LE RADICI DEL PENSIERO FILOSOFICO
C. Malamoud – André Padoux
LE SPECULAZIONI INDIANE SUL LINGUAGGIO
Sommario:
1. Il sanscrito
2. L’importanza del linguaggio
3. Gli studi grammaticali e fonetici
4. Gli studi grammaticali dopo Panini
5. Linguaggio e magia nel tantrismo
6. I mantra
7. Abhinavagupta. I quattro piani della parola
8. La parola suprema
9. La parola veggente
10. La parola intermedia
11. Vaikhari
DOMANDA: Professor Malamoud, la speculazione sulla parola è una riflessione sul sanscrito. Che cos’è il sanscrito?
Il sanscrito è la lingua più anticamente attestata e più prestigiosa dell’India, e si può dire del mondo indiano. Se noi vogliamo dare una definizione storica, genetica della lingua sanscrita, bisogna cominciare col dire che è una lingua appartenente al gruppo indo-ariano.
Per spiegare l’insieme delle lingue indo-ariane, bisogna tener presente che nella prima metà del II millennio a.C., delle popolazioni, che davano a se stesse il nome di “Aryas”, parola che nella loro lingua significava “nobile”, sono penetrate ondate successive, violente forse, o forse anche per infiltrazione progressiva, nell’India attraverso i valichi del Nord-Ovest.
Questi “Arya”, che sono dunque penetrati nell’India, sono conosciuti col nome di indo-ariani. Non erano i soli “Arya”. Certi gruppi, invece di dirigersi verso l’Est, venendo dall’Asia Centrale, si sono mossi verso Ovest e hanno occupato l’altopiano iranico. Altri “Arya”, quindi, molto vicini agli “Arya” che hanno occupato l’India, che sono penetrati nell’India, si stabilivano contemporaneamente in Iran. Il termine stesso di Iran significa paese degli “Arya”.
Questi “Arya” quindi hanno varcato i passi del Nord-Ovest e nel corso dei secoli si sono progressivamente installati nella piana indo-gangetica, portatori di una lingua assai vicina a quella parlata dai loro cugini o vicini installati in Iran. Gli “Arya”, che avevano preso stanza in India, erano portatori di una lingua che chiamiamo sanscrito vedico, perché il principale, se non il solo prodotto, di quella lingua, è il “Veda”.
Ma gli “Arya” che hanno occupato l’altopiano iranico, erano portatori di una lingua affine, in cui è stata scritta un’altra opera di carattere sacro, l’ “Avesta”, ed era la lingua di Zarathustra. Quando alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo i filologi, gli storici, i linguisti dell’Occidente hanno scoperto queste due lingue, la lingua vedica, che era quella degli “Arya” stanziati nell’India, e la lingua dell’ “Avesta”, che era quella degli “Arya stabilitisi in Iran, sono stati colpiti dalle somiglianze assai strette e hanno elaborato la teoria per cui l’avestico e il vedico erano due rami contigui di una stessa lingua ipotetica, l’indo-iranico antico.
Questo indo-iranico antico (lingua ipotetica, ricostruita mettendo a confronto l’iranico antico e il vedico) è a sua volta considerato come un ramo di un’altra lingua ipotetica, molto più ipotetica e molto più antica, che è – diciamolo subito – l’indo-europeo.
I linguisti, i filologi, quando hanno preso conoscenza della lingua parlata dagli “Arya” dell’India e della lingua parlata dagli “Arya” dell’Iran, hanno constatato che non solo c’erano, tra le due, forti somiglianze, ma c’erano anche somiglianze altrettanto evidenti tra queste due lingue da una parte e il latino, il greco, il germanico, lo slavo, eccetera.
Così si è elaborata all’inizio del XIX secolo, la teoria di una lingua indoeuropea comune. Ma è anche vero che noi parliamo di indo-ariani, perché gli “Arya”, portatori della lingua vedica e che avrebbero prodotto, nel corso del loro sviluppo sul suolo indiano, il sanscrito, non erano entrati in un paese vuoto. Vi avevano trovato altre popolazioni, che parlavano lingue che non appartenevano affatto allo stesso gruppo linguistico. Quando si dice indo-ariano, si intendono le lingue dell’India, cioè parlate in India, ma che hanno la loro origine nella lingua portata dagli “Arya”.
A fianco alle lingue indo-ariane, ci sono in India lingue che non appartengono al gruppo indo-ariano, per esempio le lingue dravidiche. Dunque gli “Arya”, penetrando nell’India, portatori di una lingua che ha suscitato il testo del Veda, si stabiliscono e si diffondono, nel corso dei secoli, nell’India settentrionale, nella piana indo-gangetica, e la lingua che portano con loro si evolve e soprattutto si diversifica.
Una delle forme che assume questo indo-ariano iniziale è la lingua sanscrita. Altre forme derivanti dalla stessa fonte si allontanano un po’ di più dal punto di partenza e danno origine ad altre lingue appartenenti pure al ceppo indo-ariano, come per esempio l’insieme delle lingue pracrite, di cui la più celebre è il “pali”, che è stata, come si sa, la lingua del Buddhismo.
Il sanscrito, possiamo dire, è la forma che ha preso in India la lingua degli “Arya”, penetrati in questo paese nella prima metà del II millennio a.C. Ho detto che è la lingua più anticamente attestata, ed è vero se si include nel sanscrito, la sua forma arcaica, cioè il vedico. È inoltre la più prestigiosa: bisogna sapere che il termine stesso di “sanscrito” è il calco di una parola della lingua sanscrita, “samskrta”. In sanscrito la parola “samskrta” significa “portato alla perfezione, ricco di tutti i perfezionamenti”.
La lingua sanscrita si proclama da sé lingua perfetta ed è un esempio raro, forse unico, ma comunque assai raro, di una lingua che non è designata con il nome dell’etnia che la parla o della regione in cui è parlata, ma è designata invece con un qualificativo di elogio, che i suoi stessi locutori le hanno conferito.
Nel corso della storia indiana si nota che il sanscrito, passati i primi secoli della penetrazione ariana, una volta stabilitisi gli “Arya” sul territorio dell’India, cessa di essere la lingua di un gruppo o di una regione per diventare, in un certo senso, la lingua di prestigio di tutta quanta l’India, e più precisamente una lingua coltivata da gruppi sociali ben definiti, in primo luogo i Brahmani.
Il sanscrito è, al tempo stesso una lingua sacra, e diventa sempre più, nel corso dei secoli, la principale lingua colta. Nel corso della storia dell’India, il sanscrito, lingua perfetta, ha lo stesso ruolo o un ruolo simile a quello che ha avuto nell’Europa medievale, nell’Europa del Rinascimento e dell’Age Classique, il latino.
La lingua sanscrita non è la lingua materna di molti. Si può dire anzi che sono pochi in India quelli per cui il sanscrito è la lingua materna, nel senso proprio del termine. Ci sono invece piccoli gruppi di famiglie brahmaniche in specie, ma non esclusivamente, di famiglie colte, nel senso tradizionale del termine, per le quali la lingua sanscrita è per così dire la lingua paterna. In queste famiglie molto tradizionali, molto colte, molto attaccate alla religione, alla religione vedica e alla religione induista, che da quella deriva, il bambino, finché è piccolo, apprende la lingua locale presso la madre, ma dall’età di tre o quattro anni è preso in cura dagli uomini della famiglia, in particolare dal padre, e apprende la lingua sanscrita, che come ho detto è la lingua colta di tutta quanta l’India.
