioè come una personalità fortemente delineata, però completamente priva del senso, che la personalità stessa è solo l’espressione contingente di un superiore principio. Così in lui si è realizzata una specie di circuito chiuso nel quale la forza si accumula, si differenzia, si esaspera e cerca disperatamente una liberazione. Per le grandi tradizioni del passato Nietzsche non ebbe effettivamente quasi nessuna comprensione.” Interessante, poi, il suo punto di vista sull’Oltre-uomo nietzschiano. “L’intima essenza del superuomo può (…) piuttosto definirsi comeun’ascesi per l’ascesi stessa, come una estrema, quintessenziata accumulazione della volontà di potenza intesa come valore e fine a sé stessa.Ma qualora si mantenga inflessibilmente questa direzione e, d’altra parte, si resti ‘fedeli alla terra’, cioè restino ferme le condizionalità proprie alla persona umana, la saturazione può avere per effetto un corto circuito, perché il potenziale che i ‘figli della terra’ possono sopportare è limitato. Il Merezkovskij, a tale riguardo, ha una felice immagine: se gli esseri che, di balza in balza, hanno raggiunto una vetta, senza saper volare vogliono portarsi oltre, avanzando precipiteranno nel baratro che si apre dopo la vetta.” Un malinteso superomismo, dunque, può portare non all’Oltre-uomo, ma cadere in quelle forze malefiche cui aveva accennato nell’opera precedente, e che Evola tende a identificare non solo in senso metafisico, ma anche in senso storico e concreto. Scrive infatti: “Il regno del ‘male’ corrisponde, metafisicamente, a ciò che il Guénon ha chiamato contro-iniziazione. Sul piano più basso si tratta delle influenze che già chiamammo ‘infere’, influenze che, per via della loro stessa natura, agiscono distruttivamente su tutto ciò che è forma e personalità. Ma, più in alto, si tratta di forze intelligenti, lo scopo delle quali è il deviare, pervertire o invertire ogni tendenza dell’uomo a riconnettersi col vero soprannaturale. È, questo, un ordine che si può definire ‘diabolico’ e, nel caso limite, satanico. Né esso va concepito astrattamente, bensì in relazione ad esseri reali, talvolta anche a determinati centri e a una specie di fronte occulto. Anche questo è un piano non semplicemente umano, e appunto in funzione di esso si definisce, in determinati casi, il concetto di ‘asceti del male'”. (11)

In questi anni, il magmatico Evola comincia ad accarezzare un altro progetto filosofico-spirituale: anziché rigettare in blocco la tradizione cristiano-cattolica, provare a cercare in essa, e più precisamente nella sua tradizione ascetico-contemplativa, dei punti di partenza verso un recupero della tradizione, sia pure su di un piano inferiore rispetto a quello eroico-guerriero da lui vagheggiato. In tale disegno si collocano alcuni suoi soggiorni, in incognito, presso taluni ordini religiosi considerati più vicini alla sorgente tradizionale originaria, quali il carmelitano, il certosino ed il benedettino dell’antica regola. Tale esperienza lo induce a un parziale riavvicinamento al cattolicesimo, non nella sua essenza, ma nella sua funzione spirituale e sociale, e al riconoscimento che anche a partire dai suoi valori originari è possibile un tentativo, sia pur disperato e tragico, di ricostituzione della struttura tradizionale. Al tempo stesso, continua a collaborare intensamente alla rivista di Giovanni Preziosi La vita italiana, evidenziando come la propria concezione del nazionalismo è ben lontana da quella “moderna”, tipica delle democrazie occidentali e anche dell’Unione Sovietica, considerata quest’ultima un sottoprodotto di quelle. “La direzione nazionalistica – afferma – ammette due possibilità idealmente distinte e antitetiche, benché in pratica spesso confuse insieme. E l’una ha un senso di degenerazione e di regressione, l’altra invece via a valori superiori- è preludio di resurrezione.” Il primo tipo di nazionalismo, “nato presso alle rivoluzioni che hanno travolto i resti del regime aristocratico-feudale (…) esprime dunque un puro ‘spirito di folla’, è una varietà dell’intolleranza democratica per ogni capo che non sia un mero organo della ‘volontà popolare’, in tutto e per tutto dipendente dalla sanzione di questa. Così noi vediamo facilmente che fra nazionalismo e anonimato alla sovietica o all’americana, in fondo vi è solo una differenza di grado: nel primo il singolo è ridissolto nei ceppi etnico-nazionali d’origine, nel secondo vien sorpassata la stessa differenziazione propria a questi ceppi etnici, e si produce una più vasta collettivizzazione e disintegrazione nell’elemento massa.” Ma, secondo Evola, esiste, o meglio può esistere, un altro tipo di nazionalismo, che ponga come propria base ideologica non il numero, la quantità, la massa, l’economia, ma che si proponga quale strumento di restaurazione di una società aristocratico-tradizionale. “Non è possibile un nazionalismo che sia preludio di resurrezione, (…) quando non si ponga l’esigenza-base di restaurare un ordine di valori irreducibili a tutto ciò che è pratico, “sociale” ed economico, per conferire a tali valori un primato e un’autorità diretta su tutto il resto. Senza di ciò, non esiste gerarchia e senza gerarchia il ritorno ad un tipo superiore, spiritualizzato di Stato non è possibile. Infatti gerarchia non significa semplicemente subordinazione, ma vuol dire subordinazione di ciò che ha natura inferiore a ciò che ha natura superiore, e inferiore è tutto ciò che può misurarsi in termini pratici, interessati, mondani; superiore ciò che esprime una forma pura e disinteressata di attività. Ogni altro criterio è illusorio o pervertitore.” (12)

