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    Il Sale dell’Anima, lo Zolfo dello Spirito

    L’articolo che segue è tratto dal testo “Fuochi blu” di J. Hillman, ed è pubblicato per gentile concessione della Casa Editrice Adelphi che ringraziamo.

    Si rimandano i lettori all’opera completa, pubblicata dalla Casa Editrice Adelphi Edizioni – via S. Giovanni sul Muro, 14 – 20121 Milano – Tel.             02 72 00 09 75       – Fax 02 890 10 337 – info@adelphi.it

    PICCHI E VALLI

    Ho intitolato questo scritto Picchi e valli, e mi sono riproposto di tenere separate queste immagini per metterle in contrasto il più nettamente possibile. Rientra nel distinguere e nel tenere separato anche l’emozione dell’odio. Così io mi esprimerò con odio e con incalzante polemica, con eris, con polemos, che secondo Eraclito, l’antenato più antico della psicologia, è padre di tutte le cose.

    Il significato attuale del termine «picco» fu elaborato da Abraharn Maslow, che a sua volta riecheggiava un’immagine archetipica, perché i picchi sono stati sempre connessi con lo spirito fin dal Monte Sinai e dal Monte Olimpo, dal Monte Patmos e dal Monte degli Olivi, e dal Monte Moriah del primo patriarca Abramo. E si potrebbe facilmente enumerare ancora una dozzina di monti dello spirito. Non servono grandi spiegazioni per capire che l’esperienza del picco è un modo per descrivere l’esperienza pneumatica, e che lo scalare le vette significa essere in cerca dello spirito, oppure è la spinta dello spirito alla ricerca di se stesso. Il linguaggio che usa Maslow per indicare l’esperienza del picco – «auto-convalidante, auto-giustificante, che porta in sé il proprio intrinseco valore», la somiglianza con Dio, la vicinanza a Dio, l’assolutezza e l’intensità – è un modo tradizionale di descrivere le esperienze spirituali. Maslow merita la nostra gratitudine per aver reintrodotto pneumna nella psicologia, anche se questa sua operazione comporta la vecchia confusione tra pneuma e psiche. Ma che ne è della psyche della psicologia?

    Un’esposizione più ampia richiedono, invece, le valli, proprio come tutto ciò che ha a che fare con l’anima ha bisogno di essere immaginato con la maggior accuratezza possibile. Il termine vale, «valle», ci viene dai romantici: Keats lo usa in una lettera, e io ho ripreso questo suo brano come motto psicologico:

    «Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Allora scoprirete a che serve il mondo».

    Nell’uso religioso corrente della nostra cultura, valle è un luogo emozionale depresso – la valle di lacrime; Gesù la percorse, questa valle solitaria, la valle dell’ombra della morte. L’Oxford English Dictionary alla voce «Valley» dà come prima definizione: «long depression or hollow»: lunga depressione o zona concava. Tra i significati di vale e valley sono comprese intere sottocategorie che si riferiscono a tutte quelle cose tristi, come il passare degli anni e la vecchiaia, il mondo visto come luogo di preoccupazioni, di dolore, di pianto, oppure come scena di ciò che è mortale, terreno, umile, basso.

    Esiste anche un’associazione delle valli con il femminile (mentre non c’è per i picchi) e la troviamo nel Tao tê ching,VI; nelle metafore morfologiche freudiane, dove la valle boscosa percorsa da un fiume e popolata di vita animale è un equivalente della vagina; e anche nella mitologia, che ci presenta le valli come i luoghi delle ninfe. Una delle spiegazioni etimologiche della parola «ninfa» considera queste figure come la personizzazione di quelle velature, di quelle nuvole di foschia che quasi si aggrappano alle valli, ai fianchi delle montagne e alle sorgenti. Le ninfe velano la nostra visione, ci impediscono di guardare lontano, ci rendono miopi, ci trattengono – niente visioni che spaziano lontano, niente proiezioni o profezie, come dai picchi.

    Anche il quattordicesimo Dalai Lama del Tibet usa la coppia picco/valle. In una lettera (a Peter Goullart) scrive: «Il rapporto che lega l’altezza alla spiritualità non è puramente metaforico. È una realtà fisica. Su questo pianeta la gente più spirituale vive nei luoghi più alti. E così anche i fiori più spirituali… Gli aspetti più alti e lievi del mio essere io li chiamo spirito, mentre quelli oscuri e pesanti li chiamo anima.

    «L’anima si trova a suo agio nelle profonde valli ombrose. Là crescono torbidi e pesanti fiori impregnati di nero. Scorrono come tiepido sciroppo i fiumi, e si riversano in immensi oceani di anima.

    «Lo spirito è una terra di picchi alti, bianchi, e di laghi e fiori scintillanti come gioielli. La vita è rarefatta e il suono percorre grandi distanze.

    « Esiste una musica d’anima, un cibo d’anima, una danza d’anima e un amore d’anima…

    «Quando l’anima trionfò, i pastori vennero alle lamasserie, perché l’anima è comunitaria e ama l’unisono, il brusio. Ma l’anima creativa anela allo spirito, e viene il giorno in cui dai labirinti delle lamasserie, i più belli fra i monaci dicono addio ai compagni, e intraprendono il viaggio solitario verso i picchi, per congiungersi là con il cosmo…

    Nessuno spirito rimugina sull’elevata desolazione; la desolazione è infatti delle profondità. così come il rimuginare. A queste altezze lo spirito lascia l’anima molto indietro…

    «La gente deve scalare la montagna non semplicemente perché essa è lì, ma perché la divinità piena di anima deve essere congiunta allo spirito».

