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    I sistemi filosofici dell’India: Mimamsa, Vedanta, Samkhya

    LE RADICI DEL PENSIERO FILOSOFICO

    Michel Hulin

    I SISTEMI FILOSOFICI DELL’INDIA – prima parte

    MÌMÀMSÀ -VEDANTA -SÀMKHYA

    Sommario:
    1. La filosofia dei bràhmani. I darçana
    2. L’origine dei darsana
    3. I contenuti del darsana.
    4. Mìmàmsà
    5. Vedanta
    6. Sàmkhya

    DOMANDA: Che cosa sono i darçana?

    I darçana sono la filosofia dei bràhmani e costituiscono l’espressione filosofica della casta bràhmanica, al tempo stesso nella sua diversità apparente e nella sua unità profonda, ma per comprendere bene di che si tratta, forse è opportuno fare un breve richiamo storico. Riportiamoci un istante col pensiero a un’epoca situabile all’incirca verso l’inizio dell’era cristiana. A quell’epoca i movimenti religiosi, che si sono sviluppati intorno a un nucleo monastico, come il buddhismo e il jainismo, già da parecchi secoli hanno costruito grandi monasteri, con annesse scuole, hanno istituito regole di discussione e grazie ad esse hanno elaborato una terminologia tecnica, una concettualizzazione relativamente affinata.

    Per contro, dal lato del bràhmanesimo, la situazione è caratterizzata dall’esistenza di una vasta letteratura, ma sempre essenzialmente religiosa: tutto il corpus vedico, da un lato, comprese le Upanishad e, dall’altro, la letteratura speculativa, che si innesta sulle grandi epopee, il Mahàbhàrata, in particolare, di cui la celebre Bhagavad Gìtà non è che un frammento, e altri testi ancora. In tutta questa letteratura noi troviamo naturalmente molti materiali per una possibile filosofia, cosmogonie, identificazioni mistiche tra il sacrificio, la persona e il cosmo, racconti di esperienze spirituali, miti soteriologici di ogni tipo, ma ciò che manca ancora è la concettualizzazione, la ricerca di una certa sistematicità, la produzione delle prove, sicché i bràhmani, a una certa epoca, hanno dovuto avvertire questa mancanza, e si può pensare che i darçana si sono formati sulla base dei sùtra – quei versetti mnemonici, che sono come i segnavia di una dottrina – e che si sono costituiti a una data che non è possibile fissare con troppa precisione, ma che per ciascuno di loro si colloca circa all’inizio dell’era cristiana.

    DOMANDA: Come prendono forma i darçana?

    La genesi dei darçana è assai singolare e rivelatrice. Bisogna dire innanzi tutto che il termine stesso darçana si può tradurre letteralmente con “modo di vedere” o “punto di vista”. Dapprima i darçana sono dei punti di vista particolari sulla realtà, che, in quanto tali, non sembrano escludersi reciprocamente, ma piuttosto essere complementari. Ora, questa relazione di complementarità, che più tardi, in età classica, costituirà un problema, è propria dei darçana ai loro inizi, ciascuno dei quali sembra incominciare sotto il segno di una tecnica particolare.

    Per fare un esempio di darçana, di cui parlerò piu’ avanti, la mìmàmsà, che è una specie di esegesi del rituale, è cominciata appunto nel prolungamento delle esegesi vediche antiche, come un metodo sistematico per interpretare i testi vedici, piuttosto che affidarsi all’ispirazione individuale.

    Un altro esempio è il Nyàya, letteralmente “metodo per dirigere il pensiero”, che ha preso forma sotto le specie di una determinazione più precisa dei criteri ai quali ogni ragionamento doveva soddisfare per essere accettabile, cioè non comportare contraddizioni e produrre la persuasione negli uditori cui era destinato. E’ evidente che il Nyàya all’origine non si spiega che nella prospettiva di dibattiti essenzialmente orali, che i bràhmani sempre più dovevano sostenere contro i rappresentanti di filosofie esterne al loro ordine, essenzialmente i buddhisti e i “jaina”, di cui ho già detto che erano in vantaggio su di loro, da questo punto di vista.

    Si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni volta ritroviamo lo stesso fenomeno. Allora l’evoluzione successiva è stata questa: muovendo da un inizio relativamente tecnico e specializzato, ogni darçana secondo una necessità iscritta nella cosa stessa, cioè secondo la naturale interconnessione di tutti i problemi della filosofia, ogni darçana dunque si è esteso molto al di là dei suoi interessi iniziali.