DOMANDA: Professor Padoux, l’India si distingue dalle altre civiltà, perchè ha assegnato un ruolo determinante alla speculazione sulla parola. Ci può introdurre a questa materia così poco nota in Occidente?
L’India in effetti ha dato alla parola un’importanza che non ha avuto io credo in nessun’altra cultura, benchè anche per noi sia importante il verbo, che del resto non è propriamente la parola, ma il “logos”. L’India è certo il paese del mondo in cui si è speculato sulla parola più a lungo e nel modo più completo. E’ il paese in cui è stato assegnato alla parola la posizione più importante. Il “Veda” la pone al principio del mondo, e nel corso dei secoli si è continuato a riflettere sulla parola, a sviluppare teorie sul suo ruolo nella creazione del mondo, sul posto che occupa nello spirito umano, sulla sua stretta connessione con il pensiero di ogni essere vivente, o almeno di ogni essere umano. Ed è inoltre il paese in cui fin da principio, fin dai tempi più antichi, si è tentato di studiare la parola in modo scientifico.
L’India è, fino a prova contraria, il primo paese del mondo ad avere avuto una grammatica scientifica, una grammatica in cui si trova la prima descrizione scientifica del linguaggio. Questo appare fin da principio nel “Veda” in una prospettiva mistica, cosmogonica, in cui la parola è una dea, una potenza femminile – bisogna sapere che per gli Indiani la potenza è sempre femminile – e la dea parola è l’armoniosa dominatrice degli dei, quella che, come dice un testo, conferisce agli dei la loro potenza. C’è un inno al dio Indra, che dice: “è dalla parola che ti viene la tua potenza”.
Quindi fin dall’inizio, la parola ha un’enorme importanza. Quello che bisogna – penso – notare subito a proposito di queste speculazioni, è che sono legate naturalmente alla lingua nella quale quella parola si è espressa in India e che è il sanscrito. Le caratteristiche della speculazione indiana sulla parola derivano dai tratti peculiari della lingua sanscrita. Il “Veda” non è redatto nella stessa lingua dei trattati più tardi, dei trattati posteriori all’era cristiana, è stato redatto millecinquecento anni a.C., in una forma di sanscrito arcaico.
Un altro punto, mi sembra, bisogna tener presente: l’India che si esprime in sanscrito (che non è che una delle numerose lingue indiane, è la lingua colta dell’India più autentica, dell’India indù, in opposizione all’India musulmana, cristiana, eccetera), l’India benchè abbia prodotto una delle più grandi letterature del mondo, per quantità forse la più grande, ha sempre considerato la parola orale come la parola nel senso più alto. Lo scritto in India è sempre svalorizzato, usato a fini pratici. E’ stato usato a fini pratici relativamente presto, ma non tanto, a partire dal V-VI secolo a.C.. Ma in India è la lingua del culto, la lingua orale, la lingua non scritta, insomma, che è importante.
Quindi le speculazioni sulla parola costituiscono al tempo stesso una speculazione sul sanscrito in quanto parlato, enunciato, non in quanto scritto. La forma scritta per l’India è una forma inferiore.
DOMANDA: Si può distinguere una corrente di grammatici e di filosofi della grammatica? Come si definisce e in che cosa si differenzia dagli altri tipi di speculazione?
In realtà tutto ciò si ricollega al “Veda”. Il “Veda” è all’origine, come dicevo, di tutta la tradizione culturale indù. La tradizione ulteriore spesso lo ha respinto, dichiarando che nell’età nostra non era più adatto a procurare la salvezza, ma questo fondo vedico è pur sempre presente. Il “Veda” è la rivelazione, cioè la verità eterna rivelata nella forma che è sua (nè potrebbe essere diversamente, come in qualsiasi altra religione, l’Islam per esempio, in cui il “Corano” è legato alla lingua araba, salvo che è un libro scritto e non è questo il caso del “Veda”).
Quindi, poichè la rivelazione eterna è stata fatta nella lingua sanscrita, tutto ciò che contribuisce alla conoscenza della lingua sanscrita, prende automaticamente, per così dire, grande rilievo. Questo spiega pure il ruolo molto importante degli ausiliari del “Veda”: i “vedanga”. “Vedanga”, più che “ausiliari”, vuol dire “membri”, potremmo dire “membri ausiliari del Veda”, che sono una serie di scienze e di tecniche, tra cui la grammatica, destinate a permettere da una parte la conoscenza del “Veda”, la corretta conoscenza del “Veda”, e dall’altra la conservazione del “Veda” nella sua integrità. E’ importante osservare che il “Veda”, redatto, diciamo, tremila anni fa, si è conservato, nel suo tenore originale, fino ai giorni nostri, mentre è stato messo per iscritto, sembra, non prima del XIV secolo a.C., nell’India Meridionale. Si è conservato quindi per tremila anni senza essere scritto.
Queste tecniche accessorie del “Veda” sono in primo luogo la metrica, lo studio dei metri del “Veda”. Molto importanti nel “Veda” sono gli inni, il “Veda degli inni”, il “Rgveda”. La metrica è un elemento fondamentale. Gli inni del “Veda” sono opera poetica in cui la metrica è molto importante. C’è la metrica e c’è la fonetica: anche questa è essenziale perchè nell’insieme del “Veda” gli inni, come in seguito i “mantra” nell’Induismo tantrico, non sono efficaci se non sono recitati esattamente nella loro forma. La parola rituale in India è efficace solo nella sua forma esatta. Più che il contenuto ciò che importa è la forma (un po’ d’altronde come nella poesia contemporanea non si può dire di un poeta che ha voluto dire un’altra cosa. Il poeta dice quello che dice e nient’altro. La forma è essenziale anche se veicola del senso.
Dunque la fonetica è molto importante per mantenere l’esattezza della forma. La affianca un’altra scienza ausiliaria, chiamata in sanscrito “nirukta”, che si traduce spesso “etimologia”. E’ una cattiva traduzione. “Nirukta” si potrebbe rendere con “pseudoetimologie” o se si vuole “giochi di parole”. Sono una specie di esercizio vagamente etimologico sui sensi, sui diversi sensi, che si possono ricavare dalla scomposizione di una parola. Quelle scienze d’altronde hanno classificato anche le parti del discorso. L’India già da un tempo assai antico ha distinto le parti del discorso, il verbo, il complemento, il soggetto, eccetera. Ha speculato sulle forme linguistiche, sulla vocalizzazione, problema importante anche nella lingua sanscrita.
Si è sviluppato assai presto lo studio e la conoscenza sistematica della lingua sanscrita. Quello studio si è applicato particolarmente alla grammatica, che è l’ultimo dei “vedanga” nell’ordine della mia presentazione, ma che è il primo di tutti, come quello che veramente permette di conoscere il “Veda”. In sanscrito la grammatica si chiama “vyakarana”, che si può tradurre in italiano “disquisizione” (disposizione, ndt), cioè un’analisi che scompone le cose, perchè la grammatica serve a dividere le parti del linguaggio, per ricostituirle in vista del discorso, capire la sua organizzazione, conoscere infine la struttura della lingua vedica.
