LE RADICI DEL PENSIERO FILOSOFICO
Charles Malamoud
LA CIVILTÀ INDIANA E IL VEDA
DOMANDA: Professor Malamoud, che cos’è il Veda ?
All’origine della cultura indiana c’è il Veda. Perché questa affermazione sia valida, bisogna fare astrazione da quella che si chiama civiltà dell’Indo. Per civiltà dell’Indo intendo le rovine delle città di Mohenjo-daro e di Harappa, che datano dal III millennio a.C. Io credo che sia legittimo farne astrazione, perché questa civiltà dell’Indo ci è nota soltanto per le sue vestigia materiali, le cui iscrizioni brevi e rare non sono ancora state decifrate. Inoltre tra la fine della civiltà dell’Indo, che probabilmente fu catastrofica, e il principio di ciò che si potrebbe chiamare la storia dell’India propriamente detta, c’è uno iato che non siamo in grado di colmare. Invece, con il Veda, abbiamo l’inizio di una tradizione continua e cosciente di sé.
Che cos’è il Veda? Di che cosa si tratta? Il Veda è un insieme di testi. Si può dire che è caratteristico della civiltà indiana che un momento essenziale del suo sviluppo, il suo principio, sia costituito da un testo o da un insieme di testi, la cui costituzione è ripartita tra la metà del II millennio e la metà del I millennio a.C., tra il 1500 e il 500 a.C.
Questo insieme di testi presenta un contrasto notevole con quello che ho appena detto della civiltà dell’Indo. La civiltà dell’Indo, con Mohenjo-daro e Harappa, è un’archeologia senza testi mentre si può dire che il Veda è un testo senza archeologia. Non c’è, per parlare in modo schematico, alcun elemento materiale, alcun vestigio che denoti il periodo storico in cui si è formato il Veda. Devo aggiungere tuttavia che il Veda ci fornisce una gran quantità di informazioni sugli uomini che lo hanno composto, sui gruppi sociali da cui questi testi emanano: sul loro pensiero così come sulle loro strutture sociali. Dal Veda apprendiamo assai poco sulla storia vissuta, e se diciamo che la costituzione dei testi vedici si estende su un millennio è solo per motivi di coerenza interna, di verosimiglianza interna, perché – per parlare ancora in modo schematico – manchiamo di qualsiasi punto di riferimento esterno che ci consenta di analizzare storicamente il Veda.
DOMANDA: Come è composto questo insieme di testi?
C’è un nucleo antico, che si chiama “Samhita”. Il termine “Samhita” in sanscrito significa “Collezione”: questo nucleo antico è formato da una collezione, dall’insieme di un migliaio di inni di carattere religioso, che non appartengono tutti allo stesso periodo storico. Ci sono inni veramente antichissimi ed altri più recenti. Tra gli inni più antichi ricordo l’insieme che si chiama “Mandala” o “Cerchio”, gruppo di inni, che sono i più antichi: ce ne sono alcuni composti – o la cui composizione è stata almeno abbozzata – ancor prima che gli Indiani vedici penetrassero in India, concepiti o forse anche composti nel tempo in cui gli Indiani, che si sarebbero chiamati poi vedici, erano ancora una popolazione nomade, che circolava nell’Afghanistan.
Gli inni più recenti sono stati composti quando gli Indiani vedici avevano superato i valichi del nord-ovest per venirsi ad insediare nella regione che si chiama oggi Panjab ed erano diventati sedentari. Bisogna aggiungere inoltre che gli inni vedici presentano, sotto forme più o meno simboliche, la marcia di quelle popolazioni verso l’Est e verso il Sud, nella piana indo-gangetica. Se si esamina la costituzione di questo insieme di testi che è il Veda, si nota che la parte più antica, quel migliaio di inni di cui parlo, costituisce il “Veda delle strofe”, il Rig-Veda, così detto perché i poemi che costituiscono i dieci “Mandala”, i dieci “Cerchi”, che formano la “Samhita”, la “Collezione del Rig-Veda”, sono fatti di strofe, e sono fortemente, vigorosamente poetici.