    Per esempio il Nyàya non si è accontentato di restare una semplice logica, è diventato una teoria della conoscenza, una psicologia, perfino un’etica e la stessa evoluzione si è prodotta per ogni altro darçana. Dunque a poco a poco in un intervallo di due, tre o quattro secoli, i darçana sono diventati delle filosofie a pieno titolo e da quel momento era inevitabile che entrassero in conflitto gli uni con gli altri. La loro complementarità iniziale è stata un po’ obnubilata ed entriamo con il V, VI e VII secolo, in quella che è considerata l’età d’oro del pensiero filosofico indiano, l’età in cui infuria il dibattito filosofico, da una parte dei darçana fra loro, dall’altra dei darçana che fanno fronte comune contro gli avversari esterni, buddhisti, “jaina” e scuole materialistiche. Ecco in prima approssimazione la linea evolutiva dei darçana, almeno nell’età classica.

    DOMANDA: Ci può illustrare i contenuti dei darçana, a cominciare dalla prima coppia, Mìmàmsà e Vedanta?

    Sì, lei parla di coppia. Per capire questa espressione non sarà inutile una breve messa a punto storica. Si riscontra infatti che un po’ più tardi nel tempo, “grosso modo” intorno all’inizio del II millennio della nostra era, il dibattito filosofico ha cominciato a rinnovarsi, in modo meno evidente che per il passato, nel senso che le posizioni dottrinali si sono fissate e d’altronde i grandi avversari dei bràhmani, che a lungo avevano stimolato la loro inventività speculativa, cioè i buddhisti, per ragioni storiche, che non posso prendere in esame qui, sono scomparsi dalla scena. A quel punto i bràhmani si sono ritrovati praticamente senza interlocutori esterni e a poco a poco si è fatta strada l’idea che c’era in comune tra loro più di quanto non fosse apparso nelle epoche anteriori.

    Si entra allora in una età più propriamente scolastica, in cui predomina la sistematizzazione, in cui si classificano le dottrine per affinità, e assai presto si è imposta una classificazione dei darçana in sei sistemi fondamentali o piu’ esattamente in tre gruppi di due sistemi ognuno, cioè da una parte il Sàmkhya e lo Yoga, dall’altra la Mìmàmsà e il Vedanta e infine il Nyàya e il Vaisesika.

    E’ a cominciare dal XII, XIII secolo circa, che questo modo di considerare i darçana è diventato in un certo senso canonico. Più tardi ancora, d’altronde, i bràhmani cominceranno a produrre testi in una certa misura paragonabili alle nostre enciclopedie o alle nostre storie della filosofia, cioè passeranno in rivista tutte le dottrine filosofiche possibili, classificandole in un ordine di adeguazione crescente alla verità. Quindi metteranno in basso le dottrine estranee al loro universo bràhmanico, materialistiche, “jaina”, buddhistiche, eccetera, e i darçana stessi saranno classificati in un ordine gerarchico, culminante nel vedanta, considerato a quell’epoca come il più bel fiore, come il compimento insuperabile del pensiero bràhmanico. Questa è la cornice. Partendo di qua possiamo addentrarci nel contenuto dottrinale proprio di ciascun darçana.

    INTERVISTATORE: Consideriamo dunque la prima coppia: Mìmàmsà e Vedanta.

    Sì, io penso che è abbastanza logico considerare, come prima coppia, quella formata dalla mìmàmsà da un lato e dal vedanta dall’altro. Bisogna dire d’altronde che la mìmàmsà e il vedanta sono considerati l’una come la “mìmàmsà antica” o “prima mìmàmsà” e l’altro come “seconda mìmàmsà” o “mìmàmsà ulteriore”. Ciò che hanno in comune essenzialmente è il riferimento quasi esclusivo al Veda, all’autorità del Veda.