Perciò certi grammatici hanno detto che la grammatica è il primo degli “ausiliari” del “Veda”,che è la regina delle scienze e la “via regia” della salvezza. A proposito della grammatica, bisogna menzionare un nome, più di tutti importante, quello del grande grammatico sanscrito Panini. La grammatica sanscrita ha questo di notevole: è la più antica grammatica esistente, poichè data, si crede, dal IV secolo a.C.. E d’altronde Panini, secondo la sua stessa testimonianza, non era il primo autore di una grammatica sanscrita. Ce ne erano stati altri prima di lui.
La grammatica di Panini è una descrizione scientifica notevole della lingua sanscrita, così come era parlata all’epoca di Panini, e come è ancora largamente parlata ai nostri giorni. E’ una descrizione incredibilmente esatta e strana al tempo stesso, perchè Panini non si è espresso come farebbe un grammatico moderno scrivendo un libro e spiegando le cose nei particolari, ma con dei “sutra”, con degli “aforismi” e in quei “sutra” le ha presentate con delle specie di formule algebriche estremamente eleganti. I “sutra” di Panini hanno tre, quattro, cinque, dieci o quindici sillabe, ma quando si traducono diventano quattro o cinque righe. D’altronde l’ultimo dei circa quattromila “sutra”, che si trovano nella grammatica di Panini, è composto semplicemente di due lettere ‘a’: “a, a”, che però tradotto, trasposto, ha un senso assai complesso. Questo fondamentale lavoro di Panini è stato continuato da altri grammatici.
DOMANDA: Professor Padoux che avviene dopo Panini in campo grammaticale?
Dopo Panini, la tradizione grammaticale in India è continuata in modo creativo praticamente fino ai giorni nostri. E’ importante d’altronde notare – anche se non è in stretto rapporto con ciò che stiamo dicendo – che la grammatica ha un ruolo assolutamente fondamentale nel pensiero tradizionale indiano. Il grande indianista francese Louis Renou ha detto: “aderire al pensiero indiano è anche e in primo luogo pensare da grammatico”. (Il ruolo che ha la grammatica nella vita intellettuale indù, è stato paragonato a quello delle matematiche o delle scienze della natura per noi occidentali).
Questa tradizione quindi è continuata sotto parecchi aspetti fino ai giorni nostri. Le discussioni dei “pandits”, dei letterati indiani di oggi, sono impregnate di argomenti grammaticali, e tutti i commenti che sono stati scritti in India nel corso dei secoli – l’India è una civiltà del commento – sono largamente fondati su argomenti grammaticali. Dunque la tradizione grammaticale ha continuato ad arricchirsi fino al XVII-XVIII secolo. Dopo di allora è diventata ripetitiva. Ma dopo Panini ha conosciuto almeno una tappa importante, segnata dal grammatico Patanjali, che non bisogna confondere con l’omonimo autore reale o immaginario degli “Yogasutra”.
Patanjali è l’autore del così detto “Grande Commento”, il “Mahabhasya”, spiegazione in parecchi volumi, straordinariamente completa, dei “sutra” della grammatica di Panini. E’ un’opera (estremamente dotta) che fa mostra di una sottigliezza dialettica estrema e di una precisione straordinaria nello studio dei fatti, dei fatti fonetici, nella ricerca sul funzionamento della lingua e delle diverse parti del discorso. La grammatica di Patanjali è un lavoro notevole, che ha coniato dei termini usati ancora oggi dalla linguistica moderna, come, in particolare, quello di “samdhi”, termine sanscrito per il “legamento” di due lettere, per l’armonia dunque.
Quindi la tradizione grammaticale è continuata con Patanjali e dopo di lui. Ma è una caratteristica propria dell’India che, alla tradizione grammaticale, si affianchi una tradizione di filosofia della grammatica, che è continuata anch’essa in modo prestigioso fin verso il XVII-XVIII secolo. A questa tradizione grammaticale appartiene in un periodo relativamente assai antico un autore importante che si chiama Bhartrhari. Bhartrhari, che fu anche poeta, è l’autore di un “Trattato della frase e della parola”, il “Vakyapadiya”, nel quale tratta dell’assoluto in quanto suono o parola, “sabdabrahman”, e tratta anche di grammatica. Si vede da quest’opera l’importanza che aveva la grammatica nello spirito di un brahmano a quell’epoca, cioè probabilmente nel V secolo d.C. Bhartrhari era un brahmano, un brahmano di religione sivaita,- il dio che adorava era il dio Siva- influenzato probabilmente dai “tantra”, testi a volte bizzarri, che gli sono più o meno anteriori. Bhartrhrari ha avuto in questo campo un ruolo molto importante e nel trattato del “Vakyapadiya” ha sottolineato l’importanza enorme della grammatica in questa prospettiva, di una scienza cioè che permette di riconoscere la verità che si trova nelle frasi, nelle parole e nei suoni del “Veda”. Così descriveva Bhartrhari la grammatica: la grammatica è la porta della salvezza, è il rimedio alle impurità della parola. Tra le scienze è quella che purifica e illumina tutte le altre. E se gli oggetti riposano sulle parole e tutti i generi di oggetti si fondano su generi di parole, analogamente, nel mondo, la scienza della grammatica è il supremo fondamento di tutte le scienze. E’ il primo gradino sulla scala della rivelazione,cioè sulla scala della salvezza. E’ la via regia e diritta di coloro che cercano la liberazione”. Certo è un grammatico che scrive tutto questo, eppure è notevole che in una certa cultura si sia arrivati a sostenere che la grammatica è una via alla salvezza (come dicevo poco fa, la grammatica si trova alla base di molti ragionamenti, gli argomenti grammaticali servono a fondare i discorsi cosmologici, metafisici, eccetera).
La teoria di questo brahmano sivaita Bhartrhari, è essenzialmente che l’assoluto o il “brahman”, come lo chiama la tradizione indiana, è un suono. Per lui l’assoluto è il “sabdabrahman”, il “brahman-suono”, e a partire da questo “brahman-suono”, che è la parola prima, la parola iniziale, il mondo è stato creato e si sono manifestate le cose. Il “brahman-suono” è l’uno che si divide in se stesso per dare luogo al molteplice ed è all’origine di tutto ciò che verrà dopo. Solo perchè il “brahman-suono” è origine di tutto, fondamento della parola e di tutto ciò che noi diciamo, quando ci scambiamo la parola, che le nostre parole hanno efficacia. Questo “brahman” è per Bhartrhari origine e sostegno dell’universo.
Se mi permette una citazione tratta sempre dal “Vakyapadiya”, le leggo queste tre stanze: “Il potere che risiede nelle parole è il solo supporto dell’universo. L’atto di parola è veramente a fondamento dell’universo. Quelli che conoscono la rivelazione divina sanno che l’universo è una trasformazione della parola. All’origine l’universo si è manifestato a partire unicamente dai versetti del “Veda”. E qui ritroviamo la posizione brahmanica per cui il “Veda” è la verità assoluta. Ogni modo di azione nel mondo si fonda sulla parola. Anche un bambino ne ha conoscenza grazie alle disposizioni acquisite nelle vite anteriori. Di suo ci mette i primi movimenti degli organi della parola, tutto quello che ci permette di esprimerci grazie al suono, all’emissione del respiro, al suo premere, uscendo, sui punti di articolazione.