Nel 1934 viene dato alle stampe uno dei libri più importanti di Evola e, fra tutti, quello forse che ha ottenuto maggiori consensi – anche da parte di lettori di tutt’altro orientamento politico – e che ha mostrato maggiore capacità di resistere alla prova del tempo, tanto da venire apprezzato in misura crescente nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale: Rivolta contro il mondo moderno. Un’opera imponente (circa 500 pagine), che è un po’ la summa del pensiero dell’autore il quale, pur rifuggendo dalla forma mentis del “sistema”, ricapitola qui e chiarisce ulteriormente molte delle sue precedenti posizioni e approfondisce varie intuizioni. Il nucleo centrale dell’opera, comunque, ruota attorno alla inarrestabile decadenza dell’Occidente, anzi dell’Europa (egli usa i due termini a volte come sinonimi, ma è al secondo che in sostanza si riferisce), dovuta all’avvento della modernità, cioè di una vita spirituale totalmente desacralizzata, totalmente anestetizzata e omologata, totalmente “democratizzata” nel senso di de-gerarchizzata. Siamo in pieno Kali Yuga, è inutile farsi illusioni; il male è troppo profondo, anche se qui – a differenza che nell’Imperialismo pagano di soli cinque ani prima – non viene identificato col cristianesimo, anzi quest’ultimo è visto come una estrema possibilità (e sia pur parziale e “inferiore”) verso la restaurazione tradizionale. Il male è lo spirito economicistico e l’istinto gregario che si è trasformato in rivolta e dominio delle nature inferiori su quelle superiori, dei valori materiali su quelli spirituali. Tentare una restaurazione, nelle presenti condizioni, rischia di essere velleitario: è necessario porsi in modo realistico di fronte alle difficoltà, che sono gravissime. In ogni caso, l’essenziale è che la Tradizione sopravviva – anche se solo nella forma di un sapere distaccato dal piano della storia fattuale – in modo da tramandarla in attesa che il Kali Yuga finisca, e la spiritualità “regale” possa rinascere dalle rovine del mondo moderno.

“Come gli uomini – scrive – così anche le civiltà hanno il loro ciclo, un principio, uno sviluppo, una fine, e più esse sono immerse nel contingente, più questa legge è fatale. Ciò, naturalmente, non è cosa che possa impressionare chi sia radicato in quel che, essendo al di sopra del tempo, da nulla saprebbe essere alterato e che permane come una perenne presenza. Anche se dovesse scomparire definitivamente, non è certo quella moderna la prima delle civiltà che si sono estinte, né quella, oltre la quale non ve ne saranno di altre. Luci si spengono qui e luci si riaccendono altrove nella vicenda di ciò che è condizionato dal tempo e dallo spazio. Cicli si chiudono e cicli si riaprono. Come si è detto, la dottrina dei cicli fu familiare all’uomo tradizionale, e solo l’insipienza dei moderni ha fatto loro credere per un momento che la loro civiltà, irradicata più di qualsiasi altra mai nell’elemento temporale e contingente, possa avere un destino diverso e privilegiato. Per chi invece possiede una visione conforme alla realtà il problema è piuttosto quello della misura in cui fra il mondo che muore e il mondo che può nascere esisteranno rapporti di continuità. Cioè che cosa, d’un mondo, potrà continuarsi nell’altro.” (13)

La restaurazione tradizionale, dunque, per Evola non potrà essere operazione collettiva, ma ormai soltanto individuale. Infatti, “a lato delle grandi correnti del mondo, esistono ancora individualità ancorate nelle ‘terre immobili’. Sono, di massima, degli sconosciuti che si tengon fuori da tutti i trivi della notorietà e della cultura moderna. Essi mantengono le linee di vetta, non appartengono a questo mondo – pur essendo sparsi sulla terra e spesso ignorandosi a vicenda sono uniti invisibilmente formando una catena infrangibile nello spirito tradizionale. Questo nucleo non agisce: ha solo la funzione a cui corrisponde il simbolismo del ‘fuoco perenne’. In virtù di essi, la Tradizione è presente malgrado tutto, la fiamma arde invisibilmente, qualcosa connette sempre il mondo al sovramondo.” (14) Ricorre qui un’immagine tipicamente tradizionale, quella dell’Albero Cosmico, che è anche un’immagine sciamanica, quella delle “porte” o passaggi fra il mondo naturale e il mondo soprannaturale. Nella tradizione orientale, uno di tali centri tradizionali situati all’incrocio fra realtà visibile e realtà invisibile è Shamballah, la città del mitico regno di Agarthi, che si troverebbe in qualche luogo misterioso dell’Asia Centrale, ma che solo gli iniziati avrebbero la facoltà di poter vedere. Stupisce un po’ solo la presunta inconsapevolezza reciproca dei Maestri Sconosciuti (se a loro si riferisce il passo sopra citato) che invece – secondo l’insegnamento tradizionale induista e buddhista – agiscono in perfetta sinergia e possono comunicare fra loro superando i confini dello spazio e del tempo, perfino dopo la morte – o, come nel caso di Babaij e dei “santi immortali” dell’Himalaya, ignorando le frontiere stesse della morte fisica. (15)