    Vorrei far notare una o due piccole curiosità contenute in questa lettera, che possono aiutarci a penetrare meglio nel contrasto fra anima e spirito. In primo luogo, avete notato quanto sia importante essere letterali e non «puramente metaforici», quando si assume il punto di vista spirituale? E questo punto di vista, inoltre, richiede la sensazione fisica dell’altezza, l’« es-altazione ». Avete notato poi che sono i più belli dei monaci a lasciare i confratelli, e che la loro unione è con il cosmo, un’unione che è paragonata alla neve? (Un tempo, nella nostra tradizione occidentale della caccia alle streghe, in un periodo ossessivamente preoccupato di proteggere l’anima dagli spiriti malvagi – e viceversa –, il diavolo veniva riconosciuto per il pene gelato e per lo sperma freddo). Avete notato, infine, i due tipi di simbolismo dell’Anima: i fiori oscuri, grevi, torbidi presso i fiumi di tiepido sciroppo, e i fiori dai petali verginali dei ghiacciai?

    Sto cercando di far in modo che siano le immagini del linguaggio a delineare la nostra distinzione. È questo il modo di procedere dell’anima, la via dei sogni, delle riflessioni, delle fantasie, delle rêverie, dei dipinti. Possiamo riconoscere ciò che è spirituale dallo stile delle immagini e del linguaggio; e la stessa cosa vale per l’anima. Dare delle definizioni di spirito e di anima – l’uno astratto, unificato, concentrato; l’altra concreta, molteplice, immanente – pone la distinzione e il problema nel linguaggio dello spirito. E come se avessimo già lasciato la valle; stiamo facendo delle distinzioni come un perito agrimensore che rileva che cosa appartiene a chi, secondo logica e legge e non secondo immaginazione.

    Dal punto di vista dell’anima e della vita nella valle, salire sulla montagna è sentito come una diserzione. I Lama e i santi «dicono addio ai loro compagni». Dal momento che io sono qui come avvocato difensore dell’anima, ho il compito di presentare il suo punto di vista, che si manifesta nella lunga, concava depressione che è la valle, quel chiuso abbattimento interiore che accompagna l’esaltazione dell’ascensione. L’anima si sente lasciata indietro e la vediamo reagire con i risentimenti di Anima. Gli insegnamenti spirituali mettono spesso in guardia l’iniziato contro i rimuginamenti introspettivi, la gelosia, il rancore e la meschinità, contro l’attaccamento a sensazioni e ricordi. Questi ammonimenti presentano un’accurata fenomenologia di come si sente l’anima quando lo spirito le dice addio.

    Se una persona è in terapia e contemporaneamente segue una disciplina spirituale – Vedanta, esercizi di respirazione, meditazione trascendentale, ecc. – può accadere che il maestro spirituale consideri l’analisi come un perder tempo in sciocchezze e illusioni. L’analista invece può considerare gli esercizi spirituali come una falla nel vaso psichico, oppure una fuga nella fisicità (una somatizzazione, una sorta di sofisticata conversione isterica) o nella metafisica. Ma entrambe le condizioni crescono nella stessa siepe, perché entrambe fisicalizzano, sostanzializzano, ipostatizzano, considerano i loro concetti come cose. Entrambe perdono il «come se», l’approccio metaforico mercuriale, dimenticando che anche la metafisica è un sistema della fantasia, sebbene debba per sfortuna considerare se stessa letteralmente reale.

    Oltre a queste reciproche accuse di futilità, c’è un’altra questione essenziale che, nelle nostre poltrone psicoanalitiche, ci poniamo: chi sta facendo il viaggio? Non si tratta qui di una discussione sul valore relativo di dottrine o mete, né di un’analisi delle visioni viste e delle esperienze vissute. Il punto essenziale non è l’analisi del contenuto delle esperienze spirituali, perché esperienze simili le abbiamo viste nell’ospedale provinciale, nei sogni, nei viaggi della droga. Avere visioni è facile. La mente non cessa mai di stillare e far sgorgare all’esterno la linfa e il succo della fantasia, e di congelare poi questo gioco in paranoidi monumenti di verità eterna. E allora quegli eventi di luce, di sincronicità, di visione spirituale, apparentemente sconvolgenti, che si hanno durante un viaggio con l’LSD non sono forse banali – vedere l’universo rivelato nella cucitura di un’asola o nel disegno del linoleum – banali almeno quanto ciò che succede durante una normale seduta terapeutica, in cui si cerca di districare i grovigli della scena domestica quotidiana?

    La questione di cosa sia banale e cosa significativo dipende dall’archetipo che dà significato, e questo, dice Jung, è il Sé. Una volta costellato il Sé, il significato ne consegue. Ma come per ogni evento archetipico, anch’esso ha il suo lato sciocco e indifferenziato. Si può essere sopraffatti da una pienezza di significato mal riposta, inferiore, paranoide, così come si può essere sopraffatti dall’eros, e la nostra anima (Anima) essere sottoposta agli spasimi di un amore disperato, ridicolo. La sproporzione tra il contenuto banale di un evento sincronistico da una parte, e dall’altra l’enorme sensazione di significato che ad esso si accompagna, dimostra ciò che intendo dire. Come una persona che è sprofondata in un innamoramento, così la persona che è sprofondata nel significato inizia quel processo di autovalidazione e di autogiustificazione di quelle banalità che appartengono all’esperienza dell’archetipo presente in ogni complesso e che formano parte della sua difesa. Non fa molta differenza, quindi, dal punto di vista psicodinamico, che si sprofondi nell’Ombra e si giustifichino i nostri disordini della moralità, oppure nell’Anima e si giustifichino i nostri disordini della bellezza, o nel Sé e si giustifichino i nostri disordini del significato. La paranoia è stata definita un disordine del significato: può essere riferita, cioè, all’influenza di un archetipo indifferenziato del Sé. Fa parte di questo disordine proprio la sistematizzazione, che vorrebbe, attraverso lo strumento difensivo della dottrina della sincronicità, dare un profondo ordine significativo a una banale coincidenza…

    Il rapporto tra l’analista dell’anima e l’evento spirituale non riguarda dottrine e contenuti. Il nostro interesse è per la persona, per chi sta salendo la montagna. Ci domandiamo anche: chi è già lassù e chiama?