Esiste un’altra “Collezione”, un’altra “Samhita”, ed è la “Collezione dei saman”, cioè delle melodie, o, piu’ precisamente, il “Sama-Veda”, cioè il “Veda delle melodie”. Si tratta di una parte dei poemi del Rig-Veda, del “Veda delle strofe”, dotati di un accompagnamento cantato e di un accompagnamento musicale. La melodia è apposta alle strofe come elemento necessario ed efficace della liturgia.
A fianco del “Veda delle strofe”, del Rig-Veda, e del “Veda delle melodie”, del “Sama-Veda”, c’è un terzo Veda, che si chiama il “Veda delle formule”, lo “Yajur-Veda”. “Yajur” vuol dire “formula”. Di che formule si tratta? Di formule sacrificali. Una parte di queste formule infatti è costituita da citazioni del Rig-Veda, un’altra da elementi in prosa, assai brevi, e lo “Yajur-Veda” è composto esclusivamente da brani chiamati “mantra”, destinati all’esecuzione dei riti. Ci sono dunque tre Veda e la tradizione indiana parla di un “triplice Veda”. Ma come accade spesso in India, ad una enumerazione di tre elementi se ne aggiunge un quarto, il cui statuto può variare notevolmente . Nel caso del Veda esiste un quarto elemento costitutivo, che si chiama l’ Atharva-Veda.
Il termine “Atharvan” non rimanda a una forma testuale, ma a una famiglia di persone, di personaggi mitici, ai quali è attribuita la paternità di questo insieme di testi. Ci torneremo sopra piu’ avanti. L’Atharva-Veda è dunque il Veda degli uomini, che si chiamano Atharvan. L’Atharva-Veda, che è piu’ recente degli altri e vi si aggiunge come quarto, è costituito principalmente, ma non interamente, di poemi o di formule, a cui si attribuisce un carattere magico e che si usano a fini non direttamente sacrificali, a fini di magia, senza che il termine “magia” riceva qui una connotazione peggiorativa. E’ opportuno tuttavia aggiungere che, nella raccolta chiamata Atharva-Veda, a fianco dei poemi e delle formule di carattere magico, si trovano inni di impronta speculativa, così come nel Rig-Veda, nella sua parte piu’ recente, che è il decimo Mandala, ci sono grandi inni speculativi.
Quello che ho detto concerne la parte antica del Veda, in prevalenza poetica, che forma le “Samhita”, cioè le “Collezioni”. Ma non è tutto. Alle “Collezioni” del Veda, alle “Samhita”, seguono i trattati in prosa che si chiamano genericamente “Bràhmana”. I “Bràhmana” sono trattati del sacrificio, opere nelle quali sono esposti i principi, i metodi e il simbolismo degli atti sacrificali. La parte finale dei “Bràhmana”, cioè la più recente e che si presenta come una specie di appendice, è costituita dagli “Aranyaka”. Questo termine significa “Forestali”, “Silvestri”. Si tratta di testi che sono annessi ai “Bràhmana”, ma si dice che l’insegnamento che impartiscono abbia una tale potenza, sia così carico di senso, che il loro studio e insegnamento deve aver luogo in disparte dai luoghi abitati, lontano dai villaggi, nella solitudine della foresta.
Infine, come ultimo elemento del Veda, in ordine cronologico, abbiamo le Upanishad. Le Upanishad sono parti speculative del Veda, in prosa, che si concentrano su quello che è stato chiamato “metaritualismo”, cioè degli insegnamenti che, in fin dei conti, potremmo qualificare “metafisici”, e che hanno come punto di partenza delle considerazioni sul rito, formulate nelle parti piu’ antiche, cioè nei “Bràhmana”. L’insieme vedico, schematicamente, è questo.
Vorrei aggiungere che i Veda costituiscono quattro insiemi verticali, per così dire, e ogni Veda possiede in ordine cronologico una o più Samhita, cioè “Collezione” di poemi, una o piu’ “Bràhmana”, trattati del sacrificio, poi degli “Aranyaka” e infine delle Upanishad. Perciò si può dire, ad esempio, che una certa Upanishad appartiene a un certo Veda. Si hanno così delle scuole vediche o, come anche si chiamano, branche del Veda, cioè ramificazioni di ognuno dei quattro tronchi che ho delineato.