    Si presentano entrambe come esegesi del corpus vedico, semplicemente con una diversa specializzazione, di cui renderemo conto in seguito. In ciò che concerne la mìmàmsà in senso proprio o “prima mìmàmsà”, la sua genesi si situa sul diretto prolungamento di interpretazioni dei testi vedici, di cui i bràhmani avevano pratica già da parecchi secoli. Ma vengono introdotte alcune regole del gioco, sistematizzate le pratiche anteriori. A questo scopo la mìmàmsà si dedica a un immenso lavoro di classificazione degli enunciati del Veda. Ritenendo che l’intero corpus vedico possa essere analizzato in diversi tipi di enunciati, come per esempio “vidhi”, cioè le prescrizioni, “sedha”, le interdizioni, le denominazioni, i mantra, cioè le formule rituali e infine i testi esplicativi delle ingiunzioni e delle interdizioni. In un certo senso, è vero, questo minuzioso lavoro di analisi del testo vedico non è ancora di per sé filosofia, ma lo diventa a poco a poco, grazie alle discussioni, alle polemiche che la mìmàmsà è portata a sviluppare contro le altre scuole. In particolare ciò che la spinge a quelle polemiche è il suo principio fondamentale, secondo cui il Veda è una entità eterna, che non ha bisogno di essere rivelata da una figura divina, che in qualche modo si autorivela. E questo porta la mìmàmsà alla straordinaria e singolarissima tesi del carattere naturale ed eterno dei suoni del Veda. Beninteso si tratta di una affermazione del tutto trascendente rispetto ai limiti dell’ordinaria esperienza sensibile. La mìmàmsà deve costruire allora una specie di metafisica della parola, nei termini della quale si sforza di far comprendere come l’enunciazione temporale, in successione, delle parole vediche da una parte, e dall’altra la nostra comprensione di quelle parole, che si sviluppa a poco a poco, nell’ordine del tempo, non contraddice a una specie di presenza statica e massiccia e integrale dei suoni del Veda.

    La mìmàmsà è dunque portata a una riflessione sulle strutture, sui meccanismi ontologici, si potrebbe dire, che intervengono perchè non sia rivelato della totalità dei suoni del Veda, presente ad ogni istante, se non ciò che è immediatamente utile a colui che pronuncia o a colui che ascolta e comprende determinate parole vediche. Quest’idea l’ha portata ad ogni sorta di polemiche sul linguaggio in generale, da una parte con altre scuole bràhmaniche, come il Nyàya, di cui parleremo piu’ avanti, e dall’altra con le scuole extra-bràhmaniche, che non ammettono affatto quei presupposti. Dunque in questo modo la mìmàmsà è condotta, forse contro le sue stesse intenzioni, a costituire una dottrina di ciò che poi si è chiamato dappertutto i “pramana”, cioè le norme della retta conoscenza. Allora naturalmente, se per essa il Veda è il “pramana” per eccellenza, la conoscenza retta per eccellenza, la mìmàmsà deve, malgrado tutto, far posto a ciò che ci dà accesso, alle forme, per così dire, mondane o empiriche della conoscenza, in primo luogo alla percezione, e poi all’inferenza fondata su dati della percezione, e poi ancora ad altri mezzi di conoscenza, che essa distingue, come la supposizione necessaria, la constatazione d’assenza, eccetera.

    Noi non possiamo entrare nei particolari di queste discussioni della mìmàmsà. Ciò che possiamo tener fermo è che, al di là della sua specificità, essa ha gettato le basi di una teoria della conoscenza, di una teoria del linguaggio, di una epistemologia, e che, in particolare, essa ha spinto, forse più lontano di quanto non fosse stato mai fatto, non soltanto in India, ma, pare, in qualsiasi altra parte del mondo, la pratica della esegesi sistematica. Essa ne ha fissato parecchi punti, come, ad esempio, il ruolo che ha la posizione di una parola nella frase, ha elaborato una teoria del contesto, che permette di dare ad enunciati formalmente identici significati diversi in funzione della differenza dei concetti e inversamente, eccetera. Quindi ha fornito uno strumento dialettico e concettuale notevole ai suoi stessi avversari, ma parallelamente ha funzionato come ideologia capace di fondare la preminenza della casta bràhmanica, poichè presenta elementi che si collegano tutti tra di loro: l’autorità del Veda con il carattere “apauruseya”, cioè l’origine non umana del Veda, e col primato della casta bràhmanica, come depositaria privilegiata del sapere vedico, tanto sul piano del rituale, quanto su quello della conoscenza. Questo, mi sembra, può bastare per una prima caratterizzazione della mìmàmsà.

    DOMANDA: E il vedanta?