Gli indiani in realtà hanno studiato attentamente il modo in cui consonanti e vocali sono pronunciate, mediante gli organi della fonazione, con la laringe e la bocca. La pressione sui punti di articolazione dei fonemi non si produrrebbe, se non fosse preceduta dall’impulso della parola. L’assoluto della parola è all’origine di ogni fatto linguistico e di tutto ciò che esiste. D’altra parte Bhartrhari non pensa soltanto che l’uomo può parlare perchè l’impulso della parola esiste in ciascuno allo stato potenziale ( e che se non avessimo questo impulso non potremmo parlare), ritiene anche – e questo è altrettanto importante dal punto di vista della filosofia della parola e della conoscenza- ritiene anche che il pensiero umano, il pensiero discorsivo, il pensiero intellettuale, razionale è interamente compenetrato dalla parola.
C’è un aforisma del “Vakyapadiya” assai noto, spesso ripetuto, in particolare dal grande filosofo sivaita Abhinavagupta e che è: “In questo mondo non c’è idea che non prenda la forma della parola”. L’uomo per Bhartrhari non può avere coscienza in definitiva che di ciò che può almeno implicitamente esprimere a parole. Secondo questo modo di intendere, nessuna esperienza è possibile che non sia legata alla parola. La parola è presente nel più profondo dell’uomo ed è perchè è già presente in lui che egli arriva ad esprimersi. Bhartrhari si è reso conto che l’uomo è veramente un essere di parola e che in fondo non pensa al di fuori della parola. Benchè non ci fosse ancora lo “yoga”, Bhartrhari si rendeva conto che ci sono delle tappe dell’evoluzione psichica in cui si pensa senza parola, e tuttavia per lui la parola come “sabdabrahman”, la parola non espressa in discorso è già sempre presente. Per concludere: in India non si esce dalla parola.
DOMANDA: In India quali sono le altre speculazioni di carattere mitico, cosmologico, magico, che hanno come base il linguaggio?
Per essere precisi, la speculazione indiana non ha preso solo questo indirizzo grammaticale, anche se non si è allontanata mai troppo dalla grammatica. Essa ha preso anche, e soprattutto a partire da un certo momento, una dimensione mitica, cosmica, spesso magica, che si ricollega d’altronde ai contenuti del “Veda”.
Questi sviluppi, speculativi e pratici – perchè non si tratta soltanto di speculare, ma anche di servirsi praticamente della parola – sono presenti soprattutto nel cosiddetto tantrismo. Il tantrismo è difficile da definire e non può essere definito qui, ma in generale possiamo dire che è una forma presa dall’induismo fin dai primi secoli dell’era cristiana, una forma di induismo in cui l’energia divina femminile, che è la parola, ha un ruolo molto importante. In sostanza i testi tantrici ci insegnano come conoscere quell’energia, come controllarla e usarla a fini pratici o a fini trascendenti, cioè per ottenere vantaggi materiali o sovrannaturali in generale e ottenere la salvezza mediante l’unione con la divinità. Il tantrismo è caratterizzato anche da un ritualismo straordinariamente complesso e da speciali tecniche di “yoga”, in cui si fa agire la “kundalini”, l’energia cosmica presente nel corpo. Questo è ciò che si trova nel tantrismo e le speculazioni sulla parola sono legate e si inquadrano in una visione generale del mondo, che considera l’universo compenetrato di energia, per cui tutti i piani del cosmo si corrispondono e nell’uomo si ritrovano le partizioni cosmiche. Una specie di cosmoteandria, per così dire, in cui prima vengono gli dei, presenti anche nell’uomo, poi le potenze cosmogoniche e infine l’uomo stesso.
DOMANDA: Ci può dire come si presenta la cosmogonia tantrica della parola?
Le cosmogonie tantriche della parola prendono evidentemente forme diverse secondo le sette, secondo i gruppi di cui c’è grande varietà in India. Bisogna soprattutto guardarsi dal ricondurre l’India ad uno schema unico, e mi affretto ad aggiungere che lo schema che io propongo non rappresenta l’India intera.
Ma posso già indicare tre modi di vedere le cose, che si ritrovano più o meno in tutti i testi tantrici e non solo in essi. Si può presentare la cosa in tre modi e gli sviluppi più notevoli si devono ad alcuni filosofi, in particolare ad Abhinavagupta del Kashmir e ai suoi discepoli, tra il X e il XIV secolo. Una prima presentazione è questa: a volte la cosmogonia della parola è intesa come una evoluzione del suono, se così si può dire. C’è il suono. La divinità è concepita come una vibrazione sonora straordinariamente sottile, che viene paragonata all’ultima vibrazione di una campana, che si amplifica, si condensa a poco a poco, diventa una goccia di energia sonora, raccolta in se stessa, che in seguito si divide e prende forme differenziate dal punto di vista della parola e dal punto di vista dell’energia.
Generalmente poi si vede intervenire a questo livello la famosa “kundalini”, l’energia cosmica, e si vede quest’energia cosmica prodursi assieme alla dea Kundalini, che crea il mondo. Ma al tempo stesso la “kundalini” è una forza legata al soffio vitale nell’uomo e nella donna, nell’essere umano. Questo fa sì che l’uomo acquisti la parola simultaneamente alla creazione del mondo. Si va da una prima vibrazione sonora, totalmente inaudibile, attraverso un movimento cosmico di discesa, a una risalita, se così si può dire, tramite il corpo umano, lungo la colonna vertebrale, la bocca e la lingua, fino all’atto di parola.
La parola è differenziata e il suo differenziarsi procede in parallelo con il movimento cosmogonico per cui il mondo appare. A volte si trova descritto in un altro modo, come passaggio attraverso i vari livelli della parola. C’è dapprima una parola trascendente e suprema, che è l’assoluto, e l’assoluto si identifica con la divinità, la quale detiene in sè il cosmo, che dovrà accedere alla manifestazione. Questa divinità, che è sempre già lì, che ha la parola presso di sè, a un certo punto comincia a intravedere ciò che è in lei, ciò che dovrà produrre: la parola profetica, la “pasyanti” e al suo interno una parola ripiegata su di sè, ancora inarticolata, una specie di “movimento verso” ciò che dovrà prodursi. Di qui si passa alla parola “intermedia” o “mediana”, in cui cominciano a formarsi le parole e gli oggetti che esse designano, le une e gli altri all’interno della mente umana – o all’interno della divinità, se si considera la cosa su un piano cosmogonico. Poi finalmente si arriva alla parola parlata, o, sul piano cosmico alla creazione del mondo, alla manifestazione dell’universo. Si può vedere in ciò come la discesa di una parola presente nell’assoluto e che ancora non parla verso una parola che si esprime in atti di parola, nomi e cose. Il rapporto d’altronde che c’è in India tra la parola e ciò che essa significa è sempre rapporto della parola, del segno con l’oggetto e non, come per noi rapporto del segno (di un concetto, ndt) con un’immagine acustica.
