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    Peccato originale e mito della Vacca Celeste

    Le vicende legate al Peccato Originale – descritte nelle Sacre Scritture del Vecchio Testamento – sono sin troppo note per esser oggetto di esposizione dettagliata, mi limiterò pertanto a riassumerne soltanto gli aspetti più salienti e significativi. Adamo ed Eva, i primi rappresentanti del genere umano, ab initio vissero in perfetta armonia e “felicità” nel Paradiso Terrestre sino al giorno in cui Eva, ingannata dal serpente, mangiò la mela proibita inducendo a ciò anche Adamo. Entrambi commisero così peccato “originale”, ovvero la prima colpa conseguente alla trasgressione dell’uomo, il che significa altresì “la prima volta” che le forze del male prevalsero sul bene. Per questa disobbedienza Dio punì entrambi scacciandoli dall’Eden e relegandoli sulla terra, ove dovettero – unitamente a tutti i discendenti del genere umano – espiare il peccato originale. Da quella “prima volta” in cui si manifestò il male vincendo sul bene l’umanità è stata partecipe di un susseguirsi di lotte tra queste due forze, con alterne vicende di prevalenza dell’una sull’altra.

    Una molteplicità di tradizioni religiose sia dei popoli primitivi che delle società evolute sino ai giorni nostri si basa infatti su vicende ispirate all’eterna lotta tra il male e il bene. Il concetto di Paradiso Terrestre implica una visione di esistenza ove il genere umano de facto si associava al Regno di Dio.

    In pratica non esisteva quella separazione – venutasi a creare all’indomani del peccato originale – tra il Regno dei Cieli e la vita sulla Terra. Questo dualismo tra mondo sensibile ed extrasensibile, tra immanentismo e metafisica – attenendociad unguam alle Sacre Scritture – sarebbe pertanto l’exitus di una conflittualità venutasi a creare per colpa dell’uomo essendo stato il mondo come accennato, nella sua intierezza ab initio, un’unica indistinta entità permeata esclusivamente dalla sola forza del “bene”.

    Ciò premesso mi vorrei soffermare un attimo su questo concetto perché, da attenta analisi, emerge che la weltanschaaung della Bibbia non si discosta di molto, anzi sotto certi aspetti collima, con il contenuto – di matrice egizia – del cosiddetto “Mito della Vacca Celeste”, alias “La Distruzione del Genere Umano” [1]. Ciò mi induce pertanto nel ritenere, per quanto dirò nel prosieguo, che le ben note vicende del Peccato Originale contenute nelle Sacre Scritture possano trarre origine, seppur in parte, dai racconti mitologici esistenti nella tradizione egizia risalenti ad epoca certamente anteriore alla stesura del Vecchio Testamento. Del Mito della Vacca Celeste, come si vedrà, se ne riscontrano infatti delle tracce nei Testi delle Piramidi risalenti al periodo cosiddetto dell’Antico Regno (II – III millennio a.C.).