    Il vedanta è la “seconda mìmàmsà”. Qual è inizialmente il suo rapporto con la “prima mìmàmsà”? Bisogna dire che la “prima mìmàmsà” presa per sé sembra bastare a se stessa e non si oltrepassa verso uno sviluppo ulteriore. Ma bisogna anche segnalare a questo proposito che in fondo la “prima mìmàmsà” resta chiusa a tutto un versante del pensiero religioso, del pensiero vedico anteriore, nel senso che riduce tutto ai sacrifici, al rituale, alla meccanica che porta dall’atto sacrificale alla retribuzione del sacrificio. Ma è del tutto chiaro sia per noi sia per gli Indiani che il corpus vedico non si esaurisce, non è riducibile a una serie di prescrizioni e di interdizioni o di commenti al sacrificio.

    In particolare in un segmento del corpus vedico, quello costituito dalle celebri Upanishad, incontriamo degli enunciati, che sono fondamentalmente refrattari alla classificazione operata dalla “prima mìmàmsà”. Sono gli enunciati cui possiamo provvisoriamente apporre l’etichetta di “mistici”, cioè tutti quegli enunciati che riposano in un modo o in un altro su una identificazione o su una possibilità di identificazione tra la persona umana e il cosmo. Beninteso l’archetipo di quelle formule vediche, che vanno al di là della logica del sacrificio, è fornito da quelle che si chiameranno piu’ tardi le “grandi parole” o “mahavakya”, come il celebre “tat tvam asi”, “tu sei questo”. “Anche tu sei questo”, dice il bràhmano Udalaka Aruni a suo figlio Svetaketu, tu nella tua realtà psicologica attuale sei, senza saperlo, identico al principio ultimo, all’origine dei fenomeni, che è il “bràhman”, termine che d’altronde la mìmàmsà conosce, ma non conosce che sotto la forma di ciò che fonda in ultima istanza l’efficacia del sacrificio. Dunque questa possibilità di creare corto circuito col sacrificio, questa possibilità di entrare in relazione diretta e al limite in una relazione di identificazione con il “bràhman”, senza passare per il sacrificio, questa possibilità è ignorata, trascurata o negata dalla mìmàmsà, ed è stata vocazione della “seconda mìmàmsà” farsene carico. D’altronde il nome stesso di vedanta dice già questo: vedanta significa “veda anta”, fine del Veda o cambiamento del Veda. Spendiamo qualche parola sulla genesi del vedanta. Questa genesi si determina a partire da quello che si chiama “prastana traya” “tripode”, triplice punto di partenza, dei quali l’uno è fornito dalle stesse Upanishad, il secondo dalla Bhagavad Gìtà, che sarà interpretata in questa prospettiva, forse non senza una certa forzatura del testo, e il terzo da una prima raccolta di sùtra, che si chiama “Brahmasutra”, aforismi mnemonici sul “bràhman”, attribuiti a un certo Badarayana, che sarebbe vissuto intorno al I secolo della nostra era e di cui non sappiamo molto. Non ho parlato poco fa dei sùtra della mìmàmsà di Jaimini, loro autore presunto, la cui situazione è per qualche verso simile, ma ciò in fondo ha un’importanza secondaria. Ciò che si è prodotto nei primi secoli della nostra era, è l’inizio di una letteratura di commenti imperniati sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gìtà, sui sùtra, ma – fenomeno che ritorna a più riprese nell’India antica – quei primi commentatori bràhmanici oggi non sono più per noi che dei nomi, perchè più tardi, esattamente verso la metà dell’VIII secolo d.C., è sopraggiunto un commentatore le cui qualità eccezionali, la cui penetrazione e sistematicità hanno contribuito a eclissare totalmente gli altri, al punto che i loro commenti non erano più ricopiati nei manoscritti.