Nonostante Rivolta contro il mondo moderno, sul momento, sia passato quasi inosservato (verrà “riscoperto”, come si è detto, nel dopoguerra), la traduzione tedesca di Imperialismo pagano gli apre – anzi, gli spalanca – le porte della Germania nazista. Heinrich Himmler in persona, il capo delle “camicie nere”, lo invita a tenere conferenze per le SS, ed Evola vi aderisce di buon grado, dando inizio al capitolo più controverso e discutibile della sua vicenda intellettuale. È a Berlino, a Brema e altrove; collabora con riviste quali Der Ring, Europäische Revue, Geist der Zeit, Die Aktion-Kampfblatt für das Neue Europa; entra in rapporti con i maggiori esponenti dell’estrema destra tdesca ed europea, fra i quali Alfred Rosenberg, il “filosofo” del nazismo, lo storico delle religioni Mircea Eliade e il fondatore del movimento romeno “Guardia di Ferro”, Corneliu Zelea Codreanu. Forse è eccessivo affermare che il successo internazionale abbia recato con sé, quale conseguenza, la notorietà in Italia, tuttavia nel “caso Evola” vi sono delle analogie – certo, solo esteriori – con il “caso Svevo”: per entrambi la “scoperta” della critica e il successo di pubblico arriva prima in Europa e poi in Italia; il che vorrà dire pure qualcosa a proposito della loro dimensione prioritariamente “europea”, fatte salve le enormi differenze di contenuto e di prospettive fra lo scrittore triestino e il filosofo romano. Al tempo stesso, la stima di Himmler e Rosenberg e la popolarità fra le SS non son cose che possano scorrere via senza lasciare un segno: la figura e l’opera stessa di Evola ne sono rimaste indelebilmente segnate e, da quel momento, si sono realizzate le condizioni per quella sorta di damnatio memoriae che egli ha dovuto scontare ancor vivo, per tre decenni, dopo la fine dell’ultima guerra e dopo il crollo delle sue speranze politiche. Singolare concorso di circostanze, quello che ha portato un pensatore decisamente indipendente, non organico al fascismo e anzi dal fascismo tenuto in sospetto e che, a sua volta, al fascismo guarda con malcelata insofferenza – sia pure, si badi, da posizioni di destra radicale – a diventare il più popolare filosofo italiano nella Germania nazista. È chiaro che l’hitlerismo vuole sfruttare, di lui, soprattutto le valenze razziste implicite nella sua concezione gerarchica e “imperiale”; sospetto che aumenta laddove si consideri che Evola, proprio in quegli stessi anni, intensifica la collaborazione a La Vita Italiana e a La difesa della razza, entrando in amicizia con il maggior esponente dell’antisemitismo italiano, Giovanni Preziosi, tramite il quale conosce il “ras” di Cremona, Roberto Farinacci.

Per ben nove anni, dal 1934 al 1943, terrà sul quotidiano di Cremona Il Regime fascista, Evola curerà una pagina periodica intitolata Diorama filosofico. Problemi e prospettive nell’etica fascista, pubblicandovi anche articoli di autori di fama europea, tra i quali Guénon, Spann, Tilgher. Al tempo stesso, collabora con giornali italiani quali Il popolo d’Italia, La Stampa di Torino,Il Mattino e il Roma di Napoli, Educazione fascista, Logos, rassegna Italiana, Il Saggiatore, Nuova Antologia e (in omaggio alla mai dimenticata passione per le montagne) Rivista del Club Alpino Italiano. Una produzione addirittura sterminata, alla quale vanno aggiunti altri libri ai quali stava lavorando e una intensissima attività di conferenziere, sia in Italia che in Germania.

Nel 1937 Evola pubblica Il mistero del Graal, che i suoi estimatori (non in senso politico) giudicano una delle sue cose migliori per l’originalità della concezione, la vastità della dottrina, l’acume delle interpretazioni – e, da ultimo, la chiarezza e piacevolezza della scrittura, cosa che non disturba certo in un ambiente, come quello filosofico italiano, che raramente sa coniugare la profondità del pensiero con l’arte del bello scrivere. “L’iniziato, se è veramente tale, può porsi di là dalle forme storiche contingenti di una particolare tradizione, può accusarne – ove a ciò riceva il mandato – le limitazioni e porsi al di sopra della loro autorità; egli può respingere il dogma, perché ha qualcosa di più, la conoscenza trascendente, e in ben altra sede sa dell’inviolabilità di questa conoscenza; infine, può rivendicare per sé la dignità di un essere libero, perché egli si è disciolto dai vincoli della natura inferiore, umana: a tale stregua i “liberi” sono anche i “pari” e la loro comunità può esser concepita come una ‘confraternita’. Ebbene, basta materializzare, laicizzare e democratizzare questi aspetti del diritto iniziatico, e tradurli in termini individualistici, per aver sùbito i principi-base delle ideologie sovversive e rivoluzionarie moderne. Il lume della mera ragione umana subentra alla ‘illuminazione’ e dà luogo alle distruzioni del ‘libero esame’ e della critica profana. Il soprannaturale è messo al bando o confuso con la natura. La libertà, l’eguaglianza e la parità divengono quelle prevaricatoriamente rivendicate dal singolo ‘conscio della sua dignità’ – non conscio però della sua schiavitù d fronte a sé stesso – per ergersi contro ogni forma di autorità e costituirsi illusoriamente come estrema ragione a sé stesso: diciamo illusoriamente, poiché nella concatenazione inesorabile delle varie fasi della decadenza moderna, l’individualismo ha avuto la durata di un breve miraggio e di una fallace ebbrezza, l’elemento collettivo e irrazionale nell’epoca delle masse e della tecnica ha presto avuto ragione del singolo ‘emancipatosi’, cioè sradicato e senza tradizione.” (16)