    La materiale stesura del Vecchio Testamento, secondo il prevalente orientamento dei biblisti, dovrebbe collocarsi intorno al V-VI secolo a.C., più o meno all’incirca all’epoca delle deportazioni in Terra di Babilonia di una cospicua parte del popolo d’Israele. Pur tenendo conto che il contenuto delle Sacre Scritture è verosimilmente il reddere ad rationem di tradizioni orali risalenti ad epoche di molto anteriori, resta però indubitabile, per tutta una serie di considerazioni di ordine storico, che le stesse non possono essere collocabili ad epoche coeve o addirittura anteriori ai Testi delle Piramidi. Il “Mito della Vacca Celeste” [2] narra la rivoluzione degli uomini contro il dio supremo Ra, la loro punizione per mano della dea Hathor [3] (nella forma vendicativa di Sekhmeth) ed infine la sublimazione, del genere umano per opera sempre di questa divinità femminile (tornata Hathor[4]) con la definitiva separazione tra uomini e dei, tra il mondo extrasensibile di Amun ed il mondo sensibile di Ra. In sintesi si può affermare che il racconto si articola fondamentalmente in tre fasi: nella prima si assiste alla ribellione degli uomini al dio Ra, nella seconda lo sterminio pressoché totale da parte della dea Hathor del genere umano e la successiva redenzione della medesima a simbolo dell’amore e del bene in genere ed infine nella terza fase si assiste alla susseguente separazione degli uomini dal pantheon egizio. Questo testo è stato rinvenuto in cinque tombe del Nuovo Regno, in quella di Tutankhamon XVIII Din. (1° ritrovamento) tomba KV 62, Sethi I t. KV 17, Ramsete II t. KV 7, Ramsete III t. KV 11 e Ramsete VI t. KV 9, tutte della XIX Dinastia. Esiste poi un frammento in pietra calcarea rinvenuto in una tomba di epoca ramesside attualmente al Museo Calvet di Avignone (Francia). La origine del testo è certamente anteriore alla XVIII Dinastia. Tracce del Mito della Vacca Celeste si trovano infatti già nei Testi delle Piramidi risalenti al Vecchio Regno V-VI Din. (cfr. Pyr. 388-389-729-1370-1566[5]), ma trattasi solo di piccoli frammenti [6].

    Una delle particolarità più importanti è il ruolo che assume in questa storia mitologica nella prima parte del racconto la figura femminile, impersonata dalla dea Hathor (Afrodite per i greci). Divinità che subisce praticamente per volere divino una redenzione che la condurrà dal male al bene, in sostanza da entità malvagia e vendicativa a dea dell’amore e della fratellanza. Divinità appellata “Signora del Sicomoro del Sud” a Menti, “Signora dell’Occidente” (i.e. del Regno dei Morti), “Signora del Paese di Punt (Corno d’Africa), del Sinai e di Byblos”, Signora del Turchese (mefekat), la Graziosa (Jmayt), Signora della Vulva, invocata “perché procurasse un focolare alla vergine ed uno sposo alla vedova”[7].

    Un ruolo primario e fondamentale attribuito alla donna, fulcro ed elemento stabilizzatore tendente al bene definitivo dell’umanità. Sebbene venerata in ogni epoca dagli antichi egizi, si rammenta qui in modo particolare il fortissimo culto che nutrì la regina Hatshepsut (XVIII Din.) per questa divinità[8]. In suo onore e venerazione questa sovrana eresse e/o ristrutturò diversi centri di culto. In particolare ricordo la Cappella annessa al Geser Geseru (Deir el Bahari), la grotta intagliata in fondo alla Valle delle Regine che evidenzia sulla sinistra la testa della Vacca Divina e sulla destra l’ippopotamo di Thueris (patrona delle nascite), il Tempio di Serabit el-Khadim (Sinai), lo Speos Artemidos alla dea Hathor-Pakhet [9].

    Una esegesi di questa mitica vicenda, per ciò che concerne il tema da me proposto e cioè la probabile parziale assonanza e derivazione del racconto del Peccato Originale dal Mito della Vacca Celeste, risiede anzitutto nella parte iniziale della vicenda. Uomini e dei convivevano in assoluta armonia, non esisteva separazione tra il pantheon e l’umanità. Non solo, ma gli uomini vivevano direi in simbiosi con gli dei ed in primis con Ra essendovi assenza totale della forza del male. Nel tempo però questa idilliaca unione fu rotta dal genere umano che si rivoltò contro il dio Ra considerato oramai troppo vecchio e quindi non più idoneo a reggere i destini del mondo. Incominciò a manifestarsi e prevalere la forza del male che dette così luogo a ciò che è d’uso soprattutto in seno alle religioni monoteiste chiamare “peccato”.