DOMANDA: Professor Malamoud, Veda vuol dire “sapere”. Di che sapere si tratta?
La parola Veda è un termine sanscrito, che significa “sapere”, e del resto si impiega assai spesso un sinonimo che appartiene alla stessa radice verbale e che è la parola femminile “vidya”. Si parla per esempio del “triplice Veda” oppure della “trayvidia”, della “triplice scienza” o del triplice sapere, per designare i tre Veda fondamentali, cui si aggiunge una quarta “vidya” o un quarto Veda, che designa l’Atharva-Veda. Il Veda è dunque un sapere, ma devo precisare che questo termine non è limitato a ciò che si chiama il Veda in senso stretto. In Occidente, ad esempio, è noto lo “Ayurveda”. Lo “Ayurveda” è la scienza indiana dell’ “ayur”, cioè della lunga vita, della longevità, ed è semplicemente la scienza medica. Allora qual è la specificità del Veda di cui stiamo parlando? Di che si tratta? Che si vuole insegnare? In che consiste questo sapere? Innanzi tutto direi che il Veda di cui sto parlando si distingue dagli altri, dai numerosi altri Veda che la civiltà indiana ha dato alla luce, perché è redatto in una lingua particolare. Quella lingua è il sanscrito arcaico, distinto dal sanscrito classico, che si formerà piu’ tardi verso il V secolo a. C. Si è potuto, con buone ragioni, comparare il sanscrito vedico, il sanscrito arcaico, nel quale è composto il Veda in senso stretto, al greco dei poemi omerici e constatare che tra il sanscrito vedito e il sanscrito classico c’è lo stesso scarto che tra il sanscrito del Veda e il sanscrito dei testi classici. Ma oltre le questioni linguistiche ci sono i problemi di contenuto. Ebbene di che ci parla il Veda? Che cosa ci insegna? Il fatto che ci insegni qualcosa è di per sè molto importante. C’è una formula che ricorre costantemente in tutti i testi vedici, specialmente in quelli del secondo periodo, “ya evam veda”, “colui che sa così”, che comprende l’insegnamento impartito. Si tratta quindi di qualcosa che bisogna sapere, è un sapere che deve essere appreso e come tale si presenta. L’idea di obbligazione è pure onnipresente.
Qual è il contenuto di questo sapere? Il Veda ci parla degli dei e ci parla dei riti e ci parla della parola e in particolare di quella parola per eccellenza che è il Veda stesso. Il Veda parla dunque di sé e questo Veda, questo sapere costituisce appunto una scienza che l’India, e piu’ precisamente l’ortodossia brahmanica, l’India brahmanica e indù, considera un sapere sacro. Questo è, in modo schematico, il contenuto del Veda.
Devo aggiungere che, parlando degli dei, parlando dei riti e della parola, il Veda costruisce una cosmologia, una dottrina del mondo e, in modo piu’ discreto, ma anche reale ed efficace, ci propone un’antropologia, una dottrina dell’uomo. Una dottrina dell’uomo che non si presenta beninteso sotto la forma di una filosofia, ma sotto la forma di verità da comprendere, da indovinare talvolta, attraverso i discorsi vedici, che apparentemente parlano solo di miti e di rituali. Assai spesso la nostra attenzione è richiamata dal carattere volutamente e ostentatamente enigmatico delle formule. Il lettore dunque è invitato a meditare sul carattere enigmatico della parola vedica.
Ho usato il termine “lettore”: è un’espressione che richiede di essere esplicitata. Quando parlo di lettore, intendo il lettore moderno, ma il Veda non è fatto per essere letto, è fatto per essere ascoltato, dunque recitato. Il Veda ha un altro nome, che nella tradizione indiana è “sruti”. Il termine “sruti” significa “audizione”, ciò che si ascolta, ciò che è affidato all’ascolto. Il fatto è che il Veda, attraverso i secoli e fino ai nostri giorni, si è trasmesso in gran parte per via orale. Questo merita di essere preso in attenta considerazione. L’India è da lunghissimo tempo, dalla fine dei tempi vedici almeno, una civiltà di scrittura. L’India conosce e utilizza la scrittura, ma ben presto e fino ai nostri giorni, la scrittura è stata in un certo senso relegata a usi pratici, amministrativi o politici, e il Veda in ogni caso, come tutti i testi ai quali si è attribuita grande importanza, diciamo spirituale, è stato affidato essenzialmente alla memoria.
