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    Quando Pitagora pagava gli studenti. La vera matematica

    Nelle università e nelle scuole molti studiosi e professori di scienze matematiche “conoscono” anche se ignorano l’ultima grande figura di un vero matematico del mondo antico come Pitagora. Usiamo il termine “ignorare” poiché nonostante tutti siano informati della figura storicamente esistita e di quei pochi elementi ancor oggi a lui attribuiti (il celebre teorema, la tabula ecc.) si preferisce non andare a fondo in quei frammenti pervenutici di seconda e più mani sulla sua vita e dottrina che non vengono meditati se non molto nozionisticamente, pena altrimenti la messa in discussione di tutto il traballante castello di carta delle scienze moderne e profane. Difatti vuole la leggenda, ma come tutte le leggende preserva un fondo di verità, che il maestro e antesignano delle moderne scienze algebriche-trigonometriche, avesse la consuetudine di pagare almeno tre oboli ai giovani purché si lasciassero insegnare la geometria affinché un giorno, da questi riconosciuta la validità e la nobiltà dell’insegnamento del maestro, fossero poi loro stessi a pagarlo. Già di per sé questo luogo che nei posteri divenne comune, a noi trasmesso da Giamblico, è un emblema di un diverso modo di fare scienza, di un diverso rapporto dell’allievo rispetto al maestro (a qual professore oggi passerebbe per l’anticamera del cervello l’idea di pagare gli allievi?). Ma che il sapere pitagorico, poi ulteriormente sviluppato dalla stessa scuola (in particolare i 3 libri di Filolao), riesumasse ancor più arcaiche tradizioni sapienziali, ci è ancor questo noto sempre da un altro frammento attestante la formazione geometrica egizia, aritmetico fenicia e astrologica caldaica di Pitagora, peraltro forse mutuata anche da una Temistoclea, sacerdotessa a Delfi.

    Se già degli egizi quindi fu il possesso delle 17 simmetrie (come loro stessi attribuivano a Thot l’origine del numero) e dei fenici le fonti aritmetiche, la figura di Pitagora come dell’altro celebre matematico Talete (ritenuto lo scopritore della geometria, formatosi anche lui presso i sacerdoti egizi) vogliono essere per noi un tramite onde tentare di risalire ancor più indietro (nonostante paragoni e fili rossi non siano del tutto leciti) verso le forme prime non canonizzate della aritmo-geometria “superiore”. Già le osservazioni di Ippocrate di Chio sulla quadratura della lunula, riconosciuto come un esperto di geometria dagli antichi, ci dicono che fu tra i primi a parlare e tentare la famosa quadratura del cerchio, trasferendo su principi apparentemente “figurativi” per noi contemporanei, verità di ordine metafisico e trascendentale che ritroveremo nel problema ermetico appunto della quadratura del cerchio, la quale rappresenta la divisione quaternaria del cerchio non priva di relazione con quella “santa Tetraktys” sulla quale giuravano i Pitagorici. Nella sua “Repubblica” Platone inoltre rimproverava questi ultimi di non studiar l’armonia dei numeri per sé stessi; quindi rivolgendosi anche alla figura di un Archita che non si impegnava a trovar le leggi del trascendente nella geometria, testimoniava una deviazione recentemente avvenuta a lui contemporanea di un indirizzo di studio che proprio allora si andava guastando ma che aveva avuto una lunga e ininterrotta trasmissione, incontaminata dalla pura speculazione empirica e razionale nonché di quella logica deduttiva che segnerà tutte le successive tappe delle scienze. Le figure di Archita, Eudosso e Menecmo furono ritenute responsabili di utilizzare le leggi di raddoppiamento del solido per costruire strumenti e meccanismi, così corrompendo il bene della geometria dei principi eterni ed incorporei nel cercare di trasporre determinate leggi sul piano sensibile (si rifletta sulle più moderne analogie con la fissione dell’atomo e suo utilizzo strumentale, il caso Maiorana ecc.). Di grande aiuto nella nostra ricostruzione è inoltre “Il commento al I libro degli elementi di Euclide” di Proclo che avendo innanzi l’Elenco dei matematici e la Storia dei geometri di Eudemo, ci rivela secondo i paradigmi di chi fa storicismo crociano (C. L. Ragghianti) alcuni aspetti nei quali potrebbero scorgersi in lui i “residui di quella concezione empirico-storica della geometria del fare costruttivo che appunto sottende l’applicazione della scienza geometrica”, ma per chi guarda con occhio libero ai retaggi sapienziali arcaici non dimentica che lo stesso autore (Proclo) aveva anche detto “che la geometria ci distacca dalle cose sensibili, ci conduce all’esistenza incorporea e quindi ci abitua alla contemplazione delle cose intelligibili nonché insegna mediante immagini le proprietà degli ordinamenti divini e le potenze delle forme ideali”. Ma nonostante il testo di Proclo possa apparir “complicato” nel voler ridurre una materia plurima e differenziata nella omogeneità platonico-aristotelica, non può di meno sottendere nel suo presunto “scorcio previchiano, l’intrinseca genesi col mezzo sensibile”.