    Questa domanda non è poi così diversa da quella insita nelle discipline spirituali, ed è cruciale. Non è infatti il viaggio con le sue stazioni e i suoi percorsi, non il grado dell’ascensione, né i gradini della scala, e nemmeno il picco e l’esperienza del picco, né il ritorno – è la persona dentro la persona che ci spinge a compiere l’impresa. Ed ecco che ricadiamo nella storia, l’Io storico, la nostra forza di volontà nord-occidentale, proprio quella forza di volontà che portò verso la California, tanto per cominciare, missionari e cacciatori, bovari, allevatori di bestiame, piantatori, gente dell’Oklahoma e dell’Arkansas, coltivatori di aranceti e di vigne, seguaci di qualche setta, cercatori d’oro, lavoratori delle compagnie ferroviarie. Tutto questo può essere lasciato sulla porta, come si fa con un paio di scarpe vecchie e polverose al momento di entrare in una stanza di meditazione profumata e ovattata? Si può chiudere la porta in faccia a chi in primo luogo ti ha condotto fino alla soglia?

    Il movimento da un settore all’altro del cervello, dalla tediosa vita quotidiana del supermercato alla supercoscienza, dalle cose insulse, trascurabili, alla trascendenza, in due parole, l’approccio della «modificazione dello stato di coscienza», nega questo Io storico. È un approccio che risale a Saulo che divenne Paolo, la conversione nell’opposto, disarcionato in un lampo.

    Il compromesso tra lo spirito che si spinge verso l’alto da una parte e la ninfa, la valle, o l’anima dall’altra, lo potremmo immaginare come il matrimonio Puer-Psiche. Di esso si è parlato in molti modi – per esempio, nel Mysterium coniunctionis di Jung come di una congiunzione alchemica di sostanze personizzate, oppure nella favola di Eros e Psiche di Apuleio. Immaginiamo anche noi, secondo questi esempi, in uno stile personizzato. Potremo allora sentire i diversi bisogni presenti in noi come la volontà di persone distinte, dove Puer è il Chi nel volo del nostro spirito, e Anima (o psiche) è il Chi nella nostra anima.

    Ora, il punto essenziale di Anima è proprio quello che si è sempre detto a proposito della psiche, cioè che è insondabile, inafferrabile. Perché l’Anima, «l’archetipo della vita», come l’ha chiamata Jung, è quella funzione della psiche che è la sua vita effettiva, la confusione in cui essa si trova attualmente, la sua scontentezza, le sue disonestà e le sue elettrizzanti illusioni, insieme alle speranze di un esito migliore come se il passato non esistesse. Le questioni che essa presenta sono infinite, come profonda è l’anima, e forse proprio questi «problemi» labirintici infiniti sono la sua profondità. L’Anima c’ingarbuglia, ci distorce, ci contorce fino al punto di rottura, realizzando la «funzione di relazione», un’altra definizione di Jung, che diventa convincente soltanto quando ci rendiamo conto che relazione significa perplessità.

    Questa confusione della psiche è ciò che la coscienza puer ha bisogno di sposare per poter intraprendere la «guerra dei sessi». Gli avversari dello spirito sono in primo luogo i contrasti sotto la sua pelle: gli umori del risveglio, i sintomi, le prevaricazioni in cui resta impigliato e la vanità. Il Puer ha bisogno di combattere l’irritabilità di questa «donna» interiore, la sua passiva pigrizia, la sua predilezione per piaceri e lusinghe – tutto ciò che l’analisi definisce «autoerotismo». Questo combattere è un combattere con, più che un combattere contro Anima per vincerla o allontanarla; è un abbracciarsi stretto, teso, devoto in molte posizioni di rapporto, dove la follia del Puer si scontra con la confusione e la deviazione psichica e dove questa follia è riflessa in quello specchio distorto. Non si tratta di un combattere chiaro e lineare. Non si sa nemmeno quali armi usare, né dove sia il nemico, perché il nemico sembra essere la mia stessa anima, il mio cuore e le passioni alle quali sono più affezionato. Al Puer non rimane altro che la sua follia, alla quale, attraverso la lotta, è ricorso tanto spesso che impara a prendersene cura come di qualcosa di prezioso, come l’unica cosa che esso e veramente, la sua unicità e il suo limite. Il riflesso nello specchio dell’anima ci consente di vedere la follia dei nostri slanci spirituali, e l’importanza di questa follia.

    Ecco in che cosa consistono esattamente la lotta con l’anima e la psicoterapia come luogo di questa lotta: scoprire la propria follia, il proprio spirito con la sua unicità; e vedere la relazione tra il proprio spirito e la propria follia; che c’è follia nel proprio spirito e spirito nella propria follia.