C’è nella trasmissione orale del Veda un’attenzione all’aspetto sonoro di quel sapere. La sonorità, il fatto che abbiamo a che fare con dei suoni, è un tratto essenziale del Veda. Nel Veda, nella parola vedica, c’è un invito costante a meditare su ciò che sono le parole, in quanto pronunciate, sulla parola detta, sulle sillabe e i suoni, in quanto materia indistruttibile della parola e, si potrebbe aggiungere, dell’universo stesso.
Quando ho parlato di lettore, ho fatto dunque allusione alla ricerca moderna, alla scienza moderna dell’indologia. E a questo proposito bisogna notare che non c’è alcun divieto o interdetto concernente la messa per iscritto del Veda. Tra gli Indiani si sono certo moltiplicati da lunghissimo tempo i manoscritti e da parecchi secoli anche le edizioni a stampa dei Veda, ma è sempre viva l’idea che il Veda, per essere veramente efficace, deve essere imparato a memoria, anzi deve costituire una parte essenziale della memoria di colui che lo recita.
DOMANDA: Professor Malamoud, sull’India e sulla speculazione indiana abbiamo delle idee assai confuse. Qual è la sorte del Veda nella storia dell’India?
Bisogna che io spieghi meglio ciò che ho detto all’inizio, e cioè che il Veda è il principio della cultura indiana. Non è soltanto l’inizio storico, cronologico, nel senso che non c’è niente prima, ma è anche un origine. Il Veda è l’origine della cultura indiana nel senso che le più grandi creazioni di cui va orgogliosa la civiltà indiana procedono in un modo o nell’altro da quel vasto insieme che è il Veda, che inaugura, come dicevo, la storia intellettuale e spirituale dell’India.
Il Veda persiste nell’India, nel senso che, fino ai nostri giorni, non si è mai smesso di impararlo. Il Veda non ha mai cessato di essere il testo religioso per eccellenza del Brahmanesimo e dell’Induismo, e ancora ai nostri giorni uno strato molto esiguo, ma anche molto importante, della società indiana continua a impararlo e ne mantiene viva la tradizione. In quello che si chiama Induismo, molte cerimonie, cerimonie nuziali, cerimonie funebri, cerimonie legate ai cicli dell’esistenza, molti aspetti cioè della vita religiosa sono accompagnati obbligatoriamente dalla recitazione di testi vedici.
Detto ciò, il mondo religioso del Veda non è piu’ lo stesso di quello che ha nel Veda la sua origine, cioè la religione detta brahmanica e la religione indù . La religione vedica comporta un pantheon, un insieme di dei, un insieme di concetti, comporta una certa dottrina concernente i riti e i diversi insiemi, che costituiscono una religione, il pantheon, le credenze, i riti, le speculazioni, si sono progressivamente modificati, trasformati, spesso assai profondamente. La religione indù , come noi la troviamo oggi, e come ci è dato osservarla, quella che si è costituita nei secoli immediatamente precedenti l’inizio della nostra era, è, sotto molti aspetti, differente dalla religione vedica. Tuttavia non c’è mai stata rottura, non c’è mai stato in verità un movimento di riforma. Lascio da parte, beninteso, il Buddhismo e il Jainismo, religioni e sistemi di pensiero che fanno parte a sè, che non rientrano in questo campo, benchè abbiano con esso rapporti evidentemente assai stretti e sia sempre dell’India che si tratta.
Tra la religione vedica e quella indù non c’è mai stata rottura o riforma, che si sia pensata come tale. Tuttavia le rispettive concezioni sono del tutto diverse. Posso fare un esempio importante: la religione vedica è una religione senza immagini, gli dei di cui parla sono privi di effigi, è una religione senza idoli. Al contrario, la religione indù , di cui possiamo seguire la storia dal terzo o quarto secolo a.C., dà un posto centrale al culto delle immagini, quindi la concezione della divinità è del tutto diversa nel Vedismo e nell’Induismo post-vedico. Fanno la loro comparsa nuovi testi, che non appartengono che all’Induismo e ne costituiscono un elemento essenziale. Penso per esempio alle grandi epopee, al Mahàbhàrata e ai “Purana”, che sono largamente post-vedici e che ci parlano di una religione in gran parte diversa, benchè spesso ci si richiami sempre al Veda.