E infine – sistema singolare che non ha equivalenti fuori dell’India – si è talvolta descritta la creazione del mondo come risultante dell’apparizione progressiva dei quarantanove fonemi dell’alfabeto sanscrito, cominciando dal primo e finendo con l’ultimo. L’apparizione di ciascuno di quei fonemi corrisponde all’apparizione di un livello della creazione, fino ad arrivare alla terra, al livello infimo della creazione. Ciò che c’è di particolare nel sanscrito e che lo differenzia dalle nostre grammatiche è che le lettere del sanscrito a differenza di quelle dei nostri alfabeti, non sono in disordine, ma in ordine. Questo deve essere messo all’attivo di quei grammatici che tremila anni fa hanno riconosciuto che i fonemi non erano pronunciati tutti allo stesso modo, e li hanno classificati procedendo dal tipo gutturale al tipo labiale. Le consonanti si trovano dunque descritte nell’ordine della loro articolazione e ugualmente le vocali cominciano con “a”, “i” e “u”, che formano anche nella fonologia moderna la triade fondamentale dei suoni vocalici.
Le vocali appaiono dapprima nella divinità suprema e vi rappresentano le diverse tappe di formazione del mondo che dovrà apparire, le energie che lo faranno apparire, a volte con un movimento (di riflessione), un ripiegamento su di sè. Poi avviene la creazione e con le consonanti il mondo appare. Tutto ciò si svolge secondo un rigoroso ordine grammaticale.
La creazione è integralmente un fatto grammaticale. Se non ci fosse la grammatica non sarebbe la stessa. D’altronde gli Indiani hanno un dio, il dio Hanuman, il dio scimmia, che è rappresentato come un dio grammatico. Hanuman era un grammatico e le sue immagini, che si vedono a volte dipinte sulle mura dei templi, mostrano una grande figura di scimmia, completamente riempita di lettere . E’ piena di lettere perchè è una scimmia grammatica.
DOMANDA: In questo contesto segnato dal tantrismo, quali sono gli usi della parola?
Il tantrismo non solo ha molto speculato e ha inventato sistemi concernenti la parola, ma ha sviluppato anche metodi per la sua utilizzazione, perchè dopo tutto, se la parola è una forza, una forza efficace, è importante servirsene per conseguire dei risultati. Una cospicua speculazione tantrica sulla parola ha preso quindi la forma del “Mantrasastra” dell’ “insegnamento dei “mantra” ed è un fatto così rilevante che “Mantrasastra” e tantrismo sono considerati in un certo senso identici.
Il “Mantrasastra” è dunque l’ “insegnamento dei “mantra””. Che cosa sono i “mantra”? I “mantra” sono formule rituali stereotipe, che hanno questa caratteristica: si suppone che siano investite di tutta l’energia della parola e che possano essere usate per conseguire dei risultati, non importa se di ordine mondano o di ordine trascendente: ci si serve dei “mantra” per sottomettere un nemico, per divenire invisibili, o per ottenere il dono dell’ubiquità. Ci si serve di un “mantra” per elevarsi a un superiore grado di coscienza e conseguire la fusione con la divinità.
Il “mantra” è veramente ciò che racchiude in sè tutta la forza della parola. E’ dunque veramente la forma, la pratica più importante sviluppata dal tantrismo appunto. Bisogna aggiungere, per ciò che concerne il “mantra”, che ogni divinità – e sappiamo che l’induismo ne comporta decine di migliaia- ha un “mantra”, e la forza della divinità non è raccolta in realtà nella divinità stessa, ma nel suo “mantra”, perchè il “mantra” è l’essenza della divinità, e come ho detto poco fa la parola è ciò che crea il mondo, è l’essenza dell’intera realtà.
I “mantra” sono veramente ciò che racchiude la forza, la potenza della divinità. Perciò, sia che si voglia evocare una divinità, sia che si voglia farla intervenire in nostro favore, si deve usare il suo “mantra”. La forza, l’energia del “mantra”, che il “mantrin”, colui che si serve del “mantra” può usare, si trova particolarmente in quell’elemento del “mantra” che è il “bindu”. Molti “mantra”, soprattutto quelli monosillabici, terminano con un elemento che si translittera nella nostre lingue con una “n” con un punto sotto. E’ il segno della risonanza nasale. Terminano quindi con una risonanza nasale. Là si trova il “bindu”, là si trova la forza. La forza del “bindu” è veramente ciò che permette al “mantra” di agire.
Vorrei citare un passo notevole di un testo tantrico antico, il “Tantrasambhava”, che dice: “come un rapace che, planando nell’aria, scorge una preda e con l’innato impeto le piomba addosso e la afferra, così il re degli “yogin” (cioè lo “yogin” che utilizza il “mantra”), scagliando la goccia di energia fonica, il “bindu”, contenuto nel “mantra”, – e con essa il pensiero come una freccia che scocca dall’arco teso – si rivolge alla divinità”. Tale è la spinta ascensionale della parola mantrica. Il “mantra” agisce come una freccia che lo “yogin” lancia verso il bersaglio che intende colpire e che spesso colpisce, realizzando il suo scopo.
A proposito dei “mantra” si sono poste diverse questioni. In particolare ci si è chiesti se i “mantra” avessero un senso. Molti, in mancanza di un senso letterale, hanno almeno un uso e agiscono con la forma loro propria. Il “mantra” agisce nella forma sua propria. Bisogna pronunciarlo conformemente alle regole, nel momento prescritto e allora esso agisce non ex opere operato – come è stato detto in Occidente, in campo cattolico -, non opera per una forza meccanica, ma perchè è imbevuto della forza della parola che è presente in lui e come una freccia può essere lanciato in direzione di ciò che si vuole ottenere: in direzione della divinità, se ci si vuol fondere con lei, in un’altra direzione, se si vuole uccidere qualcuno o ottenere comunque un risultato concreto.
Colui che usa il “mantra” non solo deve saperlo usare, ma per usarlo deve insomma identificarsi con il “mantra” e quando lancia il “mantra” verso il suo bersaglio, deve lanciare insieme anche se stesso. Il “mantra” non opera che in rapporto con il dinamismo psichico, con tutta la sfera mentale di colui che lo usa. Certi testi tantrici d’altronde, il “Sivasutra” in particolare – importante testo sivaita indù, che data probabilmente dall’VIII secolo e che serviva di base alla maggior parte delle scuole sivaite del Kashmir (che non si trovavano tutte nel Kashmir, ma erano solo collegate con quella provincia) – presentano il “mantra” come coscienza. Il “mantra” è coscienza.
Questo vuol dire che la sua natura profonda è coscienziale, divina, ma che al tempo stesso il “mantra” deve essere preso per sè, interiorizzato, realizzato da colui che se ne serve, il “mantra” è la coscienza di colui che se ne serve nella misura in cui questi tenta di unirsi e di fondersi con la divinità. E’ tale la potenza del “mantra”, che pervade tutta l’attività psichica di colui che lo pratica, sostituendo alla sua coscienza, alla coscienza quotidiana, banale, discorsiva, dispersa, una coscienza raccolta in se stessa, intensiva e diretta tutta quanta verso lo scopo che si prefigge, sia pratico – perchè anche questo è ammesso -, sia, preferibilmente, trascendente, cioè l’unione con la divinità e la salvezza. Noi diremmo la salvezza eterna. Il “mantra” a questo serve.