    Lo spirito ha bisogno di un testimone di questa follia. O, in altre parole, il Puer prende alla lettera i suoi impulsi e la sua meta, se non c’è la riflessione che rende possibile una comprensione metaforica dei suoi impulsi e della sua meta. Essendo testimone, in quanto recettiva sperimentatrice e immaginatrice, delle azioni dello spirito, l’anima può contenere, nutrire ed elaborare nella fantasia l’impulso del Puer, conferirgli sensuosità e profondità, coinvolgerlo nelle illusioni della vita, prendersene cura nel bene e nel male. Allora l’individuo in cui queste due componenti si stanno sposando comincia a portare con sé il proprio specchio riflettente e la propria eco. Diventa consapevole di cosa significhino in termini di psiche le proprie azioni spirituali. Lo spirito rivolto verso la psiche, anziché abbandonarla in favore dei luoghi alti e dell’amore cosmico, trova sempre maggiori possibilità di vedere in trasparenza le opacità e gli offuscamenti della valle. La luce del sole penetra nella valle. La Parola prende parte al pettegolezzo e al chiacchiericcio.

    Lo spirito chiede alla psiche di aiutarlo e non di distruggerlo, di soggiogarlo o di accantonarlo come stranezza o follia. E all’analista che agisce in nome della psiche non chiede di mettere l’anima contro l’avventura del Puer ma di preparare il desiderio che ciascuno ha dell’altro…

    Una volta che lo spirito si sia rivolto verso l’anima, questa può considerare in modo nuovo le proprie necessità: non più dei tentativi di adattarsi alle esigenze di civilizzazione di Era, o all’insistenza di Venere che l’amore è il solo Dio, o alle cure mediche di Apollo, o persino al fare anima di Psiche. La psiche non presenta i suoi sintomi e le sue richieste nevrotiche perché s’impari soltanto l’amore, o in funzione della comunità, o di matrimoni e famiglie migliori, o dell’indipendenza. Tali richieste cercano anche ispirazione, ampi orizzonti, eros ascendente, vivificazione e intensificazione (non rilassamento), radicalità, trascendenza e significato – in breve la psiche ha bisogni spirituali, che la nostra parte puer può soddisfare. L’anima chiede che le sue preoccupazioni non siano liquidate come cose banali, ma vengano viste in trasparenza alla luce di prospettive più elevate e più profonde, le verticalità dello spirito. Quando ci rendiamo conto che i nostri malesseri psichici indicano una fame spirituale che va oltre ciò che offre la psicologia, e che la nostra aridità spirituale segnala un bisogno di acque psichiche oltre a ciò che offre la disciplina spirituale, allora cominciamo a mettere in moto sia la terapia sia la disciplina spirituale.

    Il matrimonio Puer-Psiche porta, innanzitutto, a un aumento di interiorità. Costruisce uno spazio circondato da pareti, il talamo o camera nuziale, che non è né picco né valle, bensì un luogo dove entrambi possono essere guardati attraverso le finestre, o tenuti fuori chiudendo la porta. Questa accresciuta interiorità comporta che ogni nuova ispirazione del Puer, ogni idea fervida, in qualsiasi momento della vita di chiunque, venga resa psichica. Sarà all’inizio trascinata per le vie labirintiche dell’anima, che la lascia senza fiato e la fa rallentare e la nutre da molti lati (le «molte» nutrici e le «molte» menadi), facendo evolvere lo spirito da una mania a senso unico per i movimenti ascensionali al polytropos, la multi-lateralità del vecchio eroe mercuriale Ulisse. L’anima adempie il servizio di dare obliquità alla freccia puer, portando alle coazioni sulfuree dello spirito il sale durevole dell’anima.

    (Saggi sul Puer, pp. 88-91, 96-99, 101-105)

    ANIMA E SPIRITO

    Qui dobbiamo ricordare che le vie dell’anima e quelle dello spirito coincidono solo a volte e che la massima divergenza si ha in rapporto alla psicopatologia. Uno dei principali motivi per cui insisto sulla patologizzazione è appunto l’esigenza di mettere in luce le differenze tra anima e spirito, per porre fine alle frequenti confusioni tra psicoterapia e discipline spirituali. Esiste una differenza tra yoga, meditazione trascendentale, contemplazione e ritiro religiosi e finanche lo Zen da una parte, e la psicologizzazione della psicoterapia dall’altra. Una differenza che si fonda sulla distinzione tra spirito e anima.

    Oggi abbiamo pressoché perduto questa differenza, ben nota invece a quasi tutte le culture, anche a quelle di tipo tribale, che su di essa articolano la loro esistenza. Le nostre distinzioni sono cartesiane: tra la realtà esterna e tangibile e gli stati interni della mente, oppure tra il corpo e un confuso conglomerato di mente, psiche e spirito. Abbiamo perduto la terza posizione, quella mediana, che nella nostra passata tradizione, come anche in altre, era la sede dell’anima: un mondo fatto di immaginazione, passione, fantasia, riflessione, né fisico e materiale, né spirituale e astratto, e tuttavia legato agli altri due. La psiche, avendo un regno suo, ha anche una sua logica, la psicologia, che non è né una scienza di cose fisiche, né una metafisica di cose spirituali. A questo regno appartengono anche le patologie psicologiche. Avvicinarsi ad esse dall’uno o dall’altro lato, cioè vederle in termini di malattia medica o di sofferenza, peccato e salvezza religiosi, manca il bersaglio dell’anima…

    Il punto di vista spirituale si postula sempre come superiore ed è particolarmente a suo agio in una fantasia di trascendenza fra principi ultimi e assoluti.