D’altra parte il Veda ci insegna una religione, che non ha templi e che, generalmente, è estranea a tutto ciò che è fissazione su un luogo, a tutto ciò che è territorialità. Inversamente l’Induismo non si comprende senza santuari e senza i grandi templi, che sono veramente il mondo della spazialità religiosa. Così si vede com’è avvenuto, attraverso una profonda differenziazione e al tempo stesso in una specie di continuità della memoria, il passaggio dal Vedismo all’Induismo. Ma soprattutto vorrei far notare che, se il testo del Veda si è conservato in un modo che agli occhi degli occidentali ha qualcosa di prodigioso, è perché degli uomini per millenni hanno saputo preservare, mediante la trasmissione orale, migliaia e migliaia di versi, di strofe, di testi in prosa straordinariamente difficili; e che se ancora ai giorni nostri troviamo degli uomini capaci di recitare per intere giornate i testi vedici e di recitarli non soltanto nel loro ordine di successione, ma talora all’inverso e mediante complicatissime e arbitrarie combinazioni di frasi, se insomma lo sforzo di conservazione è stato prodigioso e se noi conosciamo il testo vedico fin nei minimi particolari della sua pronuncia, dobbiamo anche constatare che la comprensione del contenuto del testo vedico si è in gran parte smarrita.
Si è continuato a tramandare il testo senza veramente comprenderlo. A riprova di questa situazione si può addurre il fatto che nel corso dei secoli sono sorti in India trattati di fonetica, per esempio, che spiegano come deve essere pronunciato il Veda, in ossequio alla tradizione, e d’altra parte che sono stati fatti nel XIV secolo d.C., cioè assai tardi, dei commenti letterali dei testi vedici, che spiegano il significato di ogni termine, benchè spesso in un modo che oggi giudichiamo erroneo o non soddisfacente.
Il Veda quindi, una volta passato il periodo propriamente vedico, durante il quale esso era un testo vivo, applicato nel rito e nella meditazione sul rito, una volta passato quel periodo il Veda non è stato piu’ capito e la comprensione dei testi vedici ha avuto una specie di rinascita solo dal momento che l’Occidente ha riscoperto quei testi, vi si è interessato e ha costituito quel sapere indologico, che, dall’inizio del XIX secolo, si è, del resto, considerevolmente arricchito dei contributi di ricercatori indiani, che combinano il sapere tradizionale con le tecniche di ricerca occidentali. La scienza, se così si può dire, o il sapere sul Veda, è il frutto oggi, di uno sforzo combinato di filologi e linguisti occidentali e di pandit indiani, che si sono messi, a loro volta, a riflettere su ciò che da sempre sapevano.
DOMANDA: Professor Malamoud, il Veda ci riporta costantemente alle origini, ma si può pensare anche che nel Veda sia formulata una dottrina del tempo?
E’ una domanda difficile. Il Veda non soltanto è all’origine della cultura indiana, ma parla continuamente delle origini. Ci parla di ciò che era in principio. Ne consegue che, parlando del principio, ci orienta verso ciò che potrebbe essere uno svolgimento della durata che avesse come punto di partenza quell’origine o principio. D’altra parte, ho insistito molto sul fatto che la composizione stessa del Veda è assai estesa nel tempo, copre circa un millennio, per cui si capisce bene come i “Bràhmana”, ad esempio, contengano passi che sono commenti di testi piu’ antichi, che spiegano che senso sia da dare a una certa strofa del Rig-Veda. Tutto ciò implica dunque un prima e un poi.