Il 1938 è l’anno in cui Mussolini decide di varare le famigerate leggi razziali, non senza dubbi e perplessità sue personali e di molti esponenti fascisti. “Già al momento dell’avvio della politica antisemita, nell’estate del 1938, – scrive Renzo De Felice – Mussolini aveva però cercato di distinguersi dai nazisti sia con la ‘moderazione’ dei provvedimenti adottati contro gli ebrei, sia soprattutto sforzandosi di prendere il più possibile le distanze da essi col dare al razzismo fascista un carattere non biologico ma ‘spirituale’. (17) La questione razziale, comunque, si poneva allora all’Italia non solo per le contingenze dell’avvicinamento sempre più stretto alla Germania nazista o per la presenza della esigua minoranza ebraica (circa 50.000 persone), ma per la recente conquista dell’Etiopia che poneva al fascismo, nella prospettiva della sua particolare ideologia politica “imperiale”, la necessità di elaborare una chiara dottrina circa i rapporti fra conquistatori e indigeni. Evola si è già occupato della questione razziale con il libro del 1937 Il mito del sangue, opera tuttavia non originale poiché l’Autore vi si era limitato ad esporre le principali teorie razziste d’Europa, dal Romanticismo al nazismo. Inoltre Giuseppe Bottai lo ha invitato a tenere una cattedra di razzismo all’università di Roma e a tenere conferenze su tale argomento presso le università di Firenze e Milano. Una serie di scritti evoliani viene raccolta in volume nel 1941, per l’editore Hoepli di Milano, con il titolo Sintesi di dottrina della razza. È a questo punto che a Mussolini (che non conosce Evola personalmente) capita fra le mani il libro appena pubblicato, e lo legge avidamente fra il 25 e il 29 agosto 1941, durante un viaggio in Germania, restandone molto colpito. Decide di conoscere l’Autore e lo convoca a Palazzo Venezia, nel settembre 1941, convinto di aver trovato il teorico capace di interpretare il suo punto di vista sulla questione razziale, evitandogli il pericolo di apparire eccessivamente “appiattito” sulle posizioni dell’ingombrante alleato nazista.

Lo stesso Evola ha poi rievocato quell’incontro nella sua autobiografia, Il cammino del Cinabro: “Avendo letto il libro, egli mi fece chiamare e lo elogiò perfino al disopra del suo reale valore, dicendomi che proprio di una dottrina del genere egli aveva bisogno. Essa gli dava il modo di considerare problemi analoghi a quelli affrontati dalla Germania, e quindi di “allinearsi”, mantenendo però un atteggiamento indipendente, facendo valere quell’orientamento spirituale, quel primato dello spirito, che esulava da gran parte del razzismo tedesco. In particolare, la teoria della razza ario-romana e il corrispondente mito potevano integrare l’idea romana proposta, in genere, dal fascismo, nonché dare una base al’intenzione di Mussolini di rettificare e innalzare, col suo Stato, il tipo medio dell’Italiano e di enucleare da esso un uomo nuovo.” (18)

A sua volta, Evola propone a Mussolini la pubblicazione di una rivista italo-tedesca, che avrebbe dovuto intitolarsi Sangue e razza, ottenendone un consenso di massima e l’approvazione del programma. Quando i contatti preliminari sono già stati avviati, però, il progetto si insabbia a causa di una vivace reazione (come era già avvenuto alla pubblicazione di Imperialismo pagano) degli ambienti cattolici e di settori moderati dello stesso fascismo. È questa vicenda a indurre Himmler e Rosenberg a cercare altrove strumenti adatti alla diffusione dell’ideologia razziale nazista e ad evitare ad Evola una ancor maggiore compromissione – giunto comunque alla piena notorietà in Italia – con le sinistre dottrine del Terzo Reich.

“L’Evola – scrive Lo Bianco – contrapponeva alle concezioni razziste prettamente biologiche e antropologiche quelle della ‘razza interiore’, della ‘razza dello spirito’; il razzismo, che per l’Evola esprime la sua positività in quanto fondamentalmente antiegualitario e antirazionalistico, doveva quindi basarsi sulle caratteristiche spirituali, queste ultime identificabili nello stile di vita, nella cultura, informati dai valori della tradizione. La razza del tipo arioromano, contrapposta al tipo mediterraneo, è quella cui compete in Italia il ruolo di razza guida; è la razza dell’uomo fascista, “un uomo antico e nuovo al tempo stesso”. Il razzismo politico è, per l’Evola, lo strumento capace di garantire il ruolo guida alla razza arioromana.” (19)

E Francesco Germinario: “La grande ora di Evola scattò con la deriva antisemita del regime fascista. Dopo l’introduzione delle leggi razziali, l’impegno pubblicistico evoliano si fece frenetico (…) Nella profluvie di articoli e saggi, Evola ribadì la propria opposizione alla riduzione del razzismo e dell’antisemitismo alla dimensione puramente biologica, da lui ritenuta del tutto insufficiente, sostenendo la necessità di distinguere tre gradi di razzismo: quello biologico, quello dell’anima – delegato a sottolineare le identità culturali fra gli individui appartenenti alla medesima razza – e infine quello spirituale: patrimonio delle razze superiori e ariane, concernente il modo di intendere il sacro, il sovrannaturale e il mondo dei simboli. Evidentemente, una sana e coerente politica razziale avrebbe dovuto prevedere la stretta coniugazione fra gli aspetti biologici e quelli spirituali della razza. Da qui le numerose critiche evoliane all’antisemitismo nazista, accusato di determinismo, e a quello che si esprimeva sulle colonne della Difesa della razza. ” (20) Da queste citazioni possiamo trarre comunque la conclusione che il razzismo spirituale non esclude, ma integra quello biologico: e ciò basti per quanto riguarda le responsabilità oggettive del pensiero evoliano su quanto allora sta accadendo in Europa. (21)