DOMANDA: Professore, Lei ha citato Abhinavagupta. Chi è Abhinavagupta?
Abhinavagupta è un pensatore estremamente importante e tuttavia poco noto a noi occidentali. Fu uno spirito eclettico, di vasti interessi. Visse nel Kashmir a cavallo tra il X e l’XI secolo. Lo possiamo affermare con certezza perchè il caso vuole che si conosca la data precisa di una delle sue opere. E’ uno dei principali rappresentanti di quel pensiero indù in lingua sanscrita, che si è sviluppato nella valle del Kashmir all’incirca tra l’VIII e il XIV secolo. Ha questo di particolare: non è stato solo un filosofo, un metafisico, non ha scritto solo un grande trattato molto importante su problemi di metafisica, ma ha scritto anche di estetica: a lui si deve il maggiore trattato di estetica in sanscrito. Fu inoltre iniziato alle pratiche tantriche, nel senso che le dottrine tantriche da lui esposte le aveva effettivamente vissute, sperimentate con pratiche “yoga”, con pratiche d’ordine rituale. Era perciò un essere completo e sotto molti aspetti eccezionale. Il suo pensiero è difficile da seguire, ma è di grande valore e di grande interesse.
DOMANDA: Ci può esporre una dottrina essenziale di Abhinavagupta, quella dei quattro piani della parola?
Uno dei punti, una delle teorie più importanti, sviluppate da Abhinavagupta, è quella dei quattro piani o quattro livelli della parola. E’ un’antica teoria, di cui non si conosce esattamente l’origine, ma che si trova già, limitata a tre livelli soltanto, come vedremo fra poco, presso un filosofo della grammatica (che è stato anche un grande pensatore indiano), che si chiama Bhartrhari. Questo sistema dei quattro piani della parola è interessante, perchè fornisce al tempo stesso una cosmogenesi e una psicogenesi.
Una cosmogenesi perchè mostra, indica, come il cosmo, l’universo si manifesta attraverso i successivi piani della parola e una psicogenesi, perchè quei piani della parola si trovano al tempo stesso nell’uomo e insieme con i differenti piani della parola si sviluppa nell’uomo una fenomenologia della coscienza, che va da una coscienza primordiale profonda, che potrebbe essere detta “intuizione mistica”, fino al quotidiano atto di parola. E’ una teoria interessante perchè serve anche ad Abhinavagupta a giustificare la conoscenza umana, conoscenza che è valida solo in quanto si fonda sull’assoluto. Nella teoria di Abhinavagupta la psicogenesi riproduce la cosmogenesi, l’uomo rivive gli eventi cosmici, ma va da sè che l’ordine genetico è inverso. La cosmogenesi, in cui la divinità si comporta come uno “yogin”, come un uomo o un superuomo, insomma, è stata ricostruita sul modello dell’esperienza che gli uomini fanno in se stessi dello sviluppo della parola e del pensiero espliciti.
DOMANDA: Per tornare alla teoria dei quattro piani della parola, ce li può enumerare?
La teoria dei quattro piani della parola, formulata da Abhinavagupta, è stata ripresa dai suoi epigoni, si trova in parecchi discepoli, anche fuori del Kashmir, si è diffusa largamente nell’India meridionale e si incontra praticamente in tutta quanta l’India. I quattro piani della parola sono: il piano della “parola suprema”, “paravac”. In sanscrito “para” vuol dire sommo, supremo, “vac” è la parola, quindi: la “parola suprema”. Il secondo piano è quello della “pasyanti”, della “parola veggente”, della parola profetica. Il terzo è quello del(la) “madhyama”, termine sanscrito che vuol dire “media”, “intermedia”. E infine l’ultimo piano è quello di “vaikhari”, termine che possiamo tradurre “esibito”, “grossolano”, come si preferisce e che designa la parola così come esiste a livello mondano, nel linguaggio empirico. E poichè la parola ha come effetto di manifestare l’universo, l’universo che esiste in germe nella divinità sul piano più elevato, attraverso questi differenti piani, arriva all’esistenza empirica, concreta, come la vediamo intorno a noi, al livello più basso della parola, al livello di “vaikhari”.
DOMANDA: Ci può descrivere il primo piano della parola?
Il primo piano della parola non è un vero e proprio piano della parola, ma qualcosa che domina l’insieme della parola. E’ un piano supremo. E’ il piano, a partire dal quale, si sviluppano tutti gli altri. Il piano supremo della parola, “paravac”, è in realtà la divinità stessa, che in quel sistema è definita come coscienza. La divinità è coscienza, è una coscienza luminosa, è al tempo stesso luce e coscienza, che, del resto, in quel sistema spesso vengono designate dalla stessa parola, ma soprattutto è una coscienza che prende coscienza di sè. Questo punto è importante perchè la differenza tra questo sistema e il “vedanta” di Sankara è che qui la coscienza è animata dalla coscienza di sè e questa presa di coscienza di sè è resa possibile dalla parola.
La parola è il modo in cui la coscienza prende coscienza di sè e costituisce il punto di partenza di tutta la serie delle manifestazioni cosmiche. La manifestazione del cosmo non è possibile se non in quanto il cosmo si trova già nella parola prima. Nei sistemi emanazionisti, non esiste se non ciò che esiste già nel principio. Ciò che non è nel principio non può esistere dopo. Dunque l’interesse precipuo della parola suprema è nel fornire il punto di partenza. La “paravac” non costituisce soltanto l’origine del cosmo, ma ne è pure il sostrato. Solo in quanto la parola suprema è immanente nel mondo, il mondo può esistere. Voglio citare Abhinavagupta: “Tutto, pietre, alberi, uccelli, uomini, dei, dèmoni, eccetera, non sono nella loro essenza nient’altro che la venerabile parola suprema, nella forma del supremo Signore, della divinità presente in tutte le cose. Per mezzo della parola suprema la divinità è presente in tutte le cose”. D’altra parte è in virtù della parola che la coscienza prende coscienza di sè e questo è l’inizio di tutte le cose.
Citerò ancora un passo di Abhinavagupta, perchè mostra chiaramente il ruolo della parola suprema in seno alla divinità. Egli dice: “La presa di coscienza riflessiva di sè, o se si preferisce l’attenzione che la coscienza divina rivolge a se stessa è essenzialmente parola, è enunciazione interiore”. Questa parola, precisa Abhinavagupta, non ha niente a che vedere con il linguaggio. E’ una specie di estasi o di meraviglia indifferenziata, paragonabile a un interiore cenno del capo. E’ lei che dà vita al linguaggio che si manifesta successivamente, perchè è il substrato degli atti di pensiero, legati alla parola ordinaria. E’ chiamata “suprema” per la sua pienezza, perciò si chiama “para” e “parola”, “vac”, perchè “dice”- in sanscrito “vakti” -, “dice” l’universo, enuncia l’universo, e in forza di questa presa di coscienza di sè lo fa apparire. Questo è il doppio aspetto della parola.