    Per mettere in luce le differenze, dobbiamo quindi rivolgerci non alla filosofia, ma al linguaggio dell’immaginazione. Le immagini dell’anima mostrano innanzitutto delle connotazioni prevalentemente femminili. In greco, psyche indica non solo l’anima, ma anche una farfalla notturna e una fanciulla particolarmente leggiadra nella leggenda di Eros e Psiche. La nostra discussione sull’anima come idea femminile personificata, nel capitolo precedente, si colloca su questa linea di pensiero. Avevamo visto là molti dei suoi attributi ed effetti, e in particolare la relazione esistente tra la psiche e il sogno, la fantasia e l’immagine. Questa relazione è stata espressa anche mitologicamente, sotto forma di legame tra l’anima e il mondo notturno, il regno dei morti e la luna. Possiamo ancora cogliere la natura più essenziale della nostra anima nelle esperienze di morte, nei sogni della notte e nelle immagini «lunatiche» della follia.

    Il mondo dello spirito è quanto mai diverso. E pieno di immagini sfolgoranti, di fuoco, di vento, di sperma. Lo spirito è rapido e rende vivo quello che tocca. La sua direzione è verticale e ascendente; esso è diretto come una freccia, affilato come un coltello, arido come la polvere, fallico. È maschile, è il principio attivo che produce forme, ordine e distinzioni chiare. Sebbene vi siano molti spiriti e molti tipi di spirito, la nozione di «spirito» è venuta concentrandosi nell’archetipo apollineo, nelle sublimazioni delle discipline superiori e astratte, nella mente intellettuale, negli stati di raggiunta perfezione e purificazione.

    È possibile avere esperienza dell’interazione tra l’anima e lo spirito. Nei momenti di concentrazione intellettuale o di meditazione trascendentale, è l’anima che invade con impulsi naturali, ricordi, fantasie e paure. In momenti di nuove intuizioni o esperienze psicologiche, lo spirito vorrebbe immediatamente estrarre da esse un significato, metterle all’opera, concettualizzarle in regole. L’anima resta aderente al regno dell’esperienza e alle riflessioni entro l’esperienza. Si muove indirettamente, con ragionamenti circolari, dove le ritirate sono altrettanto importanti delle avanzate; preferisce i labirinti e gli angoli, dà alla vita un senso metaforico servendosi di parole come chiuso, vicino, lento e profondo. L’anima ci coinvolge nella massa confusa dei fenomeni e nel flusso delle impressioni; è la parte «paziente» di noi. L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. Essa è acqua per il fuoco dello spirito, è come una sirena che inviti lo spirito eroico nelle profondità delle passioni per estinguere la sua certezza. L’anima è immaginazione, e un cavernoso deposito di tesori – per usare un’immagine di sant’Agostino – confusione e ricchezza insieme. Lo spirito, al contrario, sceglie la parte migliore e si sforza di ricondurre tutto all’Uno. Guarda in alto, dice lo spirito, distànziati; c’è qualcosa al di là e al di sopra, e quello che sta sopra è da sempre e per sempre, ed è sempre superiore.

    Essi si distinguono anche per un altro aspetto: lo spirito ricerca le cose ultime e il suo viaggio si svolge lungo una via negativa. «Neti, neti» esso dice «questo no, quello no». La porta è stretta, soltanto le prime o le ultime cose possono entrare. L’anima ribatte: «Sì, anche questo ha il suo posto, può trovare il suo significato archetipico, fa parte dì un mito».

    Nel recipiente dell’anima tutto si cuoce, tutto viene accolto, tutto può diventare anima; e accogliendo nella propria immaginazione ogni sorta di eventi, lo spazio psichico cresce.

    Ho tenuto distinti anima e spirito per poterne far sentire meglio le differenze, e soprattutto per dare un’idea di che cosa accade all’anima allorché i suoi fenomeni vengono visti dalla prospettiva dello spirito: si ha l’impressione che l’anima debba venir disciplinata, i suoi desideri imbrigliati, l’immaginazione svuotata, i sogni dimenticati, la partecipazione inaridita. Perché l’anima, dice lo spirito, non può conoscere, né verità, né legge, né causa. L’anima è fantasia, tutta fantasia. Le mille patologizzazioni di cui l’anima è erede in virtù dei suoi attaccamenti naturali alle diecimila cose della vita mondana saranno curate facendo dell’anima un’imitazione dello spirito. La via classica era l’imitatio Christi; ora vi sono altri modelli, i guru indiani (orientali o pellerossa) che, se seguiti alla lettera, mettono la nostra anima su un sentiero spirituale che si presume conduca alla liberazione dalle patologie. La patologizzazione, così dice lo spirito, è per sua stessa natura limitata all’anima; soltanto la psiche può essere patologica, come è attestato dalla parola stessa psicopatologia. Non esiste una «pneumopatologia» e, come ha sostenuto una tradizione tedesca, la malattia mentale («Geisteskrankheit») non può esistere, poiché lo spirito non può patologizzare. Perciò all’anima occorrono discipline spirituali che le permettano di conformarsi ai modelli enunciati per lei dallo spirito.

    Ma dal punto di vista della psiche il movimento ascendente, sia umanistico sia orientale, assomiglia alla rimozione. È assai possibile che vi sia più attività psicopatologica quando ci sforziamo di trascendere che non quando siamo immersi nella patologizzazione. Perché ogni tentativo di autorealizzazione senza un pieno riconoscimento della psicopatologia che risiede, come disse Hegel, intrinsecamente nell’anima, è già in sé patologico, una forma di autoinganno. Una siffatta autorealizzazione non è altro che un sistema delirante paranoide, o addirittura una sorta di ciarlataneria, il comportamento psicopatico di un’anima svuotata.