    Gli uomini peccarono non solo nei confronti del dio supremo Ra ma in pratica verso l’intero pantheon. Ra venne a conoscenza di questa congiura e convocò subito il suo “entourage” di divinità affinché, in maniera del tutto democratica il consesso divino potesse esprimere un suo giudizio in proposito[10]. Gli dei decisero che l’Umanità dovesse esser duramente punita per quest’affronto perpetrato nei confronti di Ra. Così Ra scagliò contro gli uomini la dea Hathor, sotto le vesti del suo Occhio Magico[11], con lo scopo di distruggere tutto il genere umano. Durante la fase di sterminio e prima che tale si completasse in toto, Ra fu preso da compassione e forse rimorso [12] per questo eccidio e pertanto escogitò uno stratagemma onde fermare lo stesso e salvare quindi il genere umano dalla definitiva distruzione. Ra perfezionò quindi un piano consistente nel far mischiare dell’ematite prelevata a Elefantina con della birra.

    Questa bevanda fu data alla feroce Sekhmet, ebbra del sangue degli uomini, la quale scambiando la bevanda soporifera di colore rosso per il sangue ne bevve il liquido addormentandosi. Così il genere umano fu salvato e Sekhmet, tornata Hathor divenne la dea della Pace, dell’Amore. Nella parte conclusiva del racconto mitico Ra, dopo questi eventi, decise però di lasciare il mondo abitato dagli uomini facendosi condurre in cielo dalla dea Nut. Avvenne così, per colpa degli uomini, la separazione tra cielo e terra, direi tra fisica e metafisica. L’umanità a tal punto avrebbe vissuto sulla terra da sola, non più in unione al divino, elemento questo che fino ad allora garantiva agli uomini una vità serena e indenne dal male. L’Umanità avrebbe oramai sofferto tutte le avversità che offriva il mondo terreno. La separazione tra cielo e terra dovuta al peccato perpetrato dagli uomini, descritta nel Mito della Vacca Celeste ha con ogni probabilità, come accennato in premessa, influenzato in maniera significativa la tradizione biblica.

    Il mito di Adamo ed Eva e del peccato originale contenuto nelle Sacre Scritture certamente ha subito influenze di altre culture, di altre tradizioni, soprattutto mesopotamiche [13] ma appare invero plausibile per lo appunto, che il principio di separazione del mondo sensibile dall’extrasensibile per colpa dell’uomo, possa definirsi verosimilmente di matrice egizia. Al reddere ad rationem si può in larga guisa infine poter formulare questa “riflessione”: l’intera filosofia eliocentrica kantiana [14] finisce per sancire de facto quel che già migliaia di anni addietro sostennero gli antichi. La impossibilità cioè per l’uomo, a causa di questa separazione avvenuta idealmente nella notte dei tempi, di poter conoscere “l’extrasensibile”, i.e. il Regno dei Cieli, che pertanto resta – secondo il grande filosofo prussiano [15] – pura trascendenza non suscettibile pertanto di conoscenza se non attraverso il surrogato della “fede”.


    [1] Nel 2005 ho tradotto con relativo commento sintattico-grammaticale, in un lavoro a tutt’oggi non edito, l’intiero racconto tratto dal testo meglio conservato affrescato nella Tomba di Sethi I (330 colonne di corsivo geroglifico), oltre ad altre nove colonne relative alla parte finale dello stesso esistenti nella Tomba di Tutankhamon.

    [2] Cfr. la versione tedesca dello svizzero Erik Hornung, uno degli studiosi che ha maggiormente approfondito l’argomento, nell’opera: Der Ägyptische Mytos von der Himmelskuh, Göttingen 1982. Inoltre tra i più importanti lavori di ricerca da parte di illustri egittologi aventi per oggetto questa leggenda si citano: E.A. Wallis Budge in “Gods of the Egyptians” vol. 1 The Legend of the Destruction of Mankind, London 1904; Charles Maystre: Le livre de la Vache du Ciel, Il Cairo – BIFAI, 40, 1941; G. Gunther Röder: Urkunden zur Religion des Alten Ägypten, Jena 1923; Claire Laluette: Textes sacrés et textes profanes de l’Ėgypte Ancienne (Tomo II), Gallimard 1989; Rambova-Piankoff: The Shrines of Tut-ankh-Amon, Bollingen Series XL 1977.