La parola suprema, substrato dell’universo e sua scaturigine, è al tempo stesso sostrato e origine del linguaggio. Perciò nella “parola suprema” si trova il linguaggio nel suo stato germinativo e iniziale. Essa è a volte paragonata non tanto al linguaggio quanto ad un interiore cenno del capo. L’espressione può sembrare curiosa, ma non designa affatto un gesto che precederebbe la parola. Ci sono teorie, specie in Occidente, secondo cui nell’uomo il linguaggio nasce dai gesti. Non è questo che intende Abhinavagupta.
Con cenno interiore del capo vuol dire che in fondo, nella parte più interna della parola suprema, avviene qualcosa che non è l’atto di parola, ma il semplice movimento interiore della parola, la pura tensione verso ciò che vuole significare che è propria della parola “in statu nascendi”, che sta per nascere, che non è ancora nata. Si può supporre che questa concezione di Abhinavagupta si ricolleghi con le esperienze di certi “yogin” in meditazione profonda, in uno stato in cui il pensiero si ferma, in cui è sospeso ogni atto di parola, ma in cui la parola è pur sempre presente, perchè l’uomo è essenzialmente un essere di parola. C’è un’intenzione, un tropismo della parola, una volontà di espressione e tuttavia non si parla.
D’altra parte la “parola suprema” ha per Abhinavagupta un altro interesse, in quanto che essa fonda l’atto di parola e in questo modo fonda anche tutti gli usi della parola e in particolare il suo uso conoscitivo. In effetti per un filosofo come Abhinavagupta, che crede nell’esistenza di un assoluto, per cui tutto ciò che è relativo si fonda in definitiva sull’assoluto che è “dhvani”, solo l’assoluto può fondare veramente qualcosa. Il relativo non può fondare il relativo. Egli dice che se si tentasse di spiegare il senso di una parola con altre parole bisognerebbe ricorrere poi ad altre parole, per spiegare il senso di quelle, e così si avrebbe un regresso all’infinito senza arrivare ad un punto di partenza. Tutto è già nell’inizio.
Qui egli si ricollega con un’idea che si trova nei filosofi buddhisti, nei logici buddhisti in particolare, che descrivono così il funzionamento del pensiero umano: quando c’è apprensione di un oggetto, quando ci viene un pensiero, prima di cogliere l’oggetto nella sua complessa totalità, abbiamo una specie di intuizione globale, non differenziata, non discorsiva, una specie di assoluto monolitico, e questo è il punto di partenza del pensiero discorsivo.Allo stesso modo, sul piano della genesi del pensiero umano, ci sarebbe un primo piano non discorsivo, quello della “parola suprema”, dal quale tutto il resto procede.
DOMANDA: Da questo primo piano derivano dunque gli altri piani della parola?
In effetti è a partire dalla “parola suprema” che appaiono gli altri piani, che sono i livelli della progressiva apparizione del pensiero discorsivo e del linguaggio e, sul piano cosmico,dell’apparizione del mondo. In effetti, a partire da una suprema coscienza prima, in cui tutto è presente, senza che nulla ancora sia espresso, si determina un secondo momento in cui la coscienza divina comincia a cogliere ciò che sta per manifestarsi e, nel caso dell’uomo, la coscienza umana (comincia a cogliere) il proprio voler-dire. Essa “vede” e perciò è chiamata “parola veggente”. Al livello della parola veggente si sente, dice Abhinavagupta, come una specie di mormorio interiore. Non c’è qui ancora veramente discorso. La parola, secondo un’espressione che risale a prima di Abhinavagupta, che risale a Bhartrhari non è ancora dispiegata, è ripiegata su di sè, e nondimeno tutti i suoi elementi sono presenti, sia pure non sviluppati. C’è una specie di intuizione di ciò che accadrà, c’è la volontà di creare, la volontà di manifestare.
Abhinavagupta ha paragonato il piano della parola veggente a ciò che accade a un vasaio che voglia fare un vaso. L’esempio del vaso è un esempio classico nella filosofia indù. Un vasaio che voglia fare un vaso, ancor prima di sapere esattamente che vaso farà, dice a se stesso: vorrei fare un vaso. Questa specie di intenzione prima, che tende a qualcosa, è il livello della “pasyanti”.
Abhinavagupta descrive anche in un altro modo questo livello della “pasyanti”, questo aspetto di linguaggio non sviluppato, che ha la “pasyanti”, dicendo che succede come quando un uomo fa qualcosa precipitosamente, o legge un libro troppo in fretta. Gli urge talmente quello che fa, che non può nemmeno dire quello che sta facendo. Lo direbbe, solo che ne avesse il tempo. Lo sa perfettamente, e tuttavia non può dirlo. E’ preso in un “movimento-verso” e la “pasyanti” è questo movimento verso ciò che accadrà dopo, in cui nulla si è ancora prodotto, ma tutti gli sviluppi sono possibili e cominciano a manifestarsi.
Si intende anche- è un punto su cui si insiste- che la “pasyanti” è tutta quanta dal lato della soggettività, è veramente la coscienza stessa. Non c’è ancora oggettività, il vaso non è ancora stato prodotto, quel che l’uomo vuol fare non è ancora percepibile, esiste soltanto nella sua coscienza o nella coscienza del dio, perchè è al tempo stesso un’aspirazione cosmica, che questa volontà di creare cominci a spuntare, a manifestarsi.
INTERVISTATORE: E Abhinavagupta passa poi al terzo livello…
Appunto, si passa al terzo livello, che si chiama in sanscrito “madhyama”, che si può tradurre (parola) “media” o “intermedia”, così era chiamata anche nel sistema di Bhartrhari, dove non c’erano che tre piani, perchè era il piano mediano, tra gli altri due, medio o intermedio tra la “pasyanti” da una parte e la “vaikhari” dall’altra. Dunque è nel mezzo.
Con la (parola) “media” o se si preferisce “mediana”, si esce dalla percezione globale, non differenziata del linguaggio, che è la caratteristica della “pasyanti”, per passare a questo stadio ulteriore che è il “madhyama”, in cui il linguaggio esiste e si manifesta con la divisione, come si dice in sanscrito, in suoni, parole e frasi. Tutti gli elementi che costituiscono il linguaggio sono presenti. Ma poiché si tratta al tempo stesso di un sistema di creazione dell’universo, di una cosmogonia, è presente anche tutto ciò che le parole, le frasi e il linguaggio designano. Ci sono a pari titolo le parole e gli oggetti. Ma tutto ciò non esiste ancora che sul piano mentale, nel senso che sia le parole e le frasi sia gli oggetti che esse designano non hanno esistenza empirica, sono puramente mentali. Si è ancora nell’interiorità pura. Nel caso della divinità è il momento in cui la divinità si prepara a creare, nel caso dell’uomo è il momento in cui si comincia a formare il linguaggio.