Nonostante questo c’è nel Veda – mi sembra – una dottrina del tempo che è rifiuto del tempo lineare e che consiste nella ricerca dell’origine, in una meditazione sull’origine, ma che è al tempo stesso uno sforzo per ricreare costantemente l’origine e abolire il vettore temporale. Non è già che manchi la coscienza del flusso temporale, ma, ripeto, lo sforzo che possiamo definire teorico, consiste nel ricollocare continuamente l’origine in una specie di presente. Voglio dire con ciò che la tradizione indiana, appoggiandosi su elementi formulati dal Veda stesso, considera che il Veda non è stato composto veramente nel tempo. Sono gli storici, i filologi, gli uomini che si pongono fuori del sistema, che dicono – siamo insomma noi che diciamo – che il Veda ha cominciato ad essere composto a una certa data e che verso la metà del primo millennio a.C. c’è stata una chiusura del Veda. Ma per i pensatori vedici vi è una sorta di acronia del Veda. Non soltanto il Veda non è stato composto a poco a poco, ma si può dire che non è stato composto affatto: il Veda è eterno. E non soltanto è eterno, ma è autenticamente increato, e gli uomini cui si attribuisce la paternità di una parte o di un’altra del Veda – ne ho parlato a proposito degli Atharvan, che sono, potremmo dire, tra virgolette, gli “autori” dell’ Atharva-Veda – quegli uomini sono considerati come dei profeti – questa è la traduzione adottata da qualche tempo in Occidente per la parola sanscrita “rsi” – profeti che hanno avuto la rivelazione del testo, ma che non ne sono veramente i creatori. Il testo è eterno e il fatto che dei profeti ne abbiano avuto la rivelazione a poco a poco, cioè per frammenti, non rimanda in nessun modo a una cronologia.
Il Veda è stato sempre e si presenta in definitiva fuori del tempo. E del resto, proprio perché è increato, e perché non ha, in senso proprio, autore, la tradizione indiana pensa che il Veda, puramente e semplicemente, è. E poichè esso è, puramente e semplicemente, non c’è alcuno scarto tra ciò che un autore ha voluto dire e ciò che ha effettivamente detto. Questa mancanza di scarto tra intenzione e realizzazione fa sì che il Veda sia integralmente vero e in linea di principio almeno integralmente comprensibile, perché non nasconde alcuna intenzione e quindi alcuna differenza tra ciò che si ritiene voglia dire e ciò che effettivamente dice. Ciò non significa che sia facile cogliere l’evidenza del Veda, perché il Veda, benchè integralmente vero e intelligibile, si presenta assai spesso, come ho detto, sotto forma di enigmi, sotto forma di combinazioni e concatenamenti di senso, validi ognuno al proprio livello, ma che possono essere colti solo quando si è preso coscienza appunto della molteplicità dei livelli su cui il Veda si sviluppa.
Non soltanto il Veda è fuori del tempo, ma credo anzi che insegni una specie di tempo acronico o più precisamente di tempo non lineare. Per ciò che concerne la celebrazione delle origini, i poemi vedici, che assai spesso sono una autocelebrazione, cioè parlano per esaltarla, della parola vedica stessa, ci dicono che le parole del Veda sono alla ricerca della Parola originaria. Lo sforzo dei poeti vedici, che attualizzano la rivelazione del Veda, ci rende sensibile il rapporto, che intercorre tra la parola che si monetizza in parole, frasi e discorsi in atto e la forza originaria di quello che noi chiameremmo il linguaggio e che gli autori vedici chiamano “Parola prima” e che è una forma dell’assoluto. E’ di questa che parlano i poemi vedici. Si tratta di un tema essenziale della speculazione, della poesia vedica, che è forse il più difficile da cogliere.
D’altra parte i “Bràhmana”, i trattati del sacrificio, ci parlano dei riti e ci insegnano che i riti sono destinati a riprodurre la costituzione del cosmo. Quando dico “riprodurre”, non intendo “dare un’immagine”, ma veramente “rifare”. Il mondo costantemente si sta rifacendo o, se si preferisce, la costruzione del mondo deve essere costantemente ripresa e l’origine costantemente riattualizzata. Non c’è stata una genesi una volta per tutte, ma i riti permettono agli uomini di rimettere continuamente in movimento il sistema, lo “rta”, il buon ordine cosmico. Ora il buon ordine cosmico è l’accordo armonioso dei diversi elementi del cosmo, in quel tutto che costituisce il cosmo, e gli uomini, celebrando i riti, riattivano la forza che permette alle varie parti di accordarsi armoniosamente nel tutto.