    Praticamente per noi il vedanta, nella sua forma classica, nella sua forma di sistema filosofico a pieno titolo, riceve il maggiore impulso dalla personalità di questo commentatore fuori del comune, cioè l’illustre Çamkara, di cui non conosciamo le date esatte, ma che è vissuto ed è fiorito non si sa bene dove intorno alla metà dell’VIII secolo. Si potrebbe aggiungere pure il suo predecessore Gaudapada, autore di stanze in versi su una Upanishad, ma l’essenziale della dottrina risale a Çamkara. Qual è la forma che Çamkara ha dato inizialmente al vedanta? Dapprima due parole sulla sua opera, commento dei “Brahmasutra” da una parte, della Bhagavad Gìtà dall’altra e infine delle Upanishad vediche maggiori. Il punto di partenza di Çamkara è precisamente in quelle “grandi parole” che la mìmàmsà non era in grado di integrare in modo significativo: il “tat tvam asi”. Allora è evidente che il suo problema filosofico è già segnato da questo punto di arrivo – problema filosofico che consiste nel mostrare, nel far comprendere la possibilità stessa di una tale identificazione. Abbiamo le due estremità di una catena, assai lontane l’una dall’altra, che devono ricongiungersi. Da un lato, sulla base dell’autorità incondizionata del Veda, dobbiamo porre l’identità assoluta dell’anima individuale o dell’àtman col “bràhman”, dall’altra partiamo dalla nostra esperienza umana, del tutto limitata, condizionata, nella quale niente ci permette di dare un significato intuitivo a quella identità, e si può dire che tanto sul piano della speculazione dottrinale, quanto sul piano delle pratiche spirituali che promuove, Çamkara si assegna come compito di rendere possibile la riduzione e al limite l’abolizione di quello scarto. Dunque sul piano speculativo incontriamo una teoria che mira a spiegare perché l’unità assoluta di tutte le cose nel “bràhman”, che è di diritto, non è immediatamente avvertita come tale da noi nella percezione, dove abbiamo a che fare con un mondo apparentemente multiforme, sicché il principio spirituale, il “bràhman” sembra disperso in una quantità, in una miriade infinita di esseri umani, di animali, eccetera. Che cosa può spiegare questa dispersione del “bràhman”? Si fa intervenire qui la teoria della maya o dell’illusione cosmica, detta anche dell’ “avidya” o del misconoscimento della propria natura, in cui ogni anima individuale incorre. Non possiamo entrare qui nei particolari, che sono forniti meno da Çamkara stesso che dalla sua scuola, dai numerosi successori, che perfezioneranno il suo sistema nelle età successive. Ciò che si può dire è che egli elabora già una dialettica con cui tenta di mostrare che l’esistenza nella sua pluralità è un fatto di cui non si può rendere conto logicamente e che quando esaminiamo la possibilità di ricostruire l’esperienza che ci fornisce la percezione sensibile, incontriamo ogni genere di contraddizioni, che sono come altrettanti segni della necessità di cercare oltre. Muovendo di qui Çamkara tenta di tracciare tutto un itinerario di pratiche, di meditazioni delle “grandi parole” vediche, che mirano a epurarle del loro significato iniziale. In altri termini si riparte dal “tat tvam asi”, dal “tu sei questo”, termini che sembrano incompatibili. Ma la meditazione si orienta nelle due direzioni al tempo stesso: quella del “tat”, del “questo” e quella del “tvam” del “tu”. Da una parte, poiché si tratta del “tat” cioè del “questo”, si mostra che il “bràhman” non è quella specie di entità trascendente, misteriosa, lontana, che sembra essere ad un primo approccio, ma che c’è una specie di immanenza, di presenza del “bràhman” fin dentro le nostre funzioni mentali. Per esempio Çamkara elabora, sette o otto secoli prima di Descartes, un procedimento riflessivo sulla presenza del “bràhman” in noi, che anticipa largamente il “cogito”. L’affermazione assoluta della persona, anteriore allo spiegamento dei mezzi della retta conoscenza, questa affermazione è intesa da Çamkara come il segno della presenza del “bràhman” in noi e quindi, parallelamente, il “tvam”, il “tu” diventa a poco a poco oggetto di un’analisi che lo spoglierà di tutte quelle che Çamkara chiama le “upadhi”, cioè le determinazioni avventizie, contingenti, che lo rivestono e che in quanto tali sembrano allontanarlo dal “bràhman”. Dunque il “bràhman” interiorizzato da una parte, il soggetto individuale, spogliato delle sue particolarità dall’altra, si presentano come essenze, la cui fusione in una sola e stessa entità, appare sempre meno inverosimile. Beninteso non è questione di mera speculazione filosofica. C’è tutta una pratica spirituale di cui Çamkara ha tracciato i lineamenti essenziali che si chiamano “nididiasana” eccetera, diverse maniere infine di interiorizzare le parole vediche, fino a che ne scaturisca intuitivamente, ad un certo punto, la realizzazione della verità del “tat tvam asi”, conformemente d’altronde a presupposti che debordano largamente i darçana, che sono validi anche per il buddhismo e per quasi tutto il pensiero religioso indiano. Questa presa di coscienza dell’identità dell’anima individuale e del principio che sottende i fenomeni esterni ha il valore di una conoscenza, una sfera di gnosi, che non permette più di interessarsi passionalmente agli eventi mondani, di sentirsene investiti. Di conseguenza si esaurisce la fonte del karman, di quella famosa ripercussione dei nostri atti e dei nostri pensieri su noi stessi e sulle nostre esistenze individuali. E all’individuo che è passato per questa conoscenza non resta che liquidare in qualche modo le conseguenze del suo “karman” anteriore, per conseguire quella che sarà chiamata “liberazione”, cioè una misteriosa fusione col “bràhman”, a proposito della quale, d’altronde, Çamkara resta nel vago, perché si ha qui a che fare con un concetto-limite, che la riflessione filosofica può in qualche modo preparare, giustificare, ma non dedurre integralmente.