    L’opera e l’insegnamento di Proclo, nonostante difatti possano risentire di tutta la geometria strumentale post-euclidea, non andavano meno a rivitalizzare un filone di pensiero antitetico a “quegli enti geometrici che nascono tutti unitari dall’anima”. Per quanto quindi possa esser difficile, data l’assenza della dottrina interamente orale (“ciò che egli diceva ai suoi compagni nessuno può dire con certezza, poiché anche il silenzio fra loro non era casuale”, dalla “Vita di Pitagora” di Porfirio) di alcuni degli ultimi grandi iniziati del mondo antico come Pitagora e Talete, ricostruire tappe e percorsi della scienza matematica, è rimasto un altro frammento ancor più significativo e più sconvolgente poiché unico tra i pochi documenti di età preistorica, proveniente dalle stratigrafie paleolitiche del periodo solutreano di Fourreau du Diable in Francia a cui poca è stata l’attenzione dedicata dagli studiosi. È merito difatti dello studioso italiano Carlo Ludovico Ragghianti aver dedicato un breve capitolo, in un suo celebre testo sull’arte preistorica dell’uomo cosciente, a questo mosaico di sassolini disposti secondo criteri tutt’altro che casuali.

    Questo elementare e apparentemente semplice reticolato rettangolare è stato ritenuto opera di “un precursore della trigonometria” sconosciuto nella sua identità storica ma sicuramente emblematico per il possesso della parte più antica della matematica superiore. Questa figura richiama difatti la disposizione detta a quinconce, la base della monetazione romana. La superficie organizzata da punti, rette, parallele, triangoli, rettangoli, quadrati contiene in nuce l’insieme di tutti i simboli. La stessa proliferazione simmetrica segna l’evidenza di veri prototipi ontologici costituiti da leggi già riscontrati da alcuni studiosi (Kokka, Katz, Eppel, Weyl). Il Ragghianti, in parte vedendo bene, riteneva che la messa in disparte di questo tassello così significativo fosse dovuta alla causa della sistemazione della geometria divenuta manualistica, alla divisione della matematica greca (è proprio la scissione della geometria – studio del “continuo” – dall’aritmetica – studio del “discontinuo” – secondo alcuni l’origine della crisi del pitagorismo) nelle due parti di aritmetica (scienza dei numeri) e algebra (scienza dei simboli) nonché alla separazione da queste ultime dalla scienza delle grandezze ed estensioni figurate con i loro vari rapporti (geometria). Ma sinceramente poter credere che in tutta la fase anteriore ad Euclide la geometria del cosiddetto “movimento” abbia prevalso, forse non è del tutto ammissibile. Sebbene le figure di Eraclito o di Archimede, con la sua rinnovata geometria del movimento e della meccanica, abbiano costituito i presupposti della seguente fase di formazione sperimentale della geometria, è lo stesso Ragghianti a riconoscere nel quinconce di Fourneau du Diable una vera “figura eleatica”, una essenza “aritmo-geometrica analoga a quella di origine pitagorica (“nel numero non penetra la menzogna: perché la menzogna è avversa e nemica alla natura, così come la verità è connaturata e propria alla specie dei numeri”, da “Sulla Natura” di Filolao) per cui partendo dal noto quadrato di 25 e togliendo successivamente gli gnomoni si ottengono progressivamente i quadrati minori fino al minimo di uno”. Ma ancor più decisiva è la supposizione fin dal Solutreano (20-15 mila anni a.C. circa) della coesistenza delle due geometrie statica (essere, metafisica) e dinamica (divenire).

    Nei documenti preistorici molte altre ancora dovrebbero essere le testimonianze di un importante simbolismo numerico che da sempre accompagnò il percorso umano: tra i numerosi ideogrammi infatti ne abbiamo alcuni definiti dagli studiosi “numerici” o “geometrici”, veri archetipi che in maniera ripetitiva con linee, punti, triangoli, quadrati, serie di linee parallele o di punti e circoli si susseguono in tutta lane quaternaria con maggiore o minor intensità. Cosa dire infatti delle incisioni geometriche su osso di Grotta Polesini (Tivoli), Grotta Romanelli, Grotta del Cavallo, Grotta delle Veneri (Puglia), Riparo Maritza (Avezzano), Barma Grande (Liguria) e molte altre ancora; forse quindi non dovrebbero far parte a tutti gli effetti dello studio della geometria? Così anche tutta la serie di punti che si accompagnano dall’Aurignaziano a serie o ritmi di linee rette in varie partizioni, si dispongono su superfici piane o curve, talora cilindriche e senza queste relazioni la linea stessa sarebbe inconcepibile ed ineffettuabile.