Coerente con le sue idee, Evola chiede di essere inviato al fronte: non, come Berto Ricci, sul fronte africano contro gli Inglesi, ma su quello russo: segno che, nell’ideologia del Nostro, l’anticomunismo era più forte dell’anticapitalismo, e lo scontro con le “razze slave” appariva più decisivo e gravido di conseguenze rispetto a quello contro le “plutocrazie giudaico-massoniche”.La partenza non ha luogo, però, per il sopraggiunto disastro di Stalingrado, che coinvolge in pieno, travolgendola, l’A.R.M.i.R. (Armata Italiana in Russia). Si giunge così allo sbarco anglo-americano in Sicilia, al 25 luglio del 1943 e, quindi, all’8 settembre. È Preziosi che, per la seconda volta, svolge un ruolo di primo piano nella vicenda umana e politica di Evola, invitando i Tedeschi a chiamarlo in Germania per proseguire l’opera di propaganda ideologica, e sforzandosi al tempo stesso di utilizzarlo per dimostrare che la caduta di Mussolini e l’armistizio del governo Badoglio sono stati espressione di un complotto ebraico e massonico in collaborazione con esponenti della monarchia e della vecchia classe politica antifascista. Invitato da Himmler a Berlino, Evola accetta anche perchè la Repubblica Sociale Italiana non incontra la sua piena approvazione, tanto è vero che fin da allora si preoccupa di pensare una forza politica di destra in grado di risorgere dalle ceneri dell’ormai ineluttabile disfatta, che egli certo non si nasconde. Forse, della R. S. I., non apprezza le tendenze “socialiste”, ancorché velleitarie, presenti nella sua politica interna e specialmente nei progetti di legislazione sociale. Da questo punto di vista, si può dire che l’interpretazione “di sinistra” del fascismo di un Concetto Pettinato, che vede nel 1943-45 il ritorno allo spirito di Piazza San Sepolcro (sottolineato dal ritorno di vecchi socialisti come Nicola Bombacci e dalla presenza di “fascisti di sinistra”come Tullio Cianetti) si contrappone, in sede storiografica, a quella di un Evola che, pur non essendo mai stato fascista, per certi aspetti era ideologicamente più a destra del fascismo stesso. Il Nostro, tuttavia, torna in Italia e si stabilisce a Roma; ma l’avanzata degli Alleati lo obbliga a riparare al Nord e, di lì, in Austria.

Ha quasi dell’incredibile il fatto che, pur in mezzo a tali e tante attività, Evola trovi il tempo di dedicarsi ancora alla filosofia “pura” e di pubblicare, sempre nel 1943, un altro saggio di notevole spessore speculativo: La Dottrina del Risveglio. In quest’opera, egli si propone di illuminare la vera natura del buddhismo originario, dottrina che poi si è sfaldata irreparabilmente nelle forme successive del buddhismo storico, quando – per un insieme di fattori di varia natura – finì per trasformarsi in una religione. Osserva Gianfranco de Turris nella nota introduttiva alla più recente edizione dell’opera, che “(…) l’individuazione del buddhismo delle origini e del tantrismo quali metodi, sistemi e vie adatti all’uomo contemporaneo, deriva dal fatto che, secondo Evola, ‘essi appartengono al ciclo nel quale rientra anche l’uomo moderno.’ Più esattamente: ‘il buddhismo originario (…) è stato formulato in vista di una condizione dell’uomo, la quale, ancora lontana da quella del materialismo occidentale e della correlativa eclissi di ogni sapere tradizionale vivente, tuttavia di essa già conteneva in un certo modo i prodromi e le potenzialità.’ Esso si presenta dunque come un ‘sistema completo e virile d’ascesi formulato in vista del ciclo al quale anche l’uomo contemporaneo appartiene’. Uomo contemporaneo, la cui vita ‘è come esteriore a sé stessa, semi-sonnambolica, moventesi fra riflessi psicologici e immagini che gli celano la sostanza più profonda e pura dell’esistenza’: egli deve dunque ‘svegliarsi’ grazie a questa dottrina, il cui cardine è il passaggio dalla conoscenza puramente individuale alla conoscenza samsarica che riprende indefinite possibilità di esistenza, tanto ‘infere’ quanto ‘celesti’.” (22)

Si trova nell’ex capitale austriaca, intento ad esaminare materiali sequestrati dalle SS alla Massoneria, quando le armate sovietiche si avvicinano alle rive del Danubio. Durante un bombardamento aereo, nell’aprile, rimane gravemente ferito restando paralizzato agli arti inferiori. Aveva l’abitudine di non recarsi nei rifugi antiaerei ma, anzi, di ammirare – memore forse del suo estetismo di pittore futurista e dadaista – il tragico spettacolo del cielo notturno rischiarato a giorno dal fuoco della contraerea e dagli edifici avvolti nelle fiamme: estrema affermazione di un titanismo cui altro non resta se non contemplare le immani rovine, materiali e morali, sotto cui l’Europa sta piegando in un parossismo di furore autodistruttivo. Ricoverato in clinica, vi rimane per quasi tre anni; solo nel 1948 rientra in Italia, stabilendosi dapprima a Bologna e poi, definitivamente, a Roma.

Strano a dirsi, non gli viene presentato alcun conto per quanto ha detto e scritto in materia politica e razziale (mentre persino giornalisti sostanzialmente ingenui come Mario Appelius vengono chiamati a render conto dell’incitamento all’odio e alla guerra), anche perché frattanto è intervenuta l’amnistia di Togliatti ai fascisti che non si sono macchiati di reati comuni. In compenso viene arrestato e incarcerato per un mese, nell’ottobre 1950, per apologia di fascismo nell’ambito del processo ai Fasci di azione rivoluzionaria, ma viene assolto perché riconosciuto estraneo ai fatti. Si pone, comunque, come il più significativo punto di riferimento per i giovani dell’estrema destra italiana (quelli che hanno fatto in tempo a perdere la guerra), dentro e fuori il Movimento Sociale Italiano, che in lui vedono un maestro universalmente riconosciuto nell’ambito della destra radicale e l’unico esponente italiano della vecchia “rivoluzione conservatrice” degno di stare accanto a Jünger, Eliade, Carl Schmitt.