Da questo punto di vista è un piano estremamente importante, perchè è al livello della parola media che si elabora veramente il linguaggio, è a questo livello che si stabilisce il rapporto tra il linguaggio e ciò che esso significa, perchè se ci sono dei segni ci devono essere i relativi significati. Che siano significati astratti o oggetti, è a questo livello della parola che si stabilisce la loro corrispondenza (con i segni), corrispondenza importante in questo sistema, perchè gli oggetti, così come la parola sono mentali. E’ perchè gli oggetti o l’oggettività e la parola sono entrambi mentali, al livello del “madhyama”, che possono sovrapporsi esattamente, dice Abhinavagupta. E’ come sovrapporre due pezzi di tessuto della stessa misura: se non hanno la stessa forma, la stessa misura, non si possono sovrapporre. E’ grazie a questa sovrapposizione che i bambini imparano a parlare, imparano il significato delle parole.
Nella realtà quotidiana abbiamo da una parte le parole, che sono elementi mentali o puramente vocali, e dall’altra gli oggetti. Come possono coincidere gli oggetti, che sono concreti, con le parole che non lo sono? Le parole e gli oggetti possono coincidere perchè si sono incontrati sul livello medio. E’ questo che fonda la possibilità per gli uomini di parlare, di parlare in maniera valida, perchè le due serie coincidono e al tempo stesso permette ai bambini di arrivare a capire quello che succede intorno a loro e a far coincidere le parole e le cose. Questo è essenzialmente il ruolo della (parola) “media”. Si potrebbe vedere anche come svolge la sua funzione sul piano cosmico, dove pure interviene mediante l’uso delle formule rituali, ma credo che il suo ruolo più importante lo ha sul piano della psicogenesi, nel momento in cui si passa da una coscienza soggettiva, in cui tutto è presente, ma non ancora formato, a un secondo livello, in cui si cominciano a intravedere le cose, e poi a un terzo livello in cui le cose e il modo in cui vengono dette appaiono, si fanno presenti, ma solo nell’interiorità dell’uomo: non sono ancora manifeste, ma solo sul punto di manifestarsi. A quel punto comincia veramente il movimento del linguaggio.
Noi occidentali potremmo essere tentati di paragonare questi sviluppi con le nozioni della linguistica moderna, e poichè l’oggetto è mentale, di vedervi l’immagine acustica che corrisponde al significante in Saussure. Ma il confronto sarebbe pericoloso, perchè per gli indù il rapporto del linguaggio, con ciò che significa è in realtà rapporto del linguaggio con l’oggetto. Abbiamo a che fare nondimeno con uno stadio mentale e questo è interessante e niente affatto illogico. E’ un sistema che tiene e che anche dal nostro punto di vista è fornito di una sua validità.
DOMANDA: E così si passa al quarto livello?
E così si passa al quarto livello, dal precedente piano della “madhyama”, dove gli oggetti non esistevano ancora, ma che era il piano o il momento in cui per riprendere l’esempio del vasaio, si può dire: questo è un vaso. “Questo”, la parola, “è un vaso”, è un oggetto. Ebbene, all’ultimo livello, quello della “vaikhari”, “ciò che si mostra”, a questo punto abbiamo veramente le parole e gli oggetti. Il senso di questa parola “vaikhari” in sanscrito non è stata mai veramente spiegata, o è stata spiegata in vari modi. Ma in definitiva, se si fa una ricerca etimologica su questa parola, si trova che essa designa essenzialmente qualcosa che è mostrato, concreto, che è là, che si può vedere e toccare. E’ la parola come ce la scambiamo gli uni con gli altri. Ma è importante sottolineare subito e tener presente che i livelli della parola sono inseparabili gli uni dagli altri. Quando parliamo in “vaikhari”, il linguaggio esiste in “vaikhari”, ma se il linguaggio funziona in “vaikhari” è perchè il linguaggio degli oggetti si è già strutturato in “madhyama” ed è stato preceduto dalla visione in “pasyanti” e tutti e tre i piani poggiano sulla “parola suprema”, “paravac”. Tutto riposa eternamente sulla “parola suprema” e ciascun piano è inseparabile da qualsiasi altro. E la “vaikhari” stessa, che è il linguaggio quotidiano e che nei testi che noi leggiamo è evidentemente il sanscrito può estendersi a lingue diverse dal sanscrito. Questo linguaggio poggia su un fondamento assoluto, da cui trae il suo valore. Inoltre la diversità della parola in seno alla “vaikhari”riposa sull’unità stessa della “vaikhari”. Questa forma della parola ha una sua unità in virtù della quale le parole ripartite come grani di sabbia e distinte le une dalle altre, fanno ciò nonostante parte di uno stesso insieme ed è a questo che devono la loro coerenza. Dato che tutto nasce dalla parola, nel momento stesso in cui appaiono le parole del linguaggio quotidiano, appare tutto quanto il linguaggio e se si vede la cosa sul piano cosmico, anche tutto ciò che nasce dal linguaggio, mentre sul piano umano si tratta semplicemente degli uomini che parlano e degli oggetti che li circondano. Ma sul piano cosmico è il momento in cui appare l’insieme della realtà concreta, in cui appare il mondo o piuttosto, come preferiscono dire gli Indiani, i mondi, gli universi. In definitiva non c’è molto da dire di “vaikhari” proprio perchè è il linguaggio quotidiano. In questo sistema, in cui tutto è presente all’origine, la parola prima, la “parola suprema” è la più importante. Bisogna pensare sempre a questo raccordo tra i differenti piani della parola, per cui la parola funziona sia nel senso della psicogenesi che nel senso della cosmogenesi e il livello più basso è inseparabile dalla “parola suprema”. L’uomo può pensare, può avere una conoscenza valida, perchè sono presenti in lui tutti i livelli della parola, dalla “parola suprema” fino a quella che parla attualmente in un movimento continuo ed incessante.
C’è per questo sistema, non soltanto per il mondo e nel mondo, ma anche per l’uomo, una base assoluta ed intemporale. Noi abbiamo tutti un fondo intemporale, perchè la temporalità non appare che al livello della “madhyama”. Con i due primi livelli siamo fuori del tempo, nell’eterno e nell’assoluto, che sono in noi da sempre. E’ interessante perchè vuol dire che nell’uomo è custodito un elemento dell’assoluto. Nella prospettiva indù questo è interpretato nel senso che questa cosmogenesi e soprattutto questa psicogenesi sono dei sistemi ciclici discendenti, ma dal momento che si può andare dall’alto al basso, si può anche risalire dal basso in alto ed è proprio perchè la parola empirica riposa sulla parola di livello superiore che ci si può servire della parola quotidiana per risalire verso l’assoluto.
Se ci sono al livello della parola quotidiana formule rituali di valore più o meno magico che si chiamano “mantra”, fatti di parole ordinarie, che aiutano a risalire verso l’assoluto, è perchè hanno in sè l’assoluto. Anche altre forme della parola, che ci possono sembrare meno estranee, come la poesia per esempio – la poesia è una forma della parola che non appartiene all’ambito del linguaggio quotidiano – ci possono mettere sulla via dell’assoluto. E allo stesso modo in questo sistema si dice talvolta che se si riesce a soffermarsi nell’interstizio che separa due parole si perviene all’assoluto, perchè le parole sono “vaikhari”, ma tra le parole c’è “para”, l’assoluto. Quindi se si resta immobili tra due parole, si arresta il pensiero, si sale verso l’assoluto. Così funziona questo sistema e mi sembra un motivo non secondario del suo interesse.