    Croci, ellissi, chiasmi, compassi e figure a rombo e quadrato con l’insieme di linee parallele, incrociate, alternate, spazieggiate nel designare oggetti bidimensionali e solidi sono i primi esempi paleostorici di geometria solida e piana allo stesso tempo. Che poi la contemplazione della forma abbia raggiunto l’equilibrio della perfezione equidistante dal centro, questo lo dimostrano le altrettante sfere regolari in selce,. Quarzo, arenaria e calcare rinvenute nei vari siti che rappresentano il simbolo dell’equiponderazione, il punto estremo dell’autoequilibrio che a detta dello stesso Ragghianti testimoniano la “negazione in radice dell’immagine scientifica ma totalmente impropria ed inadeguata” del cosiddetto uomo dell’età della pietra. Anche lo scienziato russo Boris Frolov notò che molti dei segni effettivamente rappresentano multipli ripetuti di una serie di numeri, soprattutto del 5 e del 7. Non a caso il moderno studio delle discipline matematiche nasce dalla divulgazione e profanazione di un mistero, così come Prometeo rubò il fuoco agli dei, vi fu un Ippaso di Metapento che rivelò fuori dalla setta degli iniziati il segreto pericoloso custodito gelosamente, che poi determinò l’attuale studio razionalistico del teorema pitagorico con la relativa incommensurabilità di lato e diagonale e la possibilità consequenziale che ciascuno di essi sia formato da un numero finito di punti. Cadeva la dottrina dei numeri interi, la matematica del discontinuo pitagorica venne ritenuta “insufficiente”.

    Prometeo espiò sulla roccia caucasica. Ippaso, radiato dalla sua scuola, perì in un naufragio per volere di Zeus. L’uomo moderno paga la sua ubris (superbia) vivendo di continua ule (materia). L'”Al-Giabr” arabo indicava appunto il senso di una ricostruzione, di un completamento ben diverso da quello poi canonicamente definitosi con i sistemi abbreviativi di Diofanto di Mileto che preluse al moderno simbolismo algebrico, così come l’arte dei numeri (gr. arithmetike ferirne) pari e dispari, primi e composti dei pitagorici assumerà solo con Pascal e Fermat la sua natura moderna di vera teoria. La stessa divisione canonica tra pre e non euclideo come distinzione introdotta tra la fine del XVIII e il XIX secolo nella geometria, non può esser riduttivamente considerata come la differenza tra l’ideale aristotelico della conoscenza indipendente dall’esperienza e quella che invece all’esperienza e all’esperimento si rifà con le diverse geometrie non euclidee di Gauss, Bolyai, Riesami ecc.

    Infatti Aristotele è solo l’ultimo anello della formulazione di un percorso molto antico che vede i suoi primordi nel quinconce di Fourneau Du Diable, negli Eleati e nei Pitagorici gli ultimi frammenti dei principi-numeri della realtà. Quegli stessi principi che faranno dire secoli dopo ad un Cornelio Agrippa che “tutte le cose di quaggiù sono prodotte e governate con numero peso, misura, armonia, movimento e luce e tutto quello che vediamo nel mondo inferiore ha radice e fondamento nelle scienze matematiche”, o ad un Severino Boezio che “tutto quanto la natura ha procreato, sembra essere stato formato sotto il regime dei numeri e da essi sono provenuti la quantità degli elementi, le rivoluzioni dei tempi, il moto degli astri, la mutabilità del cielo”. Che questi numeri non siano gli stessi materiali, vocali, sensibili dei mercatanti, oggetto della speculazione delle scienze moderne, crediamo oramai sia fuor di dubbio.

    Bibliografia di orientamento:

    • C. L. Ragghianti.  “L’uomo cosciente – arte e conoscenza nella Paleostoria”, 1981.
    • I Presocratici, “Testimonianze e Frammenti”, 1988.
    • B.    Frolov, “Cifre e grafica paleolitica”, Novosibirsk 1974.
    • C.    Agrippa, “Le Arti Magiche”, vol I e II.
    • G. Spirito, “Matematica senza numeri”. 1995.
    • L. Ferrero. “Storia del pitagorismo nel mondo romano (dalle origini alla fine della Repubblica)”. 1955.

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