    (Re-visione, pp. 131-35)

    Qual è il contributo della psicologia a quest’età di psicopatia? O meglio, qual è il contributo delle discipline spirituali? Le discipline spirituali vi contribuiscono, a mio avviso, perché non provano vero interesse nell’accogliere l’altro. Alle discipline spirituali interessa il catechismo, interessano, per esempio, le tecniche volte al raggiungimento di certi stati di perfezione spirituale e il sistema di regole su cui tale perfezionamento poggia. Interessano i vari processi della mente; non l’osservazione della natura delle persone, a cui non attribuiscono valore in sé. Sentimenti, rapporti, percezioni, immagini, fantasie, sogni, tutte queste forme di differenziazione a livello psicologico sono cose da superare e da lasciarsi alle spalle.

    Una coscienza, una libertà prive di immagini, una luce bianca: a questo si aspira. E nelle discipline spirituali è importantissimo il catechismo di una persona: è importante conoscere la dottrina e tutte le regole, tutti i santi o tutti i maestri. La natura del maestro, quella no, non è considerata importante. E allora abbiamo maestri, e sono tanti, che risultano essere dei mascalzoni, che vanno con quaranta donne per volta, che possiedono quaranta Cadillac o quaranta milioni di dollari…

    Invece la mia visione del mondo si fonda sull’attaccamento: viviamo in una Gemeinschaft, non siamo monadi. Coloro che scelgono l’altra via, la via del distacco, che se ne vadano sul Monte Athos o in Tibet, dove non c’è bisogno di essere coinvolti nelle miserie della vita quotidiana. L’attaccamento al mondo, la continuità con il mondo sono invece molto importanti e secondo me le discipline spirituali sono parte del dissesto del mondo. Lo abbandonano al suo inquinamento ai suoi veleni, alla sua corruzione e se ne stanno al sicuro sulle loro posizioni, protette dalla loro filosofia difensiva.

    Secondo me è orribile che si possa essere così pieni di superbia, la hybris dei greci, da credere che la propria piccola, risibile trascendenza personale sia più importante del mondo e della bellezza del mondo: degli alberi, degli animali, della gente, delle case, della cultura. Ma qual è l’attrazione psicologica di questa trascendenza? Che cosa sta succedendo nella psiche, da rendere una persona così incredibilmente egocentrica? Così egocentrica da dire: «Addio fratelli, addio figli, addio moglie, addio fiori, addio tutto. Me ne vado sulle vette innevate. Per me voglio la liberazione dal ciclo di morte e rinascita, una libertà tutta bianca e senza immagini». E che cosa sta mai succedendo nella psiche, da rendere così diffuso ed efficace questo sistema delirante? Secondo me, si è caduti in preda all’archetipo dello spirito.

    (On Soul and Spirit, p. 10)

    SOLUZIONI ALCHEMICHE

    Il sale è la sostanza minerale o fondamento oggettivo dell’esperienza personale che rende possibile l’esperienza. Niente sale, niente esperienza, ma solo uno scorrere e un dissiparsi di eventi senza corpo psichico. Il sale, dunque, è ciò che fa sì che gli eventi siano vissuti con i sensi e con il sentimento, dando a ciascuno di noi il senso del personale: le mie lacrime, il mio sudore e sangue, il mio gusto, il mio valore. L’intero opus alchemico dipende dalla capacità di esperire soggettivamente. Perciò nel Tractatus aureus è detto: «Colui che opera senza sale non farà mai levare i corpi morti». Se non si opera con il sale, le materie sono solo macrocosmiche e chimiche, poste là fuori, cose morte. Queste esperienze intensamente personali, che danno gusto e sapore agli eventi, sono nondimeno comuni a tutti: sono mie eppure di tutti, come il sangue, come l’urina, come, appunto, il sale. In altre parole, il sale agisce da terreno su cui poggia la soggettività («Ciò che rimane sul fondo della storta è il nostro sale, vale a dire la nostra terra »), rende possibile ciò che la psicologia chiama il vissuto di un’esperienza. È lì dunque, a quel fondo, che dobbiamo rivolgerci per estrarre il nostro sale.

    Dalla prospettiva del sale alchemico, il vissuto soggettivo assume un significato radicalmente diverso da prima. Possiamo immaginare le nostre profonde ferite non più soltanto come lacerazioni da rimarginare, ma come cave di sale dalle quali trarre un’essenza preziosa e senza le quali l’anima non può vivere. Il fatto che si ritorni sempre di nuovo a queste profonde ferite, pieni di rimorso e rimpianto, di pentimento e desiderio di vendetta, è indicativo di un bisogno psichico che trascende una mera, meccanica coazione a ripetere. Vuol dire che l’anima possiede un impulso a ricordare; è come un animale selvatico che torna a leccare gli stessi terreni salati; l’anima si lecca le ferite per trarre di lì sostentamento. Noi produciamo sale quando soffriamo e, elaborando le nostre sofferenze, aggiungiamo sale, guarendo così l’anima della sua malattia da carenza di sale…

    Sale, un pizzico di sale: bisogna sentire il pizzicore dell’evento che brucia; laddove il piombo sembra richiedere tempo, il tempo dell’attesa. L’effetto della cura a base di sale è un nuovo senso di ciò che è accaduto, un nuovo apprezzamento della sua virtù per l’anima…