    DOMANDA: Si può adesso passare alla seconda coppia composta dal Sàmkhya e dallo yoga. Ci può parlare innanzi tutto del Sàmkhya?

    Il termine Sàmkhya può essere tradotto con “enumerazione”. Enumerazione sistematica di tutti i principi costitutivi del reale. Bisogna dire che il Sàmkhya è un sistema filosofico classico, un darçana che è stato anticipato fin nei particolari dalla speculazione protofilosofica anteriore. Certe Upanishad, il Mahàbhàrata, la Bhagavad Gìtà, d’altronde, contengono anch’esse molti elementi del Sàmkhya. Nondimeno il Sàmkhya classico prende forma, con una raccolta di stanze, “karika”, attribuite ad un certo Isvarakrisna, che datano dal IV secolo d.C. Il fondamento del sistema Sàmkhya è questo: il Sàmkhya si presenta innanzi tutto come un dualismo, cioè oppone due principi metafisici irriducibili l’uno all’altro: l’uno chiamato “prakriti”, con un termine che vuol dire letteralmente “procreatrice” e che abbiamo preso l’abitudine di rendere, nelle lingue europee, con “natura”, “natura creatrice”, a volte “natura naturans”; l’altro chiamato “purusa”, termine che letteralmente vuol dire “uomo”, che designa un principio spirituale, presente nell’uomo, ma anche negli altri esseri viventi e che si traduce, bene o male, ora con “Spirito” (con la maiuscola) ora con “monade spirituale” – ma in realtà non abbiamo un termine adeguato per caratterizzare questo “purusa”, perché è appunto qualcosa che non ha un equivalente nel pensiero filosofico europeo. Allora che cos’è la “prakriti”? Ebbene la “prakriti” è intesa come una specie di sostanza materiale universale, la stoffa di cui sono fatti e da cui si staccano, con una sorta di sconnessione, non soltanto le realtà sostanziali che costituiscono il mondo materiale esterno, ma anche tutto ciò che, per esempio, costituisce la nostra realtà empirica di esseri viventi, così com’è osservabile dall’esterno: quindi non soltanto il nostro corpo visibile, esterno, ma altrettanto i nostri sensi, e tutto ciò che ci costituisce come soggetti viventi, attivi, che entrano in rapporto col mondo, che percepiscono, memorizzano, riflettono, eccetera. Io credo che non si insisterà mai troppo su questo punto. Se non fosse d’altro lato per la presenza del “purusa”, il Sàmkhya potrebbe passare per una specie di materialismo, nel senso che mette sul conto della natura, della produttività della natura, l’insieme dei fenomeni non soltanto cosmici esterni, ma anche psicologici. In altri termini, nel momento stesso in cui parlo e in cui tento di dare, bene o male, una certa coerenza, un significato alle mie proposizioni, il Sàmkhya analizza ciò che sta accadendo in me come un insieme di fenomeni, di spostamenti di forze e di cariche in seno alla materia sottile di cui sono internamente composto. Il segno di ciò appare anche in un’altra dottrina abbastanza tipica del sistema Sàmkhya, che è la dottrina dei “guna”, cioè delle qualità o degli attributi del reale. Il Sàmkhya afferma che tutto ciò che appare nell’esperienza, appare sempre il risultato di una combinazione o di un’altra, dei tre attributi fondamentali che esso distingue e che sono – dico prima i termini in sanscrito – il “sattva”, il “rajas”, il tamas. E’ caratteristico che ognuno di questi attributi costitutivi del reale, di questi modi, attribuibili a qualsivoglia sostanza individuale, comportano tutta una gamma di significati, una specie di ricchezza semantica, che va per noi dai significati pertinenti soltanto alla sfera materiale, fino ai significati psicologici o quasi-spirituali. Se prendiamo in considerazione il “sattva”, si tratta di un principio che nell’ordine della materia connota la luminosità, per esempio la luminosità di una lampada, la luminosità di un cielo chiaro, ma connota anche la leggerezza, il fatto, per esempio, che il fumo si innalza nel cielo, eccetera; ma lo stesso “sattva”, su altri registri, connoterà degli stati di euforia fisiologica, come quando ci sentiamo leggeri e niente ci pesa; e a un livello più alto ancora, il “sattva” connoterà una sorta di gioia interiore, una luminosità della persona, una “bontà” (tra virgolette), degli atti che possiamo compiere. Non bisogna vedere una contraddizione in ciò, perchè il Sàmkhya, per quanto sembri un dualismo, non lo è affatto nel senso cartesiano del termine, e la sua “materia prima”è portatrice, attraverso gli attributi, di un complesso di valori che si dispongono su tutti questi registri. Quindi si potrebbe dire altrettanto dell’antitesi del “sattva”, che è il tamas, letteralmente l'”oscurità” e le “tenebre”. Si va dalla pesantezza della pietra che poggia sul suolo, fino all’inerzia mentale, alla stupidità e all’ebetudine di colui che, per un motivo o per un altro, è lento o contraddittorio o confuso nel suo pensiero. E infine c’è il “rajas”. E’ un principio intermedio tra il “sattva” e il tamas, che ne riflette appunto l’opposizione essenziale. Il “rajas” è un principio di instabilità, di tensione e perciò stesso di sofferenza. La parola “sofferenza” ci permette di arrivare nell’altro principio, del Sàmkhya e al tempo stesso alla congiunzione dei due principi. Dunque abbiamo parlato fin qui della “prakriti”, della natura e del suo sviluppo, secondo quelli che il Sàmkhya