I riti, sotto questo aspetto, sono un perenne ricominciamento della costituzione del mondo e sono strettamente legati a un tempo che non scorre, che non passa, ma è fatto di unità, costitutive a loro volte di unità più grandi, che si trovano inserite in unità ancora più grandi, fino a quella più alta, che è la forma di un cerchio, che eternamente ritorna. Bisogna rimettere in moto l’alternanza dei giorni e delle notti con i riti quotidiani, l’alternanza delle quindicine chiare e delle quindicine scure e viceversa, con i riti concernenti le fasi lunari, i riti cioè legati a quel movimento per cui si va dalla luna nuova alla luna piena e dalla luna piena alla luna nuova. E poi ci sono i riti celebrati nei momenti di passaggio da una stagione all’altra, e infine i riti che costituiscono l’intero anno.
I riti più grandiosi e più importanti sono quelli della totalità dell’anno, la cui funzione esplicita è quella di creare l’anno. Il corpo del creatore, che nel tempo della genesi, si è sparpagliato in modo da costituire gli elementi che formano il cosmo, è esso stesso ricostituito in occasione di un rito particolarmente complesso e carico di simboli. E’ ricostituito in un edificio di mattoni, il cui simbolismo è molteplice, ma che in ultima analisi si riduce a questo: che i diversi mattoni sono momenti del tempo, i vari accostamenti dei mattoni sono elementi della durata e la totalità è l’anno. Ora, l’anno è fatto di “rtu”, cioè di stagioni, e io insisto sul fatto che la parola “rtu” deriva dalla stessa radice “r”, che, modificata,dà origine alla parola “rta”, cosmo, di cui parlavo poco fa, e che l’articolazione del tempo, il passaggio da un tempo a un altro, è l’articolazione essenziale del cosmo.
Il cosmo è innanzi tutto rotazione del tempo e ha la sua realtà sensibile nel ritorno dei giorni e delle stagioni che si completano nel cerchio dell’anno. Questa è dunque la concezione del tempo, ma di un tempo acronico, perché fondato sul ritorno, senza degradazione né evoluzione, in ogni caso senza un cambiamento determinato dalla successione irreversibile delle unità temporali.
D’altra parte, se si vuol cogliere la concezione di un tempo acronico, bisogna insistere sul fatto che la genesi di cui ho parlato e che farebbe pensare a un inizio assoluto, cui seguirebbe un tempo articolato in una durata e suscettibile forse di essere diviso in ere successive, ebbene questa idea è estranea al Veda, mentre sarà molto importante nella concezione indù . La genesi vedica in effetti si impegna a sconcertarci, se immaginiamo una successione temporale, perché ci mette davanti a un genitore, che si disfà e che ha bisogno di essere continuamente rifatto, sicchè la genesi è fin dall’inizio la storia di questo rifacimento. D’altra parte apprendiamo che gli dei stessi sono stati creati ma che danno origine a genealogie reversibili. Ci viene detto, a un certo punto, che un dio ne ha generato un altro e che quindi ne è il padre, ma nella strofa successiva dello stesso poema, si afferma che quello che era il figlio adesso è il padre, sicchè troviamo sempre non solo genealogie reversibili, ma anche sequenze temporali reversibili.
Una preoccupazione costante del pensiero vedico è rompere l’idea di un tempo che scorrerebbe in modo per così dire storico o che sarebbe gravido di storia. Beninteso ci sono miti di origine. Ci è detto che all’origine le cose stavano in un certo modo e poi si è avuto un accadimento, gli dei o gli uomini hanno scoperto un determinato rito e hanno adottato una determinata condotta che prima non conoscevano e inevitabilmente, dal momento che si parla, dal momento che si racconta, si stabilisce un prima e un poi. Ma quello che caratterizza la speculazione indiana è che ogni volta che viene introdotta la nozione di prima e di poi, un indice ci mostra che ciò non comporta una cronologia coerente e che quelle sequenze temporali sono frammenti oscillanti in un tempo non orientato.