    Si può estrarre sale, inoltre, da qualunque cosa sia stabile. In quanto principio di stabilità, il cui segno alchemico era il quadrato, il sale può essere estratto dalle rocce dell’esperienza concreta, da quegli elementi fissi che contrassegnano la nostra vita con punti fermi. E questi punti, questi luoghi non sono soltanto fatti concreti (la mia laurea, la mia proprietà, il mio incidente automobilistico, il mio stato di servizio in guerra, il mio divorzio); sono anche i luoghi dove il corpo psichico è messo sotto sale per conservarlo. Quelle rocce, se riconosciute e vissute come mie, fanno parte della storia della mia anima, là dove essa è stata messa sotto sale dagli aspetti fissi dell’esperienza, cristallizzando un poco la mia natura e proteggendomi da infiammazioni e volatilizzazionì…

    Il sale non viene prodotto con il fuoco, ma con successive dissoluzioni. Il sale è solubile. Il piangere, il sanguinare, il sudare, l’orinare fanno affiorare il sale dalle sue miniere interiori, sotterranee. Il sale si manifesta nei nostri umori, che sono il fluido attraverso il quale esso affiora alla superficie. «Nel corso dell’opera esso [il sale] diviene simile al sangue» (CW, vol. XIV, par. 337; trad. it., vol. XIV, p. 152, nota 478).

    I momenti di dissoluzione non sono momenti di mero collasso; essi fanno scaturire dalle incrostazioni dell’abitudine un senso di valore umano personale: «Sono anch’io un essere umano, degno del sale che mangio»; di lì il mio sangue, sudore e lacrime…

    Visti dalla prospettiva del sale, i traumi infantili sono momenti di iniziazione al senso di essere un «me», con un’interiorità personale, soggettiva. Noi tendiamo a fissarci sulla cosa che ci è stata fatta e sulla persona che ce l’ha fatta: risentimento, desiderio di vendetta. Ma ciò che conta psicologicamente è che qualcosa sia stato fatto: il colpo, il sangue, il tradimento. Come la cenere che viene strofinata sulle ferite nei riti di iniziazione per purificarle e farle spurgare, l’anima è segnata dal suo trauma. Nel battesimo cristiano si usa ancora toccare il corpo con il sale e nella Pasqua ebraica il sale viene mangiato a commemorazione del trauma. Il trauma è una cava di sale; è un luogo fisso per riflettere sulla natura e sul valore del mio essere personale, di dove ha origine la memoria e ha inizio la storia personale. Quegli eventi traumatici fanno nascere nell’anima il senso di essersi incarnata come soggetto esperiente sempre vulnerabile.

    Paradigma del «guardare indietro» – del ricordare – è la storia della moglie di Lot. («Lot» e «moglie di Lot» erano espressioni usate in alchimia per indicare il sale: vedi il Dizionario di Johnson). Poiché non seppe trattenersi dal guardare indietro alle rovine di Sodoma, dalla cui distruzione erano stati salvati, la moglie di Lot fu trasformata in una statua di sale. I commentatori ebraici dicono che fu l’amore materno a indurla a guardare indietro per accertarsi che le figlie sposate li seguissero; e anche i commentari cristiani al passo di Luca (Lc, 17,32) vedono l’origine del suo gesto nel riaffacciarsi alla mente di familiari e parenti, in un personalismo degli affetti. Evidentemente, le fissazioni familiari sono a loro volta miniere di sale. Le delusioni, gli affanni, i bruciori dell’amore che costellano il complesso materno (le serate a sfogliare l’album delle fotografie, i pegni sentimentali) sono modi in cui la psiche produce sale, rivolgendosi nuovamente agli eventi per volgerli in esperienze.

    Il pericolo in questi casi è sempre la fissazione, fissazione al ricordo, al trauma infantile, o a una nozione letteralizzata e personalizzata dell’esperienza stessa: «Io sono la mia esperienza». Paracelso infatti definì il sale il principio di fissazione (Il, 366).

    (Salt, pp. 117-20)

    La freddezza dell’immagine, per esempio della luna o del mondo infero, e il freddo distacco grazie al quale vediamo in trasparenza fino a scorgere l’immagine, possono finire afferrati, come dall’esterno, dal calor inclusus, l’innato calore dell’amore che nell’immagine si annida. Sicché, entro ogni circostanza sotto il segno dell’argento (fantasia creativa, pensiero intellettuale, riflessione speculare) esisterà una propensione a bruciare con il fuoco dello zolfo. Forse, quanto meno è attivato il calore innato dell’amore dentro l’immaginare (vale a dire quanto meno è manifesto il rame o quanto più è timido e viscoso lo zolfo), tanto più l’argento della psiche è suscettibile di ustioni repentine al suo involucro esterno con il che io intendo l’esteriorizzazione e la letteralizzazione dello zolfo nativo in desideri non più capaci di vedersi come immagini (annerimento dell’argento). Di qui l’importanza di riconoscere, come stiamo cercando di fare in questo capitolo, tutte le implicazioni e i sottintesi dell’argento. Vogliamo attivarlo in modo che non annerisca, in modo che le nostre immagini non rimangano bruciate dalla loro innata vitalità.

    (Silver.I, p. 28)

    La psicologia alchemica condensa in modo ammirevole i due tratti del cuore leonino (la conformità del suo pensiero e la sua oggettivazione) in quella sostanza alchemica, il Sulphur, lo zolfo, che è il principio di «combustibilità», la magna fiamma.«Dove si può trovare questo sulphur?» – domanda Sendivogius, benedettino inglese del quattordicesimo secolo – «In tutte le sostanze, in tutte le cose del mondo: metalli, erbe, alberi, animali, pietre sono il suo giacimento».