chiama i “tattva”, principi costitutivi del reale. Ci resta da parlare del suo antagonista, il “purusa”, il principio spirituale. Dato che tutto l’elemento concreto, dinamico, significativo, nell’attività degli esseri viventi e non viventi, è dal lato della “prakrti”, ne consegue che il Sàmkhya è necessariamente portato a considerare il “purusa” come un essere perfettamente estraneo ad ogni azione e ad ogni passione. In realtà il Sàmkhya si rappresenta il “purusa” come una specie di specchio, come una coscienza-testimone, come si dirà piu’ tardi. Il “purusa” è spettatore del dispiegarsi della natura al suo cospetto. D’altronde la metafora dello spettatore e della danzatrice, che si produce sulla scena, è usata proprio nelle “Samkhyakarika”. Se non ci fosse il “purusa”, non si produrrebbe nulla, cioè dal punto di vista del Sàmkhya quella danza della natura, quel dispiegamento da parte della natura di ciò che è in lei racchiuso, dei principi costitutivi del reale, non si produrrebbe. Non si produce che nella misura in cui natura e spirito entrano in congiunzione l’una con l’altro e il modello, il filo conduttore per studiare quella congiunzione è naturalmente ciò che noi chiamiamo l’unione dell’anima e del corpo. Si potrebbe anche dire in un altro senso che il Sàmkhya è una filosofia integrale che si costituisce riflettendo sul mistero dell’unione dell’anima e del corpo. Dunque l’analisi che fa il Sàmkhya è grosso modo questa: la congiunzione di due entità (quale che sia la sua causa prossima) ha sempre la sua origine in quella famosa ignoranza metafisica, in quel misconoscimento di sé, di cui ho parlato prima, riguardo al vedanta e che si ritrova, “mutatis mutandis”, nel Sàmkhya. Dunque una volta ammesso quell’irrazionale, quel presupposto, il Sàmkhya analizza la condizione umana, la condizione dell’essere finito in generale, come il turbamento prodotto dall’unione di due principi metafisici, che sono radicalmente distinti l’uno dall’altro. Da una parte la “prakriti”, dispiegandosi, procura, per così dire, al “purusa” strumenti per esperire il mondo, come i sensi eccetera, d’altra parte il “purusa” dimentica la sua essenza, dimentica di essere una “monade spirituale”, chiusa in sé, autosufficiente, autoilluminantesi, come dirà piu’ tardi anche il vedanta, crede che qualcosa gli manchi, si mostra come un essere di desiderio, come un essere volto verso il mondo, in breve si identifica con i modi della materia a cui si trova unito. Per riassumere in modo schematico, si identifica con l’organismo fisiologico e in particolare con quelle entità materiali, lo ripeto, ma certamente sottili e quasi indiscernibili, che il Sàmkhya chiama “manas”, senso comune, e “buddhi”, intelletto. In altri termini il “purusa” si trasforma in agente, in autore di atti, e si trasforma altrettanto in soggetto dell’esperienza affettiva. Diventa attivo, spera, crede, compie delle imprese nel mondo e subisce su di sé le conseguenze degli eventi del mondo. Il Sàmkhya riassume questa analisi dicendo che la nostra è essenzialmente un’esperienza del turbamento, della predominanza del “rajas”, dunque della sofferenza. Perciò si può supporre che abbia subito all’origine un’influenza buddhista. Detto questo, è tracciata la via. Una volta fatta la diagnosi che tutta la nostra infelicità, la trasmigrazione, è causata dal fatto che entriamo in confusione con ciò che non siamo, il metodo del Sàmkhya consisterà in una riflessione che permetta al “purusa” di riprendere coscienza di ciò che è, della sua natura fondamentale e l’esperienza cruciale per lui è la “viveka”, cioè la discriminazione da lui operata. In altri termini la sua relazione con la natura finisce con un ultimo percorso mentale, un ultimo esercizio delle sue funzioni mentali, al termine del quale quella relazione viene resa impossibile. Il “purusa” recupera la sua autonomia essenziale e la dottrina chiamerà questo stata “kaivalya”, isolamento spirituale. Il “purusa” resta per sempre ripiegato su di sé, chiuso in sé. Ci sono qui delle evidenti analogie con il percorso del vedanta, benché nel Sàmkhya l’osservanza del Veda sia assai meno netta. Una differenza importante che si può notare di passaggio quando si descrive il “purusa” liberato, in opposizione all’ àtman liberato del vedanta, è che mentre per il vedanta l’ àtman è fondamentalmente uno e la sua percezione di sé, come di uno tra molti, come di uno spirito individuale, tra una moltitudine di spiriti simili, fa parte anch’essa dell’illusione, per il Sàmkhya al contrario la dispersione dei “purusa”, l’infinita molteplicità dei “purusa” è una realtà metafisica insormontabile. In altri termini c’è una sola natura, una sola “prakriti” e poi una infinità di “purusa” che, abitualmente, entrano in contatto con essa, si confondono con essa, ma di cui, almeno alcuni, riescono a trovare in qualche modo un varco, l’uscita fuori del “samsara”, fuori della trasmigrazione, svincolandosi dalla natura. Dunque anche nella liberazione i “purusa” resteranno ciascuno per sé e evidentemente ciò che può fare difficoltà in questo sistema è che non si sa più bene che cosa ne è della loro distinzione reciproca, dato che la loro essenza è assolutamente comune. Questo è quello che si può dire