Negli anni del dopoguerra, Evola continua a dedicarsi a un’intensa produzione saggistica, oltre che a quella di traduttore di numerosi autori del suo firmamento ideologico. Tra i libri più importanti di questa ultima, lunga fase del suo percorso intellettuale ricordiamo: Orientamenti, del 1950; Gli uomini e le rovine, del 1953 (con prefazione del principe Junio Valerio Borghese); Metafisica del sesso, del 1958; Cavalcare la tigre, del 1961; Il cammino del Cinabro, del 1963. Tra un ricovero e l’altro in clinica, trova anche il tempo di riscrivere una delle sue prime opere, L’uomo come potenza, con il titolo Lo Yoga della potenza, che viene pubblicato nel 1949. Facendo anche interessanti accostamenti con dottrine magiche ed esoteriche occidentali, ne Lo Yoga della potenza Evola individua nel buddhismo tantrico (diffusosi a partire dal IV secolo d. C.) una dottrina particolarmente adatta ai tempi ultimi, al Kali-Yuga in cui ci troviamo a vivere: epoca della dissoluzione per eccellenza. Evola – in verità, forzando un poco l’interpretazione di esso e cadendo, forse, nell’equivoco di aver scambiato la potenza assicurata dai Tantra per un fine anziché per un mezzo, per un modo di potenziare l’Ego invece che di liberarsene, dedica in quest’opera una particolare attenzione al corpo, alle sue forze segrete, alla sua apertura verso ogni esperienza che può “trasformare in cibo ogni veleno”.

“La via da scegliere, secondo i Tantra, – scrive Evola – è quella che in altri tempi era stata tenuta segreta in vista dei pericoli che essa presenta. Essa si addice soltanto a una piccola minoranza (…); implicitamente viene esclusa la gran massa perché, si afferma, la gran massa nell’età oscura corrisponde al tipo (…) dell’uomo animalesco, vincolato, conformista, che non comprenderebbe la dottrina o che da essa, a causa della sua non-qualificazione, sarebbe portato alla rovina. Si potrebbe ben dire che l’essenza della via proposta per i tempi ultimi sia riassunta dal detto ‘cavalcare la tigre’, e a noi sembra che una simile formula mantenga la sua validità. Non pensiamo affatto di proporre il tantrismo al mondo occidentale moderno, di importarlo ad uso degli Occidentali nelle sue forme originali che (…) sono inscindibilmente contessute con le tradizioni locali indù e tibetane e col corrispondente clima spirituale. Tuttavia alcune sue idee di fondo (sempre nel campo della visione generale del mondo e del problema dei comportamenti, lasciando da parte tutto quanto ha attinenza col piano specifico iniziatico e yoghico) possono venire considerate proprio da chi vuole affrontare la problematica dei tempi attuali assumendo le posizioni più avanzate per tentare alcune riformulazioni valide.” (23) Egli allude in questo brano, senza dubbio, al “sentiero della Mano Sinistra”, il sentiero della magia nera: e ci si potrebbe chiedere – ma la domanda implica un giudizio morale che ci porterebbe fuori dai limiti del presente lavoro – se egli non abbia finito proprio per lasciarvisi attrarre, in un eccesso di fiducia nella propria “qualificazione” iniziatica. Secondo gli insegnamenti tradizionali, da lui continuamente presi a modello, l’iniziato deve essere introdotto alle “secrete cose” da un autentico Maestro, altrimenti cadrebbe inevitabilmente nel baratro riservato all’apprendista stregone. Ma non risulta che egli l’abbia avuto, anzi lui stesso parla di una esperienza super-naturale (in Libia) non andata a buon fine proprio per una insufficienza di preparazione mentale.

Con Metafisica del sesso Evola si cimenta (con sorpresa di alcuni suoi lettori) in una vastissima ricerca che abbraccia mitologia e storia delle religioni, psichiatria ed etnologia, esoterismo e simbologia, alla ricerca del significato ultimo che hanno l’Eros e l’esperienza sessuale al di là della semplice carnalità così come della vuota sentimentalità. L’Autore, al contrario, si sforza di vedere nell’estasi erotica un barlume di trascendenza, un superamento e uno scardinamento dei limiti ordinari della coscienza, per aprirsi (ancora una volta, secondo l’insegnamento del tantrismo) alla dimensione del sovrasensibile e dell’Assoluto. “Il sesso – egli afferma – è la più grande forza magica della natura; vi agisce un impulso che adombra il mistero dell’Uno, anche quando quasi tutto, nelle relazioni fra uomo e donna, si degrada in abbracciamenti animali, si sfalda e si disperde in sentimentalismi fiacchi e idealizzanti o nel regime addomesticato dei connubi coniugali socialmente autorizzati. La metafisica del sesso sussiste negli stessi casi ove, nel vedere la misera umanità e la volgarità di infiniti amanti di infinite razze – maschere e individuazioni senza numero dell’Uomo Assoluto in cerca della Donna Assoluta in una vicenda sempre di nuovo sincopata nel circolo della generazione animale – riesce difficile vincere un sentimento di disgusto e di rivolta e si sarebbe tentati di accettare la teoria biologica e fisica che fa derivare la sessualità umana dalla vita degli istinti e dalla semplice animalità. Eppure, se una qualche riflesso di una trascendenza vissuta si manifesta involontariamente nell’esistenza ordinaria, ciò avviene attraverso il sesso e, quando si tratti dell’uomo comune, avviene solo attraverso il sesso. Non coloro che si danno a speculazioni, ad attività intellettuali, sociali o ‘spirituali’, ma soltanto coloro che si innalzano fino ad una esperienza eroica o ascetica vanno, a tale riguardo, più in là. Ma per l’umanità comune soltanto il sesso procura, anche se nel rapimento, nel miraggio o nell’oscura trama di un istante, delle aperture di là dalle condizionalità dell’esistenza puramente individuale. Questo è il vero fondamento dell’importanza, da nessun altro impulso eguagliata, che amore e sesso hanno avuto e sempre avranno nella vita umana.” (24)