    [3] Hathor significa “il recinto di Horus” ed è traslitterato Hwt-hrw (Het-Hert – Het-heru), generalmente rappresentato dai segni O6 e C9 o semplicemente dal segno composito O10. In età arcaica era rappresentata come una vacca, successivamente da una figura femminile con in mano il sistro (strumento musicale usato nell’Antico Egitto) e con il capo coperto dalle corna e dal disco solare. Dea della sensualità, della musica e della danza.

    [4] Nella religione egizia sono frequenti le forme di sincretismo tra varie divinità (Amon-Ra, Ra-Harakhtj ecc.). Nel caso in esame si ha questa complessa figura di Hathor-Sekhmeth.. Talvolta Hathor la si trova unita alla dea Bastet od anche alla dea Pakhet. Nell’epoca dell’ellenismo questa divinità va a confondersi addirittura con la dea Iside (anch’essa rappresentata talvolta con le corna ed il disco solare) per cui si parla di Hathor-Iside. Nel merito comunque la distinzione tra le due divinità permane sempre. Hathor infatti rappresenta la dea dell’Amore, della Bellezza ecc., mentre Iside (soprattutto in epoca tolemaica e imperiale) assume essenzialmente la veste di dea della magia.

    [5] Cfr. Kurt Sethe: Pyramidentexte, Leipzig.

    [6] La prima traduzione del testo riportato nella tomba di Seti I – scoperta da Belzoni nel 1817 – fu fatta in francese nel 1876 da Edouard Naville il quale curò nello stesso anno anche quella in inglese. Risale al 1881 la traduzione in tedesco da parte di Heinrich Brugsch.

    [7] Si rammenta che la leggenda cosìdetta della “Lontana” altro non è sostanzialmente che un duplicato del Mito della Vacca Celeste. Nella “Lontana” infatti Hathor, sotto vesti di leonessa feroce (Hathor-Sekhmet) seminava il terrore nel Kush. Per intervento di Thoth fu gettata nella I cateratta del Nilo ove portata dalle correnti impetuose del fiume giunse in Egitto trasformandosi in una gatta mansueta (Hathor-Bastet), apportatrice di pace e serenità tra gli uomini.

    [8] Cfr. C. Desroches Noblecourt: La reine mystérieuse: Hatshepsout, Paris 2003.

    [9] Tempio ristrutturato nella cosiddetta Valle del Coltello (ancor oggi chiamata Batn el-Baggara “il ventre della vacca”), dedicato alla dea Hathor-Pakhet (sincretismo tra Hathor e Pakhet, quest’ultima protettrice della regione).

    [10] Appare del tutto singolare e di estremo interesse, nel contesto della storia delle religioni, il comportamento di Ra il quale non figura come giudice supremo com’è d’uso comunemente in seno alla maggior parte delle religioni. Un dio supremo è in genere inappellabile, le sue decisioni non possono esser oggetto di contestazione. Nel caso in specie le decisioni al contrario vanno demandate al consesso degli dei, tenendo poi soprattutto conto che trattasi di prendere decisioni inerenti le stesse sorti del dio, se cioè egli debba o meno farsi da parte.

    [11] Trattasi del terzo occhio, l’Ureo di Ra (trsl. jrt con det. del cobra) posto sulla fronte, la cui iconografia ce lo mostra in veste di cobra e che serviva per castigare i malvagi.

    [12] In questa parte del testo si evidenzia il senso di “umanità”, di “bontà” che predominava in Ra, divinità non vendicativa.

    [13] Cfr. Friedrich Delitzsch: Babel und Bibel, Stuttgart 1903.

    [14] Principio eliocentrico applicato al pensiero dell’uomo. Non più l’io condizionato dal mondo esterno bensì il contrario e cioè l’io che osserva e valuta la fenomenologia in base alle sue sensazioni. Autentica rivoluzione nella storia della filosofia.

    [15] La “dialettica trascendentale” di Immanuel Kant (cfr. l’opera Kritick der reinen Vernunft, Königsberg 1781 – 1787) si basa su di un’analisi atta a valutare e sancire la impossibilità per l’io ad avere “conoscenza” del mondo extra-sensibile.

    Mario Menichetti
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