    Michel Hulin

    VITA
    Nato nel 1936, Michel Hulin ha studiato Filosofia e Indologia in Europa e in India. Attualmente è ordinario all’Università di Paris-IV “La Sorbonne”, dove insegna Filosofia comparata e Filosofia indiana. Dal 1990 tiene lezioni presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

    OPERE
    Le principe de l’ego dans la pensée indienne classique. La notion d’Ahamkara, Institut de Civilisation indienne, Paris, 1978; Samkhya Literature in A History of Indian Literature, vol. VI, fasc.3, O. Harrassowitz, Wiesbaden, 1978; Hegel et l’Orient, Paris, 1979; La dottrina segreta della dea Tripura, Paris, 1979; Mrgendragama. Sections de la Doctrine et du Yoga. Avec la Vrtti de Bhattanarayanakantha et de la Dipika d’Anghorasivacarya, traduction, introduction et notes par M.H., Publications de l’Institut Français d’Indologie, n. 63, Pondichéry, 1980; Le visage caché du temps, Paris, 1985; Sette racconti iniziatici tratti dallo Yoga-Vasistha, Paris, 1987.

    PENSIERO
    Michel Hulin è tra i pochi studiosi europei a dominare sia l’ambito della filosofia occidentale che quello del pensiero filosofico e religioso indiano nella loro complessità. Ha indagato la nozione di ahamkara , in particolare nella scuola del Vedanta advaita, in relazione alla categoria della soggettività presente nella cultura occidentale e ha tradotto e introdotto alcuni testi sanscriti. Importanti i suoi contributi sulle diverse rappresentazioni dell’al di là. Attualmente sta indagando le varie forme non canoniche dell’esperienza mistica.

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