Cavalcare la tigre riprende sostanzialmente i temi di fondo di Rivolta contro il mondo moderno, ma nella prospettiva di una “resistenza” contro la modernità che dovrà essere di lunga durata, per cui la strategia migliore non è quella di opporsi frontalmente alle forze della distruzione, ma di “cavalcarle”e in un certo senso assecondarle, in attesa del momento favorevole per poterle combattere apertamente. Infatti, “(…) quando un ciclo di civiltà volge verso la fine, è difficile poter giungere a qualcosa resistendo, contrastando direttamente le forze in moto. La corrente è troppo forte, si sarebbe travolti. L’essenziale è non lasciarsi impressionare dall’onnipotenza e dal trionfo apparente delle forze dell’epoca. Tali forze, per essere prive di connessione con qualsiasi principio superiore, hanno, in fondo, la catena misurata. Non bisogna dunque fissarsi al presente e alle forze vicine, ma aver anche in vista le condizioni che potranno delinearsi in un tempo futuro, Allora il principio da seguire può esser quello di lasciar libero corso alle forze e ai processi dell’epoca, mantenendosi però saldi e pronti ad intervenire quando ‘la tigre, che non può avventarsi contro chi la cavalca, sarà stanca di correre’. In una interpretazione particolarissima, il precetto cristiano di non resistere al male potrebbe avere lo stesso significato. Abbandonando l’azione diretta, ci si ritira su una linea più interna di posizione.” (25)

Instancabile, ancora nel 1972 cura un’edizione del Tao Te Ching, commentandola e premettendovi uno studio sul taoismo che offre lo spunto, ancora una volta, per una comparazione col cristianesimo. “Pel cristianesimo – scrive Evola – ogni anima è immortale, l’immortalità le è consustanziale ed è garantita. Non il sopravvivere alla morte dell’anima ma solo il modo in cui essa sopravviverà – se otterrà la beatitudine del paradiso o se dovrà soffrire i tormenti eterni dell’inferno – qui costituisce il problema. Così tutte le preoccupazioni del credente non sono di sfuggire alla morte ma di evitare all’anima immortale l’aldilà tormentoso e di assicurarle quello beatifico: ciò per lui significa la ‘salute’ o la ‘salvezza’. Secondo la dottrina iniziatica le cose stanno in modo molto diverso: il problema non è come si sopravvive bensì se si sopravvive. L’alternativa è fra effettiva sopravivenza e non-sopravvivenza, la sopravvivenza e l’immortalità non venendo concepite come un dato ma come una semplice, non ordinaria possibilità. Secondo il taoismo quasi tutti gli uomini sono anzi inscritti nel Libro della Morte, solo in casi eccezionali il Reggente del Destino li cancella da tale libro e li inserisce nel Libro della Vita, cioè degli Immortali.” (26) Concetti che aveva già espresso neLa tradizione ermetica, contrapponendo la sopravvivenza scontata e “automatica” del cristianesimo a quella problematica e altamente impegnativa dell’ermetismo, sia occidentale che orientale.

Il rinnovato interesse per Evola, morto a Roma nel 1974, risale al 1968, quando l’estrema destra extra-parlamentare vide in lui il proprio filosofo e il proprio profeta (“è il nostro Marcuse, ma più bravo”, diceva di lui Giorgio Almirante; benché i suoi maggiori estimatori fossero nell’area vicina a Pino Rauti e al suo periodico Civiltà). Anzi c’è stato allora un momento in cui il pensiero di Evola è riuscito a far breccia anche in alcuni settori dell’estrema sinistra, tanto che si è parlato di una possibile convergenza fra le due ali contrapposte del movimento studentesco, la neofascista e la marxista (e in parte libertaria), nel segno comune della lotta anti-borghese e sotto gli auspici di un “padre nobile” come il filosofo della Rivolta contro il mondo moderno. Ma erano ancora pochi, pochissimi a conoscere il pensiero di Evola nel 1968, specialmente a sinistra ma anche nella cultura di “centro”. Riflettendo su tale trascuratezza, Giorgio Galli ha affermato in un’intervista rilasciata a Gianfranco de Turris: “Tra gli elaboratori di teorie elitarie, Evola ha un ruolo che non mi pare possa essere negato. Ma l’aspetto del suo pensiero che ora maggiormente m’interessa – per il quale può avere un’importanza oggettiva – è (…) la componente esoterica (che il fascismo, a differenza del nazismo, non ebbe nel suo retroterra culturale). Mi pare significativo che tra gli autori del periodo fascista (a parte Mussolini) Evola sia oggi praticamente il solo a meritare attenzione, e ciò mi pare dovuto precisamente a quella componente esoterica. L’esoterismo di Evola, di natura gerarchico-sacrale, è la contrapposizione speculare di un messaggio egualitario che pure ebbe la sua componente ‘magica’ (mi riferisco sempre alle ‘streghe’). Proprio per questa specularità, può essere un utile punto di confronto per chi studia le culture alternative (e i loro aspetti che non rientrano nella ‘razionalità’ dominante) dal punto di vista dell’eguaglianza e non della gerarchia. (27) Altri studiosi, come Roberto Fondi (28) e Giovanni Monastra (29), hanno visto in Evola soprattutto la critica epistemologica al darwinismo e allo strapotere dell’homo tecnologicus. In Francia ha destato l’interesse di intellettuali come Alan de Benoist, attenti ai problemi sociali e culturali posti dalla modernità e dalla globalizzazione. Studiosi del paranormale, come il cattolico Leo Talamonti, lo citano con una certa simpatia. (30) Altri ancora hanno trovato in Evola uno dei primi intellettuali Europei che hanno saputo porsi lucidamente, in anni non sospetti, l’ineludibile domanda: può sopravvivere l’Europa se non trova in sé stessa una sola idea veramente forte e durevole, sulla quale reggere il proprio edificio spirituale?Sono molti gli spunti che partono dal pensiero di Evola; ciascuno vi trova il più congeniale a sé stesso. È questa attualità di Evola, a dispetto di tutto, che continua a sollecitarci, forse anche a irritarci, non di rado ad affascinarci.