    Tutto ciò che d’improvviso si illumina, attira la nostra gioia, si accende di bellezza, ciascun roveto è un dio che arde: questo è lo zolfo alchemico, la faccia infiammabile del mondo, il suo flogisto, la sua aureola di desiderio, enthymesis diffusa. Quella succulenza verso cui tendiamo come consumatori è l’immagine attiva che è in ogni cosa, l’immaginazione attiva dell’anima mundi, che infiamma il cuore e lo provoca a uscire.

    Il momento della conflagrazione è anche, contemporaneamente, quello della coagulazione: zolfo è ciò che aderisce, la mucillagine, la «gomma», ciò che congiunge, l’appiccicosità dell’attaccamento. Lo zolfo letteralizza il desiderio del cuore nell’istante stesso in cui il thymos fa ardere di entusiasmo. Conflagrazione e coagulazione avvengono insieme. Desiderio e oggetto del desiderio diventano indistinguibili. Ciò di cui brucio mi attacca a sé; sono consacrato dall’olio del mio stesso desiderio, prigioniero del mio stesso entusiasmo e dunque in esilio dal mio cuore nel momento in cui più mi sembra mio. Noi perdiamo l’anima nell’istante in cui la scopriamo: «Dolce Elena,» – dice il Faust di Marlowe – «rendimi immortale con un bacio. / Le sue labbra mi suggono l’anima: vedi, essa s’invola!». Perciò Eraclito dovette contrapporre thymos e psyche: «Contro la brama della passione è arduo combattere: qualsiasi cosa voglia, difatti, essa è disposta a pagarla con l’anima».

    Questo amore nel cuore del leone la psicologia oggi lo chiama proiezione coatta. Ma la base alchemica di questo tipo di proiezione è in realtà lo zolfo del cuore che non riconosce di stare immaginando. La himma, il proietto oggettivo, viene letteralizzata negli oggetti del suo desiderio. L’immaginazione è scagliata verso l’esterno, in avanti; quindi non sì tratta tanto di ritirare questi tipi di proiezione (chi li ritira e per metterli dove?), quanto di fare il salto per raggiungere il proietto, reclamandolo come immaginazione, con ciò stesso riconoscendo la pretesa della himma che le immagini siano sempre esperite come corpi sensuosi dotati di autonomia. La proiezione non è un meccanismo uniforme: ne esistono molti stili. Quella del cuore richiede una modalità di coscienza a sua volta leonina: orgoglio, magnanimità, coraggio. Desiderare e vedere in trasparenza il desiderio: è questo il coraggio richiesto dal cuore.

    Come dice Jung: «… lo zolfo indica la sostanza attiva del sole … il fattore che muove la coscienza, ossia da un lato la volontà … e dall’altro l’impulso che si riceve dall’interno» (CW, voI. XIV, par. 151; trad. it., vol. XIV, p. 124). La coazione diventa volizione attraverso il coraggio; è nel cuore che vengono eseguite le operazioni sullo zolfo. Torneremo su queste operazioni nella seconda parte. Adesso basti riconoscere come la proiezione coatta sia un’attività necessaria dello zolfo, il modo in cui questo cuore formula pensieri, dove pensiero e desiderio sono una cosa sola.

    Il nostro leone infuria e il nostro zolfo brucia. Il nostro santo è divorato dai leoni. Non possiamo lasciar scatenare il nostro furore estetico nella sua forma elementare. La psicologia alchemica riconosceva questo bisogno di lavorare sul leone.

    Per la psicologia alchemica, gli zolfi nero e rosso e il leone verde hanno un disperato bisogno di essere sublimati. Un metodo molto conosciuto consiste nel tagliar via le zampe del leone verde, privandolo così della possibilità di fare ingresso nel mondo. Il leone tuttavia sopravvive come succus vitae del cuore, giacché, come apprendiamo da Corbin: «Il verde è il colore del cuore e della vitalità del cuore». Il colore della himma deve essere il verde, come il propulsivo zolfo naturale, che è anche la verde-rossa, cuprea dea Venere. Questo verde ardente va illuminato, lo zolfo va purificato: un imbiancamento del cuore.

    Il rendere bianco il cuore è un opus contra naturam. Ci aspettiamo che il cuore sia rosso come il suo sangue naturale, verde come la speranza del suo desiderio. Questa operazione sul cuore trae origine dal dilemma, proposto dallo zolfo, di un’immaginazione prigioniera nel suo zolfo, che divampa e si coagula nel medesimo istante, di un’immaginazione fusa nel suo desiderio e il suo desiderio fuso con il suo oggetto; e di una himma accecata, incapace di distinguere tra sentimento e immagine, tra immagine e oggetto, tra oggetto e soggetto, tra vero immaginare e illusione.

    L’alchimia parla sovente di sublimare fino a ottenere uno zolfo bianco come neve. L’operazione non consiste soltanto nel calmare e raffreddare, le «colombe di Diana». In realtà la sublimazione comporta di assecondare il fuoco – il simile che cura il simile – di alzare la temperatura fino a calore bianco, in modo da distruggere tutti i coaguli nell’intensità del desiderio, sicché ciò che desideriamo non conta più, nel momento stesso in cui conta di più, l’urgenza stessa del desiderio essendo ora sublimata, traslucida, tutta fiamma.

    (Thought of the Heart, pp. 7-9, 45-46)

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