Note

1) Cfr. F. Cassinari, Heidegger e il linguaggio, in Informazione filosofica, nr. 8/9 (sett. 1992), p. 45 sgg.

2) Cit. in L. Lo Bianco, voce Evola nel Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 43, p. 576.

3) J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, Roma, Edizioni Mediterranee, 1985, pp. 286-287.

4) J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, Genova, Alkaest, 1981, pp.14-15.

5) Ibidem,p. 15.

6) J. Evola, Il valore dell’occultismo nella cultura contemporanea, in Bilychnis, Roma, novembre 1927, vol. XXX, p. 250 sgg; ripubblicato inI saggi di Bilychnis, Padova, Edizioni di Ar,1987, p. 68

7) Introduzione alla magia, a cura del Gruppo di Ur, Roma, Edizioni Mediterranee,1997 (3 voll.), pp. 8-9.

8) J. Evola, Imperialismo pagano, Padova, Edizioni di Ar, 1978, pp. 75-76.

9) Intervista a E. Servadio in Testimonianze su Evola, a cura di G. de Turris, Roma, Edizioni Mediterranee, 1985, p.323.

10) J. Evola, La tradizione ermetica, Roma, Edizioni Mediterranee, 2002, pp. 200, 202-03.

11) J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971, pp. 163, 170.

12) J. Evola, Due facce del nazionalismo, in La Vita Italiana, XVIII, 216, (marzo 1931), pp. 232-33 (ristampato in J. Evola, Nazionalismo, germanesimo, fascismo, Genova, F.lli Melita, 1989, pp. 33-43.

13) J. Evola, Rivlta contro il mondo moderno, Roma, Edizioni Mediterranee. 1998, pp.403-404.

14) Ibidem,p. 404.

15) Cfr. P. Yogananda, Autobiografia di uno Yoghi, Roma, Astrolabio, 1966, spec. capp. XXXIII e XXXIV.

16) J. Evola, Il mistero del Graal, Roma, Edizioni Mediterranee, 2002, pp. 213-14.

17) R. De Felice, Mussolini il Duce. Lo Stato totalitario, 1936-1940, Torino, Einaudi, 1996, p. 317.

18) J. Evola, Il cammino del Cinabro, Milano, Scheiwiller, 1963, p. 169.

19) L. Lo Bianco, Op. cit., p. 579.

20) F. Germinario, voce Evola in Dizionario del Fascismo a cura di V. de Grazia e S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2005, vol. 1, p. 498.

21) Sul fatto che il “razzismo spirituale” di Evola non esclude affatto quello biologico, ved. F. Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-43), Torino, Bollati Boringhieri, 2001. Cfr. inoltre S. Barbera e C. Grottanelli, Ammiratori di Evola, in Belfagor, nr. 5 (settembre) del 2002, pp. 555-565.

22) In J. Evola, La Dottrina del Risveglio, Roma, Edizioni Mediterranee, 1995, p. 9.

23) J. Evola, Lo Yoga della potenza, Roma, Edizioni Mediterranee, 1968, pp. 250-51.

24) J. Evola, Metafisica del sesso, Roma, Edizioni Mediterranee, 1994, p. 309.

25) J. Evola, Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee, Roma, 2000, p. 25.

26) J. Evola (a cura di), Il Libro del Principio e della sua azione, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, pp. 41-42.

27) Testimonianze su Evola, a cura di G. de Turris, cit., pp. 274-75. Cfr. G. Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Milao, Mondadori, 1974,; e La magia e il potere. L’esoterismo nella politica occidentale, Torino, Lindau, 2004.

28) R. Fondi, Organicismo ed evoluzionismo. Intervista sulla nuova rivoluzione scientifica, Roma, Il Corallo, spec. pp. 45-49.

29) G. Monastra, Per una ontologia della tecnica. Dominio della natura e natura del dominio nel pensiero di Julius Evola, in Diorama letterario,nr. 72, 1984.

30) L. Talamonti, Universo proibito, Milano, Mondadori, 1969; e spec.I protagonisti invisibili, Milano, Rizzoli, 1990.

Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amm. comunali, per Ass. culturali come l’Ateneo di Treviso, l’Ist. per la Storia del Risorgimento; la Soc. “Dante Alighieri”; l'”Alliance Française”; L’Ass. Eco-Filosofica; la Fondazione “Luigi Stefanini”. E’ il presidente della Libera Associazione Musicale “W.A.Mozart” di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l’opera di J. S. Bach.

Francesco